Eduard Limonov, dissidente comunque mai allineato neppure con la dissidenza, lascia l’Unione Sovietica per vivere a New York dove, continuando a scrivere, vive prima da homeless per poi diventare maggiordomo di un ricco intellettuale. Tra grandi amori che iniziano e finiscono diventa famoso grazie alle sue pubblicazioni in Francia fino a fondare un partito che si definisce bolscevico e nazionalista.

Serebrennikov mette la sua visionarietà al servizio di una personalità difficile da contenere in un film.

La scrittrice Yasmina Reza, nella sua introduzione alla biografia romanzata a lui dedicata da Emmanuel Carrère così definisce Limonov: “Eroe che l’ombra, la monotonia dei giorni e i semplici piaceri della vita quotidiana uccidono più di ogni altra malattia. Il personaggio romanzesco che Limonov sogna di essere vuole il rumore, la luce accecante e la frenesia”.

Come è noto il progetto del film ha visto un passaggio di prese in carico non proprio usuale. Inizialmente doveva dirigerlo Saverio Costanzo che ha poi passato la mano. La scelta è caduta allora su Pawel Pawlikowski che ha scritto una sceneggiatura che è stata utilizzata da Serebrennikov dopo che il regista polacco ha maturato l’idea di non riuscire ad apprezzare fino in fondo la figura di Limonov.

Si tratta di segnali che vanno al di là di semplici o complesse questioni produttive perché finiscono con l’incontrarsi (o lo scontrarsi) con una personalità così debordante e contraddittoria tale da lasciare il segno anche dopo la propria scomparsa. Ben lo sapeva Carrère quando è riuscito a condensare il magma esistenziale dell’uomo in 365 pagine in cui ha approfittato dell’incontro per rivedere anche la propria vita.

Serebrennikov affronta la sfida innanzitutto da russo, cioè da artista capace di leggere nel profondo l’anima tormentata non solo del suo protagonista ma anche quella di un intero popolo in un ampio arco temporale. Lo fa con la visionarietà che gli è propria che gli consente improvvisi mutamenti di stile e di ritmo che accompagnano i movimenti tellurici, ondulatori e sussultori, della vita dello scrittore. Talvolta si attarda sulle vicende sessual sentimentali di Eduard per poi scattare verso la prossima meta, che sia di ribellione protestataria o di disperato bisogno di riconoscimento.

In un affilato cameo interviene quasi specularmente sull’incontro tra Limonov (all’epoca maggiordomo) ed Evtušenko. Se il noto poeta russo viene accusato dall’esule di flirtare sia con il potere interno che con l’Occidente si viene quasi spinti a pensare che, anche contro la sua volontà cosciente, Limonov abbia a sua volta finito con l’essere apprezzato all’Ovest mentre cercava un’audience all’Est. Con la differenza che la sua, questo emerge dal film, è sempre una lotta contro il più forte in favore dei più diseredati anche se questo lo spinge su posizioni assolutiste e politicamente contraddittorie.

Ciò che però finisce con il mancare, al termine della visione, è un vero approfondimento di questa magmatica figura. La suddivisione in capitoli finisce con il risultare non sufficiente perché gli stessi propongono spesso al proprio interno una miriade di vicende. Potrà sembrare quasi sacrilego ai cinefili doc ma Limonov non è contenibile nei 138 minuti di un film. Bisognava avere il coraggio di farne una serie. Magari affidandola ai fratelli D’Innocenzo.

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