La casa di Annie Ernaux sovrasta il paese vecchio di Cergy-Préfecture, una cittadina in espansione a 40 minuti da Parigi. Dal 1975 l’autrice francese abita in una villetta con ampio giardino dominato da una magnolia imponente. All’entrata vegliano due gatti, Sam e Zoe, che ci seguono fino al soggiorno affacciato sull’arcipelago di stagni e sul fiume Oise. La luce entra dalla grande finestra e riverbera sul tavolo circolare dove avverrà l’intervista. È un luogo accogliente e semplice, dal silenzio assoluto. In fondo, poco prima degli scaffali di libri, c’è la porta che conduce allo studio: è aperta e lascia intravedere la scrivania su cui la Ernaux lavora ogni giorno, quasi sempre di mattina. È un ripiano antico, spoglio ma curato, con una sedia appena scostata. Qui hanno preso forma quasi tutte le diciannove opere della scrittrice francese, tra cui Il posto, che la fece conoscere in Francia nel 1983 vincendo il premio Renaudot e che l’ha imposta in Italia nel 2014. La consacrazione d’Oltralpe avvenne con Gli anni, memorie intime e collettive dell’epoca del dopoguerra fino ai giorni nostri, pubblicato nel nostro Paese l’anno scorso. A L’orma editore e al suo traduttore Lorenzo Flabbi va il merito di aver riportato in Italia la narrativa della Ernaux, di cui sarà pubblicato a maggio L’altra figlia , una lunga lettera dedicata alla sorella morta e mai conosciuta. In Francia è appena uscito Mémoire de fille, acclamatissimo da critica e pubblico, in cui la Ernaux racconta il primo vero incontro con un uomo, a diciotto anni, segnato dalla violenza sul corpo e dal principio controverso del desiderio.
Nel 1983, quando Gallimard pubblicò «Il posto», la Francia scoprì la sua voce narrativa inclassificabile e dirompente: non era un romanzo, ma uno scritto autobiografico dedicato alla memoria del padre, condotto con una lingua misurata all’osso, senza traccia di sentimentalismo e con l’occhio chirurgico di una narratrice che non temeva la memoria.
«Il posto è un libro pensato per sette anni e abbozzato come un romanzo. Ma qualcosa non andava, così per molto tempo ho sempre ricercato la voce giusta per raccontare mio padre e la mia famiglia, attraverso gli occhi di una figlia che si prendeva il lusso della distanza. Distanza come sguardo necessario per riportare ciò che è stato. Così ho tenuto l’incipit e ho riscritto queste cento pagine che tentavano di riparare una famiglia. È il libro della riparazione, dedicato alla generazione di uomini che non è riuscita a studiare e ai loro figli. Dirò una cosa terribile, io che non credo più a nessuna forma di religione: è un’opera che deve molto alla figura di Cristo, inteso come sacrificio, come percorso di conoscenza, come simbolo degli uomini; proprio come mio padre, che viene spogliato della regalità genitoriale per essere visto dalla propria figlia per ciò che è. Si avvera una sorta di umanizzazione laddove poteva esserci l’idealizzazione. Ho impiegato nove mesi a riscriverlo e a rispettare un unico imperativo: scrivi solo ciò che sai».
L’invenzione diventa così un surrogato narrativo. Tutto ciò che non è esistito non va raccontato. Ma tutto ciò che è esistito e che viene scelto, viene raccontato per conoscere meglio se stessi.
«Viene raccontato per far esistere. La differenza è questa: io scrivo per cercare di dare esistenza a ciò che andrebbe perso. Non è solo un’opposizione contro l’oblio o la morte, è piuttosto un modo di domare il tempo. Domare il tempo, è questo. Se penso all’opera di Proust, che è stato il grande mattatore temporale della letteratura, si potrebbe dire che l’epoca storica della Recherche fosse messa da parte a favore dell’epoca interiore del suo autore, fatta salva qualche eccezione. A me interessa che l’Io sia legato al Noi, e che ci sia un legame indissolubile tra collettività e individualità attraverso la presenza della Storia».
«Gli anni» è stato scritto con questo intreccio tra intimità personale e collettiva. Non è un romanzo ma in qualche modo lo è, e la sua forma ibrida ha riconcepito un nuovo connotato narrativo. Emmanuel Carrère l’ha definito «un grande libro che ti fa invadere di ammirazione».
«Ringrazio Carrère che non conosco di persona e di cui ho letto tutto. In qualche modo lavora anche lui sulla Storia, seppur con un Io che entra ad armi pari nelle vicende esteriori e nei suoi protagonisti. Ne Gli anni la prima persona singolare e la prima persona plurale dovevano avere lo stesso peso, la difficoltà era questa simmetria. Così ho iniziato a lavorare per immagini, avevo dei frammenti in mente, brevi suggestioni che hanno segnato la mia crescita e quella di una generazione, che poi sono diventati le prime pagine del libro. Il dubbio era come avrei potuto renderli sia intimi che collettivi: non afferravo il registro, per cui ho iniziato ad annotare una cronaca precisa di questa metamorfosi (la Ernaux si alza e va nel suo studio, torna con un libro ciclamino intitolato L’atelier noir, lo sfoglia e legge). “Le immagini spariscono nella mia mente con la sensazione di disgusto che io non abbia trovato la mia voce. Più scrivo e più mi accorgo dell’esistenza di un’altra voce che, come nei sogni, io non arrivo ad afferrare”. Questa confessione è datata 2002 ed è uno degli ultimi dubbi prima che io iniziassi il libro, la prima riflessione l’avevo annotata nel 1982: significa che Gli anni è rimasto incubato più di un terzo della mia vita. La scrittura è stata relativamente breve rispetto a questa fase di ricerca estenuante».
Quasi un decennio per «Il posto», il doppio per «Gli anni»: in ogni sua opera il lavoro di concepimento è sempre così lungo rispetto alla fase di scrittura?
«È come se la fase dell’invenzione venisse sostituita dalla riconquista del reale che è stato. Per riuscire a catturare quel passato e farlo diventare presente, serve un’attesa. E serve tempo per renderlo semplice nella scrittura. Anche adesso che sto per lavorare a un nuovo libro mi sono accorta che lo sto concependo dal 2010 in totale raccoglimento. È necessaria una protezione in cui tutto deve essere sedimentato, segreto, per poi essere riproposto per come è stato vissuto. Niente di più. In questo senso le parole sono fondamentali: les mots justes è ciò che voglio. Sento che c’è una sola parola adatta, sento che quella parola deve essere trovata e usata per quel concetto. Poi mi rileggo e di alcune frasi sono soddisfatta mentre altre le trovo sbagliate, seppur una volta le avessi trovate appropriate. Posso rimanere dei mesi ad aggiustare e non permetto mai a nessuno di toccare i miei libri, a parte piccolissimi interventi. È un processo che passa prima da appunti, poi da una scrittura a mano e infine al computer. In testa ho sempre lo scopo di far affiorare una vicenda che valga la pena far rivivere, nel modo in cui io l’ho assorbita: questa è l’ossessione che mi occupa dal risveglio all’atto della scrittura e anche dopo, sempre. L’unico momento in cui sono più tranquilla è quando faccio del giardinaggio o quando vado all’ipermercato».
Per questo ha pubblicato in Francia «Guarda le luci amore mio», in cui racconta il rituale collettivo e intimissimo della spesa. Nemmeno questo sfugge alla scrittura?
«Niente sfugge alla scrittura. Anche un ipermercato, dove per me poter osservare le persone è allo stesso tempo narrazione e disimpegno da essa. Il consumismo mi annoia, la moda mi annoia, mi interessa veder gironzolare le persone che scelgono, comprano, mostrano davanti agli scaffali molto più di quello che credono di mostrare. Questo vedere è già scrivere, in qualche modo. I grandi negozi sono il luogo in cui le parole mi danno tregua perché sono già parole. Non c’è stato un momento in cui non abbia lottato per difendere. Ho lavorato per dieci anni come insegnante al liceo e per ventitré anni ho preparato corsi per corrispondenza, in più avevo due figli, ho sempre convissuto con un moto di allarme verso la scrittura che poteva sfuggire. Il supermercato è un rituale che mi riportava al pensiero narrativo e alla realtà consumata di cui avrei potuto scrivere. Perché in fin dei conti io non ho mai un’idea improvvisa che mi fa dire “Ecco, l’ho trovata”, ma ho bisogno di questi spazi minori dove poter far confluire una totalità».
Lo spazio minore, dove l’ordinario diventa di colpo rivelazione. Come ne «L’altra figlia» quando racconta l’attimo in cui ascolta furtivamente sua madre parlare di una bambina: è sua sorella, morta prima che lei nascesse e mai nominata in famiglia.
«Eravamo a Yvetot, era il 1950. Avevo dieci anni e mia madre stava parlando con una vicina di casa mentre io giocavo con un’amica. Per un attimo il mio orecchio è andato ai loro discorsi e io ho sentito questa frase: “Lei era più gentile di questa qui”. Mia sorella era morta di difterite due anni prima che io nascessi, nessuno in famiglia me ne aveva parlato. Nessuno la menzionava mai, anche sei io sapevo che qualcosa c’era. Ascoltare mia madre mi ha rivelato che mia sorella “gentile” era la santa, mentre io non potevo che essere l’altra figlia, quella cattiva. La figlia di cui accontentarsi, la figlia terrena. La figlia che assisteva a un processo di beatificazione famigliare e che avrebbe convissuto con l’ombra. Questo libro ne è il frutto, ed è una lettera aperta a mia sorella a cui finalmente posso dire “Io non scrivo perché tu sei morta. Tu sei morta perché io scriva”».
La morte dell’altro non come mancanza, ma come impeto. È un ribaltamento durissimo dello sguardo. Forse comincia qui la sua misura estrema nella scrittura e nell’emotività narrata.
«Non si possono provocare volontariamente le emozioni. Scegliere cosa raccontare e raccontarlo come è, nel modo giusto, rimane tutto ciò che serve al lettore. La distanza dal libro che si sta scrivendo è necessaria per il libro stesso. Mentre L’altra figlia prendeva forma io provavo un grande amore per mia madre, anche se nel libro questo non traspare. Lo stesso accadeva per Il posto, lo sforzo controverso è allontanare il padre mentre si scrive del padre. E c’è un’altra cosa: mentre scrivo non penso a chi leggerà il libro, se qualcuno dei miei familiari o chissà chi, non ci penso mai. Perché non si può misurare l’eredità, tantomeno questa eredità deve alterare il processo creativo. Anche in Mémorie de fille in cui tento di ricostruire il passaggio di una giovane donna attraverso una violenza fisica, non rivedo il passato autobiografico con collera o partecipazione: è il passato e io lo riporto al presente con il peso del presente. È un rituale laico di salvezza che la scrittura può permettersi».
Laicità della scrittura e dell’esistenza, anche se Dio entra nei suoi libri attraverso i credenti che le sono intorno, a partire dalla sua famiglia di origine.
«Sono cresciuta con un’educazione monumentale al cattolicesimo. I miei figli non sono battezzati e io non pratico. In questo ho una formazione simile a Emmanuel Carrère, e sono d’accordo col suo motto: “Non sono abbastanza credente per essere ateo”. Ma bisogna fare attenzione anche a definirsi laici perché anche questa dimensione è diventata estrema, soprattutto in Francia dove ha assunto un connotato religioso. L’attacco ai musulmani è avvenuto in modo massiccio da questa fronda, come fosse una guerra di religioni. La letteratura deve sfuggire a questa categorizzazione, facendo ciò che deve».
Cosa deve fare la letteratura, Ernaux?
«Sbarazzarci delle ombre. E mettere via un po’ di vita, salvandoci dalla sparizione futura. È già questa la salvezza. Non voglio concentrarmi su una fede, non voglio strizzare l’occhio al lettore, non posso concepire opere che vadano incontro all’opinione pubblica come ha tentato di fare Houellebecq con Sottomissione, che ho deciso di non leggere più anche per come tratta il corpo femminile. Scrivere, senza pensare a cosa diranno gli altri: è questo che chiedo. Scrivere nel silenzio della mia casa, sola, per lottare contro la lunga vita dei morti».