L’Italia è un endecasillabo. Per capire l’Italia, credo, bisogna entrare in un ritmo. L’Italia per me è un endecasillabo, è incistata nell’endecasillabo. Di solito, di un paese, di una città bisogna osservare l’urbanistica: l’ampiezza delle strade, il modo in cui divergono, s’immergono l’una nell’altra; la forma sequenziale delle case. Osservatorio superficiale che dice della mente di chi ha costruito quel luogo. Alcuni paesi, in Italia, hanno la struttura di un sonetto; altri di una canzone; altri ancora si snodano come un poema. C’è poi il rimario, il modo in cui i balconi si gettano alle ventate, la pausa sancita da un fiume, la sestina dei palazzi nobiliari… ad ogni modo, l’Italia è un endecasillabo. L’Italia, intendo, è una creazione poetica. E i poeti che l’hanno creata insegnano due cose. Primo: che l’Italia si può soltanto bestemmiare, cioè dire per negazioni (“Ahi serva Italia, di dolore ostello…”, Dante). Secondo: che l’Italia, sostanzialmente, non si può dire (“Italia mia, benché ’l parlar sia indarno…”, Petrarca), è dolore insanabile (interessante, per chi studia cose letterarie, accorgersi che la chiusa della Terra desolata di Thomas S. Eliot, il poema della patria deprivata, depravata, Shantih shantih shantih, è quello dell’ “Italia mia” di Petrarca, “Pace, pace, pace”).
Insomma, l’Italia è una bestia letteraria. Per questo Andrea Caterini, ragazzo dallo sguardo profondo e terribile (cioè: compassionevole, e dunque spietato), compie il suo Ritorno in Italia (Vallecchi, 2022) con una scorta di libri. In Italia si ritorna, ospiti e consolatori (“Piangi, ché ben hai donde, Italia mia…”, questo è Leopardi, dacché la nostra è sempre patria spogliata, spartita, ispiratrice, spiritata, sparita), con libagione di libri. Così, si va in Sardegna con Il giorno del giudizio di Salvatore Satta sotto mano; si attraversano le Langhe con Beppe Fenoglio in spalla; si va in Sicilia con Gesualdo Bufalino e nelle foreste Casentinesi con Dino Campana nello zaino. Com’è diverso il “ritorno” di Caterini dal Viaggio in Italia di Guido Piovene, che di ogni pieve diceva il magone di un’antichità perduta, decrittava la magia smagata dal ‘progresso’. Caterini parte dal cataclisma globale, dall’identità ormai irrecuperata, un fatto, e cuce bave d’oro, origami di senso, fino al covo del silenzio. Il reportage più bello è, appunto, quello dedicato all’Umbria: Caterini, come sempre, scudiero della letteratura bella, ha un fortino di libri appresso – Cristina Campo, Kafka, i detti dei Padri del deserto – per affrontare Teresa, eremita, novantuno anni, dal 1986 in una casa senza elettricità né acqua, presso il monte Fionchi. Il dialogo tra l’eremita e il cercatore ha vette sapienziali che meritano di essere ricalcate:
“La prima notte che ho passato in questa casa le voci che udivo mi tormentavano… Ero pronta alla sepoltura? Ero preparata a morire? Ad affrontare il silenzio eterno dei giorni? Quando si è fatta mattina e ho visto brillare la luce sulle pareti e sui vetri, qualcosa, dentro di me, ha trovato un centro: Dio, pensavo, viene come un ladro, e di getto ho scritto dei versi, i primi salmi che Dio dettava per la mia nuova vita: ‘Dal mio Unico e mio Tutto/ giunse ferma locuzione/ che Sepolta nel Silenzio/ l’Assoluto mi voleva’”
L’Italia è un endecasillabo, continuo a pensare. “Cerca Iesú con ogni tuo desio/ anima mia, se te vói delettare”, canta Jacopone da Todi. Forse il ritorno è mollare tutto, cioè scoprirsi ricchi del Tutto; forse l’Italia è questo eremo, estrema fortezza che santifica dall’insensato odierno, dai vagiti di un’era di ignavi. Così sono andato in cerca di Caterini.
Parto dalla domanda più cruda. Che cos’è l’Italia? Pochi aggettivi, ben distesi.
L’Italia è un coacervo di contraddizioni. Troppo semplice asserire si tratti del Paese più bello del mondo. Così come troppo semplice riconoscerne la bellezza davanti alle sue opere d’arte. L’Italia sa essere orribile. Siamo riusciti a devastare i suoi paesaggi perdendo completamente il senso di un’armonia con ciò che ci circonda, a involgarire anche la sua natura. Vicino la Valle dei Templi di Agrigento, ed è solo uno tra le centinaia di esempi che potrei fare, puoi incontrare costruzioni moderne che sono il frutto di un’incultura becera, di un’edilizia selvaggia. È una nazione che si è venduta anche al marketing. Le sue tradizioni più profonde, quelle che conservavano un senso del sacro e un rapporto viscerale con la propria terra, vengono oggi riproposte come uno spettacolo per turisti, svuotate del senso che possedevano. Eppure… Eppure l’Italia va saputa cercare nelle sue feritoie, lì dove è andata a nascondersi la sua autenticità. Non esiste al mondo Nazione più molteplice dell’Italia. È ovunque si riconosca una diversità. Una diversità costruita e continuamente tradita lungo i secoli. L’Italia è un paese parcellizzato per definizione. Ogni suo angolo custodisce, prima ancora che una storia, una tradizione, che qualcuno è pronto a difendere con la vita. Ecco, l’Italia sono le persone, quelle che ho incontrato in questo mio viaggio che dura ormai da oltre quattro anni. Gli uomini che vivono fuori il clamore dei grandi centri urbani, che non amano la confusione, che sono a disagio con la vanità. L’Italia dei paesi, dove la vita è fatta di niente. Un niente che è tutto.
Quale Italia hai scoperto “ritornando” in Italia. Ergo: il luogo inatteso, l’incontro sconcertante. Dimmi.
Quando si è cominciata a formare in me l’idea di scrivere un libro sull’Italia, ciò che mi fu subito chiaro è stato il titolo. Questo perché mi rendevo conto di come viaggiando in un luogo da cui mai mi ero allontanato stavo giorno dopo giorno cambiando. Il “ritorno” è la scoperta di qualcosa che hai sempre conosciuto, ma che pure ti era fino a quel momento estraneo. Ritornare per uscire da sé, dimenticarsi per un momento di se stessi, scomparire nel mondo. E mi piaceva attraversare luoghi in cui perdevo qualsiasi punto di riferimento, in cui non ero nessuno per nessuno. Ascoltare il racconto delle vite degli altri, farsi investire dalle loro storie, accoglierle, farle proprie, capire che c’è qualcosa che ci lega tutti. Allora potevo sentirmi davvero a casa ovunque: nelle Foreste del Casentino, dove san Francesco ha trovato il suo ultimo rifugio e dove Dino Campana ha pellegrinato in cerca di se stesso, o nella Barbagia più feroce, quella del nuorese di Grazia Deledda e di Salvatore Satta; sul Delta del Po, nel Polesine, in quel deserto d’acqua in cui i pescatori hanno vissuto in case di fango e canne fino a non molti anni fa, o camminando lungo i confini del Carso, dove le identità si perdono e si mischiano, gli stessi luoghi in cui Slataper è cresciuto come un selvaggio e dove Ungaretti ha visto morire compagni e fratelli nelle trincee lungo l’Isonzo. In ogni territorio c’era qualcuno di mai visto prima pronto ad accoglierti; qualcuno che, anche solo per un giorno, ti era davvero fratello. Ti riporto un episodio che nel libro è ampiamente raccontato. Quando sono tornato in Umbria per l’ennesima volta e non sapevo cosa inventarmi per cavarne fuori una puntata televisiva, mi è venuta l’idea di parlare della storia degli eremiti siriani che nel sesto secolo sono arrivati in quella regione per evangelizzarla. Un racconto praticamente impossibile da restituire televisivamente. Attraverso un contatto sono venuto a sapere che su una montagna sopra Spoleto viveva un’eremita. Trovo il modo di andarla a conoscere. In una casa senza acqua e senza corrente elettrica viveva una donna di novantuno anni dal 1986. Piccola, minuta, fragile. Mi sono chiesto come fosse possibile che stesse lì da sola da tutto quel tempo. Al principio era diffidente. Poi mi ha fatto sedere davanti a lei, mi ha raccontato la sua storia per un paio d’ore. Ho scoperto che aveva una cultura filosofica e teologica sconvolgente. Eppure, in quella casetta che l’accoglieva, non c’era l’ombra di un libro. Mi rendevo conto così che aveva imparato a non possedere nulla, a non farsi tentare nemmeno dalla cultura. Aveva trasformato ogni gesto, ogni pensiero, ogni cosa, in una forma di preghiera. Trovavo in lei quello che Dino Campana aveva scritto nei Canti Orfici di San Francesco: “un’ombra di Cristo che accetta il suo destino nella solitudine”. Difficile restituire la sensazione che mi ha lasciato addosso. Posso dirti però che quando si viaggia ci sono incontri, anche casuali, che ti segnano per la vita.
Parlo al lettore, al critico, allo scrittore. L’Italia dei letterati odierni: pare più uno sfondo, una cartolina ad uso turisti; se ne parla, non ci si inscrive nella sua carne: è così, non è così?
Credo sia così perché, sostanzialmente, non la conoscono, la ignorano completamente. Ma la Patria è di chi l’ama, diceva Pasolini. E aveva ragione. Pensa ai viaggi lungo la Nazione di Guido Piovene, di Mario Soldati, di Cesare Brandi e dello stesso Pasolini. Non si tratta di restare legati al ricordo di un’Italia che non abbiamo neppure vissuto, ma di mettere in moto la curiosità, di accettare di perdersi, di mettere a rischio noi stessi e le sicurezze che abbiamo per capire davvero dove poggiamo i piedi, da dove veniamo, chi siamo. Claude Lévi-Strauss scriveva, in quel capolavoro di conoscenza che è Tristi tropici,che
“fra qualche secolo, in questo stesso luogo, un altro esploratore altrettanto disperato, piangerà la sparizione di ciò che avrei potuto vedere e che mi è sfuggito”.
Ecco, credo sia questo il tipo di predisposizione che ho seguito in questi anni, provare a capire quello che oggi non bisogna farsi sfuggire e che ci lega alla nostra storia. Ti dico la verità, da quando ho cominciato a viaggiare, le bizze dei letterati, la loro ansia di presenzialismo, il loro desiderio di farsi riconoscere in una comunità che non esiste, non mi fanno nemmeno più sorridere o incazzare. Semplicemente, mi sembrano inutili, una perdita di tempo anche solo dargli una sia pure minima importanza.
Dimmi il libro per capire l’Italia, per, appunto, leggerla.
Non ce n’è uno solo, perché l’Italia è moltissime cose. Per questo in ogni regione che ho attraversato ho messo nello zaino un libro diverso; il libro di chi quegli specifici luoghi aveva già vissuto e raccontato: in Sicilia Gesualdo Bufalino e il suo Diceria dell’untore, ma avrei potuto portare anche il suo La luce e il lutto; a Napoli il Malaparte de La pelle; nelle Langhe La malora di Fenoglio, e così via. Due libri recenti che mi sembra raccontino da punti di vista completamente diversi l’Italia sono il romanzo di Arnaldo Colasanti La magnifica, e il poemetto L’Italia è morta, io sono l’Italia di Aurelio Picca. Ma appunto, l’Italia è una e molteplice, è necessario tornare a scoprirla, sentirla nella carne e nella mente.
…ma… esiste, poi, l’Italia?
Esiste, Davide, esiste eccome.