Abbiamo visto London Boulevard regia di William Monaham.
Monaham è uno scrittore e sceneggiatore statunitense, assurto a fama mondiale grazie agli scripts dell’epico Le crociate diretto da Ridley Scott e soprattutto The Departed di Martin Scorsese, per cui ha ottenuto l’Oscar per la migliore sceneggiatura. Adesso debutta alla regia con un film di genere colto, un film ‘vecchissimo’, sull’ineluttabilità del destino, con tanti rimandi al cinema autorale anni Cinquanta e Sessanta. Ma proprio per i debiti narrativi alti del genere, e per un film che risulta ondivago e fuorifuoco, realizza una storia drammaturgicamente sfocata, in alcuni passaggi approssimativa e banale. Al punto che un attore bravo e dalla recitazione complessa come Colin Farrell si lascia andare ad una recitazione senza respiro e un attrice come Keira Knightley fa da pandant spurio alla storia ed anche la sua bellezza scompare del tutto. Anche i rimandi ‘colti’ sfuggono alla presa registica, come ad esempio quando l’ex detenuto cita una poesia di Rilke o quando la storia si sviluppa sulla teoria del destino stabilito (non abbiamo possibilità di riscatto: ripreso completamente da Carlito’s way, ma anche da un certo cinema di Bogard, di Garfield o di Robert Ryan); ed anche – così ci è parso – la contiguità col film Sunset Boulevard (Viale del tramonto di Billy Wilder – nel titolo ma anche nelle analogie attrice-uomo che fugge) sembrano più una bizzarria intellettuale che non un concreto riferimento.
Tratto dall’omonimo romanzo di Ken Bruen, London Boulevard’ è la storia di Mitchell, un medio criminale di South London, che esce dal carcere dopo tre anni per aver pestato qualcuno durante una rissa. E’ un tipo tranquillo, gentile ma anche durissimo se costretto, adesso vuole rifarsi una vita e non avere più a che fare con la mala. Ma i suoi vecchi amici e i nuovi capi cercano in tutti i modi di trascinarlo nella vecchia vita, ma lui prova a resistere anche perché ha un’occasione: viene assunto come uomo tuttofare da un’attrice-modella, Charlotte, che è al top del successo ma è anche triste e malinconica a causa di un marito ricco ma sempre lontano, di un fatto personale drammatico che ha vissuto a Genova durante un film ed è sfinita dall’assedio dei fotoreporter fuori casa che le impediscono una qualsiasi vita normale e per cui lei ha rinunciato a vivere. Il film si sviluppa sulle vite dei due protagonisti e naturalmente sul loro innamoramento. Lei, un po’ ripresasi esistenzialmente grazie al nuovo amore, decide di andare girare un film negli States e chiede a Mitchell di accompagnarla, ma l’uomo deve prima risolvere i sui problemi col boss del crimine, Gant e poi la raggiungerà ma… Monahan non è riuscito a trovare registicamente “la cifra stilistica”, ha voluto fare un film sì di genere (molto elegante) ma lo ha riempito di riferimenti d’essai, senza tuttavia trovare un amalgama. A volte lo sviluppo è convenzionale, a volte irrealistico (come quando Mitchell invita il feroce killer che lo deve uccidere a fare due chiacchiere in auto – forse l’intenzione era ironica?), a volte ha un ritmo sincopato e a volte torna indietro nella storia senza far crescere la tensione, a volte un passaggio dovuto scompare (ad esempio quando il boss fa uccidere la sorella di Mitchell: nella scena successiva si vede lui sdraiato a letto che guarda il soffitto). Ha utilizzato non al meglio i due attori protagonisti e senza rendersene conto ha fatto emergere più il boss spietato, abusato nell’infanzia e omosessuale (un bravo Ray Winstone, visto in Ladybird Ladybird di Loach, Martha da legare, The Departed) e Jordan, ex attore factotum di Charlotte e drogato che ritrova un proprio ruolo nel momento in cui impugna una pistola per uccidere un poliziotto corrotto (un altrettanto bravo David Thewlis in un ruolo però troppo monocorde – visto in Rimbaud, Sette anni in Tibet, Il bambino con il pigiama a righe).