C’era una volta il Novecento. Il volume d’interviste di Lidia Cirillo ai protagonisti della vicenda dei teatri occupati in Italia (Lotta di classe sul palcoscenico, ed. Alegre, Roma, 2014) si apre con un capitolo dedicato al movimento operaio: “Si è chiamato movimento operaio l’insieme sinergico che in Europa e nel mondo aveva costretto il capitalismo a cambiare per non morire e quell’insieme aveva solo in parte a che fare con una classe. Certo la classe operaia, soprattutto quella dei grandi complessi industriali, era stata il nucleo intorno al quale si era aggregato tutto il resto. Ma il prodotto finale era stata una costruzione storica, socio-politica e culturale molto più ampia e complessa, dai contorni incerti, fortemente differenziata e conflittuale al proprio interno ma appunto sinergica. Essa era composta da una classe di notevole forza strutturale e capace di farsi centro del conflitto sociale; da strutture burocratiche e clientelari, che concedevano agi e poteri ai settori della piccola borghesia più ambiziosi e dinamici; da entità statali con il loro potere economico e militare, da movimenti di liberazione di Paesi colonizzati, interessati a mettersi sotto l’ala protettrice dell’URSS e che talvolta si avventuravano nella creazione di socialismi nazionali più o meno credibili; da intellettuali creativi attratti dai miti progressivi costruiti sulle vicende rivoluzionarie del secolo; da socialdemocrazie che mantenevano aperti gli spazi in cui i rivoluzionari potevano continuare ad agire e da rivoluzionari che punzecchiavano ai fianchi le socialdemocrazie e gli apparati politici, costringendoli a scatti per recuperare i rapporti con la propria base sociale; da mobilitazioni occasionali e da spessi sedimenti organizzativi, da basi elettorali, da compagni di strada e da alleati… Ora gran parte delle componenti di questo insieme o non esiste più o ha mantenuto nomi a cui non corrispondono le stesse realtà del passato oppure ha subìto dinamiche di disaggregazione, che hanno isolato ciascuno dei pezzi residui dell’insieme demolito negli ultimi trenta ingloriosi anni.” (p 20-21).
Preso atto di una profonda disgregazione del tessuto sociale che in passato aveva consentito l’ottenimento d’importanti risultati, conquiste sempre più soggette a erosione in tutti i campi, dal lavoro alla qualità della vita, dai diritti ai beni collettivi, l’autrice tuttavia osserva che “un’inedita capacità di autorganizzazione è l’altra faccia della frammentazione e delle sconnessioni del corpo sociale. Si tratta di una capacità che riguarda alcuni settori e non altri, ma innegabile, e conseguenza logica dell’impoverimento dell’ex-piccola borghesia intellettualizzata, delle maggiori quantità di conoscenze di cui si serve il profitto e dell’ampliarsi delle possibilità di comunicazione.” (p 23).
Capacità dimostrata per esempio nelle recenti lotte dei lavoratori dello spettacolo.
I luoghi occupati scelti per le interviste risultano essere campioni di un vasto movimento in difesa dell’arte e della cultura, che ha fatto dell’occupazione la sua specifica modalità di lotta. In alcuni momenti l’arte e la cultura hanno assunto agli occhi degli occupanti, e delle migliaia di cittadini accorsi a collaborare e a interessarsi, lo stesso valore dell’acqua pubblica. Rivendicate come pane e come acqua.
Le risposte dei nuclei attivi del Teatro Valle di Roma, dell’ex-Borsa del macello dell’ortomercato oggi museo Macao di Milano, dell’ex-Asilo Filangieri “Comunità dei lavoratori dello spettacolo e dell’immateriale” di Napoli e del Sale Docks di Venezia menzionano spesso analoghe occupazioni, da considerarsi articolazioni del medesimo movimento: il cinema Palazzo e l’Angelo Mai di Roma, il teatro Marinoni di Venezia, il teatro Coppola di Catania, i Cantieri e il teatro Garibaldi di Palermo. Agli intervistati (attori, registi, musicisti, grafici, fumettisti, tecnici video, guardiasala, traduttori, macchinisti e simili) è stato chiesto di raccontare non solo le vicende, le modalità e gli obiettivi delle occupazioni, ma anche le idee e i punti vista politici e culturali che in esse convivono e si confrontano. L’indignazione si sviluppò e prese forma principalmente contro l’abbandono, il degrado, la trasformazione in centri commerciali o la sorte incerta di luoghi che avrebbero dovuto e dovrebbero essere considerati “beni comuni”. E contro la nota frase di un ministro, “con la cultura non si mangia”, che ebbe la conseguenza concreta di tagli alla cultura, responsabili di rendere ancora più difficile l’esistenza di lavoratrici e lavoratori caratterizzati nello stesso tempo da alti livelli di qualificazione e di precarietà. Nell’ampio ma frammentario movimento di resistenza all’austerità e alle privatizzazioni, le occupazioni dei teatri e dei “luoghi di cultura” hanno portato una creatività e una capacità di comunicazione fuori dal comune. Si legga per esempio l’intervista a Macao di Milano, con la divertente narrazione dei primi passi verso l’occupazione di Torre Galfa e più tardi dell’ex-Borsa del macello. La richiesta attraverso il Web di svolgere l’acronimo M.A.C.A.O. ricevette migliaia risposte con possibili ipotesi di svolgimento dell’acronimo (es.: Movimento Autonomo Creativo Autogestito Osmotizzante oppure Maracaibica Astratta Città Arte Ora), così come migliaia di persone furono coinvolte con l’artificio di mettere in giro la voce che esistesse una nuova favolosa realtà, Macao appunto, che ancora non c’era. Oppure si legga nell’intervista al Sale Docks dell’iniziativa del 21 settembre 2013, il tuffo collettivo di cinquanta nuotatori che ritardò per diverse ore il passaggio delle navi da crociera nel canale della Giudecca, con la partecipazione sulle rive del canale di migliaia di veneziani. Ma anche nelle altre interviste è possibile trovare spunti creativi, interessanti soprattutto perché dominati da una preoccupazione feconda: quella di comunicare con un pubblico più ampio possibile per evitare di essere isolati da linguaggi e modalità di élite.
Parte delle considerazioni dell’autrice concernono il confronto fra il movimento italiano e quello francese, dove la mobilitazione degli “artisti intermittenti” ha quasi un secolo di vita e si è manifestata con episodi di lotta, a loro volta intermittenti, che hanno prodotto studi, libri, articoli e documenti vari in quantità molto maggiore che in Italia. All’autrice pare che la differenza tra una situazione e l’altra consista nella mancanza nel nostro paese di un margine di contrattazione sindacale, presente invece in Francia. Lì quel margine ha prodotto la conquista del salario sociale, ridimensionata ma non cancellata negli ultimi tempi. Mentre qui da noi la sua assenza spinge il movimento a una più marcata politicizzazione e a una ricerca di vie d’uscita nell’autogestione e nell’autoproduzione.