Lucy, studentessa americana a Taipei, viene rapita dalla mafia coreana e, dopo una spartana operazione chirurgica durante la quale le viene impiantato nello stomaco un pacchetto contenente una droga sperimentale, si ritrova costretta a fare da corriere.
Imprigionata e picchiata dai suoi carcerieri, la ragazza assumerà suo malgrado forti dosi di CPH4, una sostanza che sintetizza un ormone prodotto durante la gravidanza, la quale le permetterà di acquisire poteri straordinari.
Luc Besson, che da sempre tenta di conciliare la propria megalomania autoriale con esigenze squisitamente commerciali, aggiunge con “Lucy” un nuovo tassello alla sua personalissima galleria di eroine più o meno messianiche.
Da “Nikita” alla Aung San Suu Kyi di “The Lady”, passando per la Leeloo de “Il quinto elemento” e “Giovanna D’Arco”, il regista transalpino ha sempre privilegiato forti figure femminili, affrontate con veemente impeto post-femminista.
Questa volta la prende alla lontana, partendo addirittura da quella che è considerata la prima femmina della specie umana, l’australopiteco Lucy, vissuta oltre tre milioni di anni fa.
E visto che la Lucy preistorica prese il nome dalla canzone “Lucy in the Sky with Diamonds”, titolo che notoriamente alludeva all’LSD, s’immagina che le visioni lisergiche di cui è costellata la pellicola abbiano riservato al regista tutto il sottile piacere di un “inside joke”.
Secondo l’assunto alla base del film l’essere umano utilizza solo il 10% delle proprie facoltà intellettive (ma non è vero).
Che cosa accadrebbe se l’uomo sfruttasse appieno le potenzialità del proprio cervello? Sull’argomento teorizza il Professor Norman (interpretato da Morgan Freeman con una “gravitas” degna di miglior causa) nel corso delle sue lezioni universitarie, ma la risposta più efficace all’ozioso quesito la fornisce Scarlet Johansson, la quale nell’arco di 24 ore compie un vertiginoso balzo in avanti sulla scala dell’evoluzione.
Poteri extrasensoriali e psicocinesi sono solo alcune delle facoltà acquisite da Lucy, la quale ne farà buon uso per recuperare le dosi residue di CPH4, sgominare i mafiosi coreani ed evolvere fino allo stadio definitivo.
E alla fine, come avrebbe detto il compianto Douglas Adams, “La vita, l’universo e tutto quanto” verranno comodamente compressi su una chiavetta USB Next-Gen.
Il problema è che Besson sembra aver smarrito quella scintilla creativa che animava “Nikita” o “Léon”, riducendosi a diventare un adepto involontario dell’ineffabile pratica del “mash-up”, scevro però da qualsivoglia intento satirico e/o teorico. Con un’ambizione mal supportata da una sceneggiatura carente e una filosofia da “discount”, il regista immagina che l’accumulo dissennato (ma anche svogliato e un po’ cialtronesco) di materiali eterogenei sia di per sè garanzia di riuscita.
In preda a vertigine ricombinatoria, Besson non si perita di saccheggiare “Matrix” e, cosa ben più grave, fa strame di suggestioni kubrickiane (ovviamente 2001…), riuscendo persino nell’impresa di ridicolizzare le pensose elucubrazioni di “The Tree of Life”. Le sequenze nelle quali Lucy ripercorre a ritroso la creazione del mondo fino ad incontrare la sua omonima, più che a Kubrick o a Malick lasciano infatti pensare a una sgangherata parodia, realizzata dall’allievo più dotato della scuola di cinema.
Fedele alla filosofia “eurotrash” delle produzioni della sua EuropaCorp (dai “Transporter” ai due “Taken”), Besson spazia da Taiwan a Parigi, gettando nel calderone gangster taiwanesi, mafiosi coreani (e qui possiamo ammirare Choi Min-sik in un ruolo esclusivamente alimentare) e poliziotti parigini, mostrando la consueta abilità nel dirigere le sue parossistiche scene d’azione. Peccato che siano intervallate da banali digressioni tra “Discovery Channel” e “National Geographic”, nonchè da confusi vaniloqui sul tempo, lo spazio e la limitata percezione umana.
A tal proposito, val la pena di notare che un regista che contrappone in montaggio alternato l’ingresso di Lucy nell’albergo di Taipei con le immagini di una gazzella braccata da un leopardo, ha evidentemente perso da tempo qualsiasi senso della misura.
Dopo l’intelligenza artificiale di “Her” e l’aliena di “Under the Skin”, Scarlet Johannson perfeziona con il personaggio di “Lucy” una trilogia ideale, ma le manca il fisico del ruolo d’una Milla Jovovich per essere una eroina credibile.
E anche se la fotografia di Thierry Arbogast e gli effetti CGI della Industrial Light and Magic sono tra i punti di forza del film, ci si augura che Luc Besson segua l’esempio di Lucy, e impieghi un maggior numero di neuroni nella sua prossima sceneggiatura.