Si parte, si chiude, si prende tempo, si smette di lavorare e si sta all’aria aperta. E soprattutto si legge. I libri appena usciti, quelli che abbiamo in casa, quello appena comprato o quelli consigliati e accumulati.
Probabilmente sono due o tre i libri che leggerò, ma non so ancora bene quali e così me ne sto valigie aperte a fissare la libreria, ogni tanto un occhio al pavimento e alle pile di libri sul tavolo. Fa caldo, domani parto, la finestra è aperta, per strada pochi rumori, ma già mi distraggono.
Quest’anno nessuna vacanza in Liguria, ma ripenso a La spiaggia di Cesare Pavese, forse il meno riuscito dei suoi romanzi, un libro piccolo, più che il racconto di una vacanza il ritratto di un’attesa, un’ansia fredda, un tempo lunghissimo tra collina e mare prima dell’amore e dell’amicizia che non arriveranno, se non a tratti; utili soltanto a rilanciare una nuova attesa, a rimandare per il tempo dell’estate ogni inevitabile scelta. Ma ora devo scegliere mentre cerco il libretto che avevo negli Oscar Mondadori con copertina (bellissima) di Ferenc Pinter.
Lo cerco e trovo la quasi autobiografia di John Cassavetes, Un’autobiografia postuma (minimum fax, 2014): una collezione di interviste, citazioni del meraviglioso regista americano, quasi una traduzione in forma di parole del suo stile filmico. I dialoghi lunghissimi, quasi delle session, un libro dal ritmo incredibile, malinconico ma vitalissimo. Cassavetes è forse uno degli ultimi registi romantici americani (da vedere la sua esibizione con Peter Falck e Ben Gazzara al Dick Cavett Show, un piccolo saggio della sua geniale follia).
Ma cerco una storia, e proprio Cassavetes (attore protagonista nel bellissimo e dimenticato Gli intoccabili di Giuliano Montaldo) mi fa tornare la voglia di affrontare un grande classico come Dashiell Hamett, faccio passare la pila e come al solito da La chiave di vetro a L’uomo ombra da Piombo e sangue non faccio che rimandare e ritornare, li apro, li chiudo. E continuo a rimandare.
Sul tavolo rivedo il libretto di George Saunders, L’egoismo è inutile (minimum fax), discorso tenuto dall’autore agli studenti della Syracuse University, un testo amabilmente lontano dall’ardore fanatico di Steve Jobs il cui titolo mi riporta alla mente un libro diversissimo quale Tutta la solitudine che meritate (Humboldt) con i testi di Claudio Giunta e le fotografie di Giovanna Silva.
Due libri diversi, ma allo stesso modo gentili e quieti. Un viaggio in Islanda quello di Silva e Giunta. Delle foto impressiona il bianco panna del cielo che si fa sfondo e palcoscenico di uno spazio –quello islandese – che Silva racconta in equilibrio tra Gabriele Basilico e Martin Parr: l’irriverenza necessita sempre di precisione. Ma anche in questo caso passo oltre e mi cade l’occhio sulla ben ritrovata Iris Murdoch (ormai i romanzi pubblicati da Rizzoli sono introvabili). L’incantatore (Il saggiatore) nella nuova traduzione di Gioia Guerzoni si candida a uno spazio in valigia. Ritrovare la Murdoch, ecco cosa può spingermi oltre i finestrini del treno verso le pagine di un libro. Arricchito da una prefazione di Peter Cameron, L’incantatore è il racconto di un prevedibile, presunto e a tratti ostentato fallimento. Un romanzo di lotta che avrebbe tutte le caratteristiche per essere un film di Cassavetes. E anche lui rientra in valigia. Malinteso a Mosca (Ponte alle Grazie, traduzione e cura di Isabella Mattazzi) di Simone de Bauvoir sarebbe perfetto, ma inizio già a leggerlo e così me lo tengo per la sera. Addormentarmi in compagnia del Castoro è una vecchia tentazione.
Ora la ricerca si fa più frenetica, ho bisogno di libri! Quasi urlo mentalmente. Quindi? Rivolta e rassegnazione (Bollati Boringhieri) irride la mia ansia e illumina con l’imprevedibile vitalismo di Jean Amery le contraddizioni tra paura e speranza, tra verità e riconoscibilità. Un libro che rifiuta il suicidio, un libro non sulla morte, ma sul morire, sull’invecchiamento come presa di coscienza. I collegamenti con Saunders sono evidenti. Sarebbe quasi da costruirci un percorso aggiungendoci Questa è l’acqua di David Foster Wallace per tornare al durissimo Levar la mano su di sé (Bollati Boringhieri) sempre di Amery.
Bella la copertina di Tutto il tempo del mondo (Traduzione di Carlo Prosperi, Mondadori) di E.L. Doctorow, racconti, storie, nessun legame se non la lotta perenne dei suoi personaggi indolenti e intransigenti, ribelli a se stessi, prima che al loro ruolo imposto dall’ordine sociale.
Domani parto, come al solito troppi libri in borsa, e in più l’e-reader, un bagaglio pesante dentro al sottile lettore: New Grub Street (Fazi) di George Gissing, una dissacrazione del mondo culturale, pubblicato nel 1891, anticipatore dell’orrorifico mondo culturale contemporaneo ridotto ormai a ridicolo sipario della società dello spettacolo. Poi Mappe e leggende (Indiana) di Michael Chabon, che nella saggistica letteraria breve brillante è decisamente meglio che nei romanzi e poi altre centinaia di titoli da cui scegliere. Al ritorno poi chissà cosa effettivamente avrò letto, intanto chiudo qui con quelli chiusi in valigia, tra cui è rientrato in extremis anche Tutta la solitudine che meritate, un po’