Nel tuo libro autobiografico Refusi – Diario di un editore incorreggibile (Laterza), scrivi:
“Con il lavoro che ho scelto di fare, mi aspettavo che la mia vita sarebbe stata diversa. Mi immaginavo lunghe giornate a leggere manoscritti che avrebbero cambiato la storia della letteratura, conversazioni rivoluzionarie in fumose bettole del centro storico con scrittori leggendari […] Avevo dimenticato che l’editore non è solo un appassionato di libri, un animatore culturale, ma è fondamentalmente un imprenditore, con tanto di partita iva, obblighi fiscali e bilanci depositati.”
È mai capitato che l’appassionato e l’imprenditore che albergano in te fossero in disaccordo? Che, magari, l’appassionato spingesse per la pubblicazione di una raccolta di racconti che gli stava a cuore e l’imprenditore scuotesse la testa perché doveva far quadrare il bilancio? E di solito, chi vince tra i due?
Che imprenditore e appassionato non vadano d’accordo succede – per fortuna – spessissimo. Dico “per fortuna” perché è come avere un controllore interno (e reciproco!), una coscienza sempre in piena attività. Racconto spesso che dopo aver imparato a calcolare il punto di pareggio (quante copie di un libro bisogna vendere a un determinato prezzo per poter coprire i costi di produzione) ho dovuto disimpararlo perché, specialmente all’inizio, quando la casa editrice era appena nata e aveva poche aspettative di vendita (ma anche di recente, dato che con la crisi sono drasticamente diminuiti gli ordinativi da parte delle librerie), l’imprenditore avrebbe imposto all’appassionato di lasciar perdere, di passare la mano. Poi le cose hanno dimostrato in qualche caso che tra passione e ragione spesso vince il terzo litigante che è l’intuito. E in parecchi casi, almeno nell’esperienza di minimum fax, pubblicando racconti abbiamo potuto violare quel tabù imperante della non vendibilità della narrativa breve, e siamo riusciti a dare una visibilità e una diffusione ampie “perfino” a libri di racconti di autori internazionali come Carver, Malamud, Yates o di autori italiani come Parrella o Cognetti.
Dopo minimum fax e il suo meraviglioso lavoro sulla narrativa nordamericana, hai cambiato emisfero, sei passato a quella sudamericana e hai fondato SUR. Se dovessi sintetizzare in poche parole le differenze tra la narrativa breve del sud e quella del nord America, quali sarebbero e perché?
Non credo che sarei in grado di farlo, né con poche né con molte parole… Si tende ad associare la letteratura degli Stati Uniti con il contemporaneo, il metropolitano (la cosiddetta urban fiction), in molti casi con il postmoderno; e allo stesso modo, generalizzando, si parla di America Latina con una tendenza a sottolineare gli aspetti epici, magici (quell’etichetta che forse ha fatto più danni che favori alla sua letteratura). Ma basta pensare a dei singoli casi (Onetti a cui si fa riferimento quasi sempre come al “Faulkner latinoamericano”; Cortázar che forse è stato un postmoderno ante litteram o extra moenia) per capire che i confini sono molto più porosi. Ci vedo più punti di contatto che elementi di distanza: in entrambi gli emisferi – così come del resto in Europa – il racconto ha permesso di sperimentare, di creare mondi accennati che il lettore può continuare a costruire. Più che le differenze potrebbe risultare interessante tracciare dei punti di contatto, anche solo nei cataloghi delle due case editrici: i racconti di Donald Barthelme hanno certamente una parentela non troppo lontana con le storie di Julio Cortázar; gli adolescenti di José Emilio Pacheco potrebbero essere compagni di scuola di quelli di Aimee Bender; nella loro diversa modalità di svelare un mistero i racconti gialli di Rodolfo Walsh mi hanno ricordato la serie dei “vedovi neri” di Isaac Asimov.
Nel libro Lezioni di letteratura (Einaudi), Julio Cortázar scrive che in America Latina la forma racconto occupa una posizione di prima fila non solo dal punto di vista degli scrittori, che la praticano da sempre e con molta naturalezza; ma anche dal punto di vista dell’interesse dei lettori: c’è, cioè, un pubblico che aspetta di leggere racconti. Come mai questo non avviene in Italia?
Non sono così convinto che non esista un pubblico per i racconti in Italia. L’atteggiamento degli editori che non pubblicano racconti perché sicuri che non verranno letti assomiglia a quello dei vertici della tv pubblica quando tengono basso il livello qualitativo dell’offerta perché credono che il pubblico non apprezzerebbe un prodotto più “alto”: si finisce col proporre ciò che l’editore suppone che avrà un pubblico, e quindi si decide a tavolino cosa il pubblico, per dirla con un bisticcio, “dovrà volere”. Si pretende insomma di pensare al posto del lettore, non si rischia, si limita la scelta, si propone sempre qualcosa che assomigli a ciò che ha già avuto successo. L’editore dovrebbe invece guidare il lettore alla ricerca del nuovo, educare alla diversità, rischiare nella proposta originale. E si badi, il racconto non è certo un genere nuovo, è anzi antichissimo, e ci sono molti casi di successi editoriali legati ad autori di narrativa breve; quindi in fondo non è detto che pubblicare racconti sia rischioso. Ma, appunto, in un mercato in gran parte (per fortuna non del tutto) omologato perfino la lunghezza di un testo può essere considerato un fattore di “non allineamento” alla formula “squadra che vince non si cambia”.
Continuando a parlare di differenze e somiglianze, credi che ognuno dei Paesi che compongono l’America meridionale abbia una sua letteratura nazionale ben riconoscibile o, per la proprietà transitiva, viene semplicemente assimilata agli stili e alle tematiche dei loro scrittori più noti (Bolano per la cilena, Cortázar e Borges per quella argentina, Paz la messicana e così via)?
Credo ci siano altrettante letterature nazionali, ciascuna con la sua storia, i suoi autori e titoli più rappresentativi. In questo senso si può parlare di letteratura latinoamericana tanto quanto si può parlare di “letteratura europea”, ossia dovendo sottolineare le differenze piuttosto che le similitudini. Ma è innegabile che a dispetto di quanto accade nel nostro continente dove ogni letteratura ha la sua lingua, la latinoamericana – con l’ovvia e ingombrante eccezione del Brasile – ha una lingua franca che diventa una patria letteraria. Molti scrittori si sono definiti cittadini di un Paese che è la lingua spagnola: una sorta di Schengen letteraria in cui Bolaño è concittadino di Cortázar, di Onetti e di Vargas Llosa. Schengen for you!
Burned Children of America fu un’antologia di racconti di minimum fax sui giovani scrittori nordamericani più talentuosi, ed è divenuta ormai un classico.
Ci sarà il Burned Children of America dei sudamericani?
Ci stiamo lavorando. È ancora un cantiere pieno di secchi, impalcature e cazzuole. Ma appena inizierà a prendere una forma riconoscibile sarete i primi a saperlo!
Sur ha una veste grafica molto ben definita e riconoscile: come siete arrivati al risultato finale? Cos’è che a un certo punto vi ha fatto dire “Sì, è questa: i libri di Sur devono essere così”?
Nel caso di SUR il lavoro di Riccardo Falcinelli è stato quello di creare una sintesi di una serie di elementi su cui avevamo le idee molto chiare, a partire dal logo che è un omaggio al nome della rivista letteraria argentina fondata nel 1931 da Victoria Ocampo e per la quale hanno scritto i maggiori autori latinoamericani (fra tutti Borges, García Márquez, Paz, Neruda) e alla freccia verso sud, l’unico segno grafico a comparire nelle copertine della rivista e che abbiamo inserito nel logo di SUR. Gli altri punti di riferimento che avevo segnalato a Riccardo erano: il colore di fondo sempre diverso, altra caratteristica della rivista di Victoria Ocampo; la sequenza cromatica, per la quale ci siamo ispirati invece alla collana di libri per ragazzi “I Quindici” (punto di riferimento non solo per l’arcobaleno della sequenza dei dorsi – che Falcinelli ha deciso di limitare a dieci tinte rispetto alle quindici del modello di partenza – ma anche per il simbolo-silhouette che racchiude in sintesi il contenuto del libro); la presenza di font tipografici grossi, pieni, che sono un omaggio alla tipografia a caratteri mobili (nel periodo in cui lavoravamo al progetto grafico io e Riccardo passammo un fine settimana ad Arezzo per partecipare a un corso di Letterpress in una piccola tipografia artigianale); infine dal punto di vista dei materiali (copertina rigida senza sovraccoperta) l’idea è stata quella di rendere omaggio all’editoria italiana dei decenni Sessanta e Settanta in cui molti degli autori che ora riproponiamo nel nostro catalogo furono proposti per la prima volta nella nostra lingua (in particolare le collane di narrativa di Bompiani e Feltrinelli). I punti di partenza quindi li avevamo tutti, e quando Riccardo ha “unito i puntini”, il risultato è stato più o meno un’epifania simile a quella che descrivi.
Praticamente non passa mese in cui qualcuno esterni come i dati delle vendite di libri siano in caduta libera, ma a questo seguono ben pochi fatti (ci ricorda un po’ il film di Mathieu Kassovitz L’odio in cui si racconta di un uomo che precipita da un grattacielo e che ad ogni piano si ripete “fin qui tutto bene”). Tu spingi ed elogi sempre moltissimo i librai. Secondo te, sono loro l’anello della catena editoriale che può fare la differenza e invertire questa tendenza?
Senza alcun dubbio. L’ho detto spesso e lo ribadisco ogni volta che posso (eccone un’altra): i librai lavorano in squadra con gli editori, anche perché sono loro a fare da filtro, da selezione e da “consulenti” per i lettori. È compito degli editori non solo sostenerli ma valorizzare il loro lavoro. Nel nostro caso singolo, abbiamo deciso di creare con i librai una vera a propria rete, una forte collaborazione che si concretizza nella fornitura diretta dei libri SUR a circa 200 librerie indipendenti in tutta Italia. Fornendo i libri direttamente, si ha un risparmio sui costi di distribuzione che anziché costituire un maggior ricavo per la casa editrice viene interamente girato ai librai, che così hanno la possibilità di guadagnare un po’ in più. Inoltre (e diversamente da quanto avviene con la distribuzione tradizionale) forniamo i nostri libri con la formula del conto deposito, quindi le librerie non si espongono finanziariamente e ci pagano i libri solo dopo averli venduti. Molti dei librai con cui collaboriamo lungi dall’essere solo dei negozianti sono dei veri e propri centri culturali, punti di ritrovo, organizzatori di eventi piccoli e grandi, punto di riferimento per una comunità che ha trovato nella libreria (e nella lettura) il suo fulcro. Il loro lavoro è encomiabile e non possiamo che manifestare tutto il nostro entusiasmo e la nostra disponibilità ad aiutarli nello svolgere questo ruolo decisivo per l’editoria e per la cultura in generale.
Cosa dovrebbe cambiare in Italia per restituire al racconto credibilità e prestigio nella filiera editoriale?
Come ho detto, in altro modo, poco prima, il ruolo principale lo svolgono gli editori. Se la forma racconto viene poco frequentata dagli editori nelle loro scelte sarà più difficile che i lettori possano accedervi, e di conseguenza che si possa costruire quella credibilità o quel prestigio di cui parli. Forse il libro digitale da una parte, e il fenomeno ormai consolidato dei blog dall’altra, due ambiti in cui la forma breve è predominante, possono dare una spinta affinché sempre più editori arrivino a considerare anche il racconto come possibilità.
L’ultima domanda. Hai sempre avuto a cuore la forma del racconto: perché?
Te lo racconto. La prima volta che ho formulato, da adolescente, nella mia testa il concetto di “scrittore preferito” è stato leggendo Calvino, e in particolare il mio imprinting è stato Se una notte d’inverno un viaggiatore, che è un romanzo fatto di racconti; anni dopo decisi che Il Mio Scrittore Preferito era Raymond Carver, il nume tutelare di questo osservatorio, e ho avuto la fortuna di pubblicare tutte le sue opere in italiano; quando con minimum fax decidemmo di aprire una collana di classici contemporanei, mi proposi di curare personalmente la pubblicazione del primo titolo di Donald Barthelme; nel 2001 ho curato con Martina Testa Burned Children of America (che citavi poco fa), un’antologia di diciotto autori statunitensi che è uno dei libri a cui sono più affezionato, che ha avuto una vicenda curiosa: messo insieme per un’edizione italiana, la raccolta ebbe solo successivamente un’edizione in inglese, e in seguito fu poi tradotta in una decina di lingue; qualche anno dopo, nel 2004, un’altra antologia mise insieme una generazione di scrittori, stavolta italiani: La qualità dell’aria curata da Christian Raimo e Nicola Lagioia fu un bel momento di “raccolta”; il progetto a cui sto lavorando in questi giorni è la collana littleSUR, una collezione di testi brevi latinoamericani, che inauguriamo con Cortázar e con il messicano José Revueltas.
Insomma – facendo un mestiere dove la passione è quasi sempre alla base delle tue scelte – molte delle scelte editoriali di minimum fax e di SUR sono legate a dei singoli libri che hanno segnato altrettanti momenti-chiave nella vicenda delle due case editrici e (devo confessare che me ne rendo conto solo adesso, facendo questa carrellata a ritroso per rispondere alla tua domanda) spesso si tratta di libri di racconti. È probabile si tratti solo di un caso. Ma io al caso non ci credo.