Potrai mai perdonarmi? sarebbe stato il suo titolo – Can You Ever Forgive Me? – tradotto quasi alla lettera, e sarebbe stato meglio di Copia originale, scelto dai distributori italiani per questo interessante film di Marielle Heller. Perché è la citazione di una lettera (vera o falsa?) di Dorothy Parker, co-protagonista assente di questa storia, vera, ci dicono i titoli di testa, ma basata molto letterariamente sull’eterna dialettica vero-falso.

La regista, non ancora quarantenne, ha scelto un soggetto in linea con alcune sue precedenti prove non troppo riuscite ma stavolta, grazie a una meditata e raffinata sceneggiatura, mettendo meglio a fuoco i personaggi e scegliendo la via dell’essenziale ha realizzato un film originale e coraggioso. La storia inizia nel 1991, in una New York che non sembra avere più nulla dell’epoca che l’ha suscitata e preceduta, vale a dire la città di Truman Capote, Andy Warhol e compagnia bella. Per citare film e libri leggendari di quell’epoca ci vorrebbero pagine. La New York in cui vive, o sopravvive, la protagonista del film, l’autrice di biografie Lee Israel perfettamente interpretata da Melissa McCarthy, è una città vuota, una grande scena senza attori, senz’anima, senza qualità, senza più talento. Grigia, triste, a tratti addirittura squallida. Lee ha avuto in passato qualche piccolo successo, con le sue biografie, ma si sa, il passato non conta, e anche il più recente sprofonda nella preistoria dell’indistinto.

 

La regista Marielle Heller (a sinistra) con l’attrice Melissa McCarthy.

La postmodernità non è altro che questo, sembra dirci il film, un vuoto mentale ripetitivo e commerciale, senz’anima appunto. Ormai lontani quei piccoli successi Lee cade rapidamente in disgrazia. E bisogna subito dire: finalmente un ruolo femminile lontanissimo dagli stereotipi contemporanei, senza le solite faccette plastificate, vitini liposuzionati e natiche pilates. Una donna oversize, che neppure si cura nell’aspetto quasi da maschiaccio, e che certo non è priva di difetti caratteriali. È un’alcolizzata, anche se è forte e non lo lascia vedere troppo, è una che si accende come un fiammifero nei momenti più sbagliati. Infatti un vaffa sparato nel luogo di lavoro (la redazione di una casa editrice) le costa il posto e la sua agente ha ormai perso ogni fiducia in lei e nelle biografie che propone. In un party vediamo la New York colta dell’epoca, riassunta in uno scrittore milionario esplicitamente insulso e trombone, un narciso senza contenuti e quasi senza faccia, come in effetti appaiono sempre più spesso gli scrittori che annunciano il nuovo millennio.  Si potrebbe dire che questo film ha scelto di indagare gli anni che preparano il nostro presente e credo che lo abbia fatto consapevolmente.

Dei grandi scrittori del recentissimo passato restano soltanto le lettere, reperti per un collezionismo abbastanza straccione. La scelta di Lee, nata per caso, è una follia condivisibile. Il suo talento mimetico di scrittrice si esprimerà come autrice di false lettere, dimostrandosi convincente e, appunto, vera scrittrice. Da qui la sorprendente dichiarazione all’inevitabile processo (c’è sempre un processo nei film americani): è fiera del suo lavoro. C’è falso e falso, come si sa: c’è la copia ma c’è anche l’invenzione, il quadro fatto nello stile del pittore X ma che il pittore X non ha mai realizzato. Un falso riuscito è un quadro che X avrebbe potuto fare, e questo è un falso che diventa vero, non si può chiamarlo diversamente: la truffa finisce sullo sfondo, emerge un talento. La versione contemporanea della copia si chiama citazione, omaggio, remake, ma assomiglia al primo tipo di copia, diventa marketing. Quando le lettere di Lee finiscono però nei libri, modificando in qualche modo l’immagine stessa dell’artista originale, scatta l’allarme e l’ingenua truffa viene scoperta. Ma ormai le lettere di Lee sono diffuse ovunque, a centinaia. Diffuse anche dal suo unico amico, un disperato come lei, omosessuale e cocainomane, interpretato con misura e ironia da Richard E. Grant.

 

Dal punto di vista narrativo colpisce la capacità di lasciar parlare i personaggi, capaci di raccontare la loro storia senza inutili e banali spiegazioni. Per esempio: la sessualità di Lee rimane incerta. Veste da maschio ma il suo bel viso esprime una grazia tutta femminile. Si capisce che la sua vita sentimentale è stata un disastro, che è un capitolo chiuso. La sua gatta è tutta la sua famiglia. La casa in cui vive è sporca e piena di insetti, come tutte le case povere di New York, ma anche pagare l’affitto di una topaia diventa un’impresa. Lee è una sconfitta che è ancora in grado di graffiare. Non si aspetta niente dagli altri, né amore né interesse. Il suo amico tossico le si trova accanto come un relitto spiaggiato dal vento. Non fanno amicizia, si ritrovano lì, portati dalla violenza delle onde. Lui neanche deve spiegare perché qualcuno gli ha spaccato la faccia, non è più necessario raccontare, tutto è già accaduto ripetutamente, non c’è niente di nuovo, non ci sarà mai niente di nuovo nel loro orizzonte. Possono solo rubacchiare qualcosa, ormai al tramonto delle ultime tracce di giovinezza, che dura un attimo ed è subito sera. Hanno cinquant’anni, il loro valore commerciale è zero.

A parte qualche momento di stanchezza (la ripetitività inevitabile della truffa) il film resta sempre coinvolgente, prestandosi a diversi livelli di lettura e affrontando senza enfasi temi di enorme importanza: la solitudine feroce, la rabbia, la frustrazione, la perdita collettiva di memoria, la stupidità dilagante, il cattivo gusto. A volte forse senza neppure volerlo Lee si trova ad essere la paladina degli esclusi, senza pietismi e senza mai sfiorare il patetico. Copia originale, pur candidato a due o tre Oscar, non ne ha ricevuto nessuno. Ma come poteva competere una scrittrice fallita e oversize con la figura scintillante di una pop star? Continuerò a seguire con attenzione il lavoro di Marielle Heller. Finalmente qualcosa di nuovo all’orizzonte.

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