Fra i teorici del romanzo, le espressioni per definire il medesimo vizio – scrivere – si moltiplicano all’infinito. Tra queste ce n’è una del critico e filosofo francese Maurice Blanchot che dice: «Scrivere è scongiurare gli spiriti, è forse liberarli contro di noi».
Una simile affermazione implica la compresenza, nell’atto della scrittura, di due forze opposte e contrastanti, l’una che conduce alla liberazione e l’altra alla sottomissione. Così, nel tentativo di liberarci da un’ossessione permettiamo all’ossessione stessa di possederci, e mentre scongiuriamo gli spiriti ne provochiamo l’assalto.
Al centro della riflessione teorica di Blanchot l’ossessione assume un ruolo particolare. È la necessità di difendersi da questa che spesso spinge alla scrittura.
Sebbene il proposito dello scrittore sia sempre quello di cominciare un’opera che dispieghi le proprie forze e renda merito al sacrificio, che lo ripaghi dell’assunzione del rischio, ciò che porta a compimento è in realtà soltanto un libro, «un cumulo muto di parole sterili, quel che c’è di più insignificante al mondo». Sarà questo senso di incompiutezza, di fallimento, a spingerlo sempre verso il medesimo inizio, liberando l’ossessione che lo possiede, che lo lega a un tema privilegiato, che lo obbliga a dire ciò che ha già detto altrove, nel tentativo di ricomporre un’immagine, un’ombra, alla quale nessuna realtà appartiene e che la letteratura destina allo scacco. Scrivere assomiglia così a un eterno precipitare, e il vuoto appare come il solo conforto possibile. Per lo scrittore diventa quindi necessario allontanarsi da quell’immagine, dalla «miseria dell’infinito» (infinita l’opera, infinita la necessità) a cui continuamente sente di doversi sottomettere e godere invece dell’istante della restituzione, in cui è la vita ad affermarsi e non il suo simulacro a spadroneggiare.
Per questa ragione Blanchot individua la padronanza dello scrittore non nella sua capacità di guidare le parole verso l’espressione più adeguata, né in quella di assecondare il «movimento illimitato» che lo porta a scrivere. La mano che scrive è la mano malata e subisce quella che il critico francese chiama «prensione persecutrice»: quella mano non lascia mai la penna perché sente di non poterla lasciare. La vera padronanza appartiene alla mano che non scrive, che non è soggiogata dall’ossessione e sa intervenire per interrompere la scrittura.
Per salvarsi, lo scrittore deve riuscire ad arginare quella pressione che esige che egli scriva. Kafka individuava il momento esatto in cui la scrittura ha potuto trasformarsi per lui in letteratura: il momento in cui ha potuto sostituire “Io” con “Egli”. Quando lo scrittore priva l’opera dell’ingombro della propria persona, quando ha la forza di imporre il silenzio di sé alle parole, l’opera può finalmente compiersi. È quel silenzio che Blanchot scruta con l’occhio ingigantito dalla lente dell’investigatore, cercando di capire, di aprire, come un chirurgo, il corpo della scrittura per scrutarne i vuoti, gli spazi cavi dove erano annidate le ossessioni.
La distanza tra ossessione e silenzio negli scritti di Blanchot è minima: l’ossessione del critico francese è il vuoto stesso, la parola sottratta, taciuta. Come la parola emerge dal silenzio così il silenzio riassorbe la parola emersa. Guido Neri scrive che le parole di Blanchot «creano un vuoto piuttosto che un mondo». E in effetti chi volesse trovare nella sua produzione il rigore dell’argomentazione resterebbe deluso. Blanchot procede per frammenti, rasentando la provocazione e l’oscurità di pensiero, tagliando fuori il lettore dalle spaventose fantasie che lo perseguitano: silenzio, vuoto, assenza. Lo spazio letterario è costituito, per Blanchot, da tutto quello che non si legge e tuttavia dà consistenza alla pagina, la struttura, spesso la precede e ne giustifica l’esistenza. L’autore che dedica la propria esistenza alla letteratura, invece, è sempre in cerca di ragione e assoluzione. Scrivere è il peccato commesso da chi si paragona a Dio e nominando crea, destinato a rimanere escluso e misconosciuto dalla sua stessa creazione. Questo è l’opera per l’autore: un segreto da cui resta separato.
Secondo alcuni critici ciò conduce al paradosso per cui l’opera si realizzerebbe esclusivamente nella sua negazione, un’opera, dunque, che priva il linguaggio della sua funzione primaria, della possibilità di esprimersi, di comunicare. In alternativa all’autore spetterebbe nient’altro che andare incontro a una deriva autistica, crollare nel solipsismo che lo spinge a scrivere indugiando sempre e per sempre sulle proprie ossessioni.
In realtà quello che chiede Blanchot è una riconversione del concetto di opera: l’opera non esprime niente e niente ha da esprimere, l’opera semplicemente è, e fuori di questo non è niente. Si realizza nella solitudine e a questa solitudine appartiene. Ciò non significa che l’opera sia destinata all’incomunicabilità. È anzi nell’incontro tra la solitudine che l’ha creata e quella che l’ha accolta che l’opera s’invera pienamente poiché «chi la legge entra nell’affermazione della solitudine dell’opera, come chi la scrive appartiene al rischio di questa solitudine». È quel momento, che Blanchot definisce di «intimità aperta» tra scrittore e lettore, il momento fondante della letteratura.
Ma il silenzio dell’opera non si manifesta solo nella solitudine che la circonda, il silenzio è anche l’ultima possibilità che lo scrittore ha per esprimersi, è la forza «grazie alla quale colui che scrive, essendosi privato di se stesso, avendo rinunciato a se stesso, nel cancellarsi ha tuttavia mantenuto l’autorità di un potere, la decisione di tacere». L’autore diventa l’aria che l’opera respira, il tono, il silenzio che egli ha imposto alla parola, lo spazio bianco in cui questa si dispiega. E tuttavia nell’opera è ancora possibile riconoscere l’identità dell’autore poiché la qualità, la singolarità di quel silenzio garantiscono l’appartenenza dell’opera a chi l’ha scritta. È quel silenzio che ancora agisce, che diventa per il lettore una forza riconoscibile. Quel silenzio ancora appartiene a qualcuno.