Thomas Noël Isidore Sankara, classe 1949, è stato assassinato così giovane da ingombrare quasi necessariamente un’eternità. Il 15 ottobre del 1987, quando il Presidente del Burkina Faso cadde vittima di un agguato di stampo terroristico, era nel pieno dei propri trent’anni come fra gli altri Patrice Lumumba e Stephen Biko. Il settimanale Jeune Afrique gli ha dedicato la copertina dell’ultimo numero con la domanda inevasa da trent’anni: Chi ha ucciso Sankara?
Andando oltre l’icona, il feticcio del rivoluzionario panafricano amico del popolo, resta il dato che nessuno ha saputo soddisfare le concrete istanze politiche, economiche, sociali poste dal padre della rivoluzione burkinabè o meglio da un intero continente. Intesero eliminare l’uomo nuovo, l’eccezione che mirava a correggere una storia sbagliata. Anche le generazioni che non hanno vissuto in prima linea l’insurrezione e il processo politico che portarono l’Alto Volta a divenire Burkina Faso, la terra degli uomini integri, associano Sankara al sogno finora inesaudito di una classe dirigente non corrotta, emancipata dalle forme molteplici assunte dal neocolonialismo.
È un fatto che Sankara spaventi anche da morto. Non abbiamo notizia certa della localizzazione della tomba o del perimetro di terra che custodisce i suoi resti. L’indagine genetica, e non solo, è ancora in corso fra perizie e controperizie. L’inchiesta è stata rilanciata tre anni fa dopo la fine del regime politico dell’ex presidente Blaise Compaoré, per trent’anni al potere, oggi in esilio in Costa d’Avorio con un mandato d’arresto internazionale pendente per il suo presunto ruolo nell’omicidio Sankara.
La memoria pubblica però è un’altra storia, è andata oltre la negazione in quanto urgenza di costruzione di un’identità. Da Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, al resto del continente non è stato dimenticato soprattutto l’esempio di Sankara, il vocabolario che produsse una rottura a fronte di un’oppressione plurisecolare e della disillusione seguita all’indipendenza. «Osiamo inventare l’avvenire», sosteneva Sankara, e non era semplice farlo nel secondo paese africano più povero, dove l’aspettattiva di vita non raggiungeva i 40 anni.
Non gli mancava il coraggio. Uno degli elementi più interessanti della breve e intensa vicenda sankarista è la messa in discussione del paradigma della Françafrique perpetuatosi anche dopo il 1960. Nel giorno della liberazione del Mali De Gaulle aveva ammonito: «L’indipendenza reale, l’indipendenza totale non appartiene a nessuno. Non c’è politica possibile senza cooperazione». Trent’anni più tardi Sankara pretese di confrontarsi con pari dignità con l’omologo francese Mitterrand, giunto in visita nel 1986 nella vecchia colonia, e il discorso fu duro:
«(…) Non abbiamo compreso come banditi quali il guerrigliero angolano Jonas Savimbi e assassini come il presidente sudafricano Pieter Botha abbiano avuto il diritto di percorrere la Francia così bella. L’hanno macchiata con le proprie mani e i piedi grondanti di sangue. E coloro che gliel’hanno permesso porteranno l’intera responsabilità qui e altrove, oggi e per sempre».
Come mostra un filmato d’epoca, dopo aver ascoltato Mitterrand si rivolse in modo quasi paternalistico: «Come lui dirò ciò che penso. Trovo alcuni fra i suoi giudizi troppo tranchant, ha la perentorietà di una bella gioventù. Ha il merito di essere un Capo di Stato completamente devoto al proprio popolo e lo ammiro. Qualità importanti ma è troppo tranchant, si spinge avanti più di quello che sia necessario. Mi permetto di dirlo dall’alto della mia esperienza», concluse poggiando una mano sulla spalla del presidente burkinabè.
Le biografie ricordano come fin dalla tenera età Thomas scegliesse sempre di stare dalla parte dei più deboli, lui figlio che non aveva patito la povertà dell’epoca coloniale. Un giovane in rivolta, formatosi tra un’educazione ferventemente cattolica e l’accademia militare, fin da adolescente guardava a sinistra, all’antimperialismo.
Con l’impeto che lo contraddistingueva, sapeva anche riconoscere limiti evidenti e debolezze nell’azione di un trentatreenne. Tre mesi prima di essere assassinato, in quello che è considerato il discorso testamento, non esitò a evidenziare errori del processo che guidava, proponendo correzioni e cercando di scongiurare derive massimaliste che non mancarono, il settarismo tribale e all’interno delle forze rivoluzionarie. Lui non ricorse alla violenza per mantenere il controllo e sbarazzarsi dei nemici interni, piuttosto il martirio come poi avvenne e ciò lo eleva.
Nei venti anni successivi all’indipendenza il Burkina Faso visse tre colpi di Stato. Dopo quello del 1980 iniziò l’ascesa di Sankara. Nominato Capitano, poi segretario di Stato per l’Informazione, si distingueva spesso dalla condotta governativa, quando avversava il popolo, fino alle dimissioni. Colpivano il suo linguaggio coerente nel tempo con i comportamenti, la creatività, l’energia che sostanziarono un immaginario, il riscatto dei vinti che sostennero seppure in assenza di libere elezioni la sua ascesa al vertice dello Stato.
Si misurò con sfide politiche, economiche e sociali di tale ampiezza, a cominciare dall’autosufficienza alimentare di un popolo affamato e in quattro anni il risultato su questo fronte fu fuori dall’ordinario. Poi la letterale costruzione dal nulla di un’economia locale, forze produttive non più dipendenti dall’estero, l’alfabetizzazione e il decisivo coinvolgimento delle donne in una società marcatamente patriarcale. Se oggi il fenomeno migratorio è strettamente connesso anche a ragioni ambientali, anzitempo Sankara si rese conto dei rischi della progressiva desertificazione e di quanto l’ecologia dovesse essere in cima all’agenda politica. In uno dei suoi interventi più celebri Sankara tematizzò la questione ineludibile del debito e di quella che oggi definiremmo l’austerità per il pieno compimento della rivoluzione. Durante la sua presidenza, a fronte di un debito troppo esoso da onorare, il sostegno delle istituzione economiche internazionali crollò del 25% e quello francese passò da 88 a 19 milioni di dollari in tre anni.
Sankara è stato accusato di aver corso troppo con un ritmo di riforme e cambiamenti non sostenibile senza forze sociali strutturate alle spalle, in un quadro politico interno frammentato e internazionale ancora segnato dalla Guerra Fredda. Nel corso di un’intervista televisiva si definì «un ciclista che scala una salita ripida con due precipizi a destra e a sinistra». «Per restare me stesso, per sentirmi tale – concluse – sono obbligato a continuare con questo slancio».
Qual è stata la conquista essenziale del presidente più giovane che l’Africa abbia conosciuto? Non essere espulsi dalla storia in quanto poveri, anzi credere di riuscire a determinarla in un contesto mondiale di profonda convulsione economica, che avrebbe poi prodotto un difficilmente reversibile aumento delle diseguaglianze. «La cosa più rilevante, credo, sia di aver condotto il popolo ad avere fiducia in sé stesso – disse Sankara –, a comprendere che, finalmente, bisogna sedersi e scrivere il proprio sviluppo; sedersi e scrivere la propria felicità; l’opportunità di dire ciò che desideriamo. E al contempo sentire intimamente qual è il prezzo che si è disposti a pagare per questa felicità».