L’invito a partecipare al vostro “Seminario sul romanzo” mi ha suggerito una scelta istintiva e immediata. 2666 di Roberto Bolaño era l’ultimo libro incontrato dove la fatica di attraversare la lettura coincideva con lo stupore infinito che il romanzo fosse ancora capace di rinnovarsi in modo tanto spericolato e necessario.
So bene di non trovarmi sola con questa percezione. Roberto Bolaño è diventato un autore cult con l’aureola dell’artista dalla vita irregolare e morte prematura, una rara primizia di maledettismo aggiornato dove la biografia è percepita come garanzia e giustificazione di un’eccentrica (e “autentica”) grandezza letteraria. Ma non è questo il cardine della passione che condivido con molti scrittori, la passione che fa di Bolaño uno writers’ writer secondo modalità più profonde e vincolanti di quanto il termine non implichi di solito: non una penna così ardua e innovativa oppure sottile e raffinata da farsi riconoscere in primo luogo dai propri simili, senza che tale riconoscimento costringa a un confronto con la propria concezione letteraria.
Roberto Bolaño è uno scrittore che mette in crisi grazie a un’opera che scardina le nostre idées reçues; un “riapritore di giochi”, come lo chiama Nicola Lagioia nel saggio dedicato a Uno scrittore per il ventunesimo secolo .
“Mi trovo d’accordo sul fatto che Bolaño sia un riapritore di giochi, che rappresenti cioè, malgrado vi abbia sostato per soli tre anni, il primo vero grande scrittore del XXI secolo. Credo tuttavia che l’”apertura” verso qualcosa di diverso, di nuovo, di finalmente rivitalizzante per il mondo letterario giunto pieno di ansie sull’orlo estremo del Novecento, cominci non solo prima di 2666 ma anche prima de I detective selvaggi, come minimo da quei magnetici piccoli ambigui affascinanti manufatti che sono i racconti di Chiamate telefoniche. Se c’è qualcosa attraverso questi libri che Bolaño riesce invece a chiudere (crudelmente, inesorabilmente; non sappiamo nel futuro ma di certo per l’intero lunghissimo decennio che ci separa dall’11 settembre newyorkese) è il robusto predominio che la letteratura statunitense fin de siècle era riuscita legittimamente a esercitare. Tra il 1990 e il 2001 negli USA vengono pubblicati libri magnifici come Il teatro di Sabbath, Underworld, Pastorale americana, Cavalli selvaggi, Oltre il confine, Infinite Jest, L.A. Confidential, La macchia umana… A seguire, però, c’è un imprevisto crollo creativo trattenuto (e forse ancor più fragoroso per questo) su un altissimo e per certi versi inutile livello medio grazie alla rete di protezione intessuta dalle trascorse lezioni di maestri quali Roth, MCarthy, Pynchon, DeLillo. È proprio da questo vuoto improvviso che i più attardati di noi hanno cominciato a sentire l’eco (e la novità) che i libri di Bolaño stavano in realtà irradiando già da qualche anno, e che lo stavano portando a primeggiare grazie anche al fatto di muoversi proprio nei territori sui quali la narrativa nord-americana iniziava a mostrarsi più debole.”
Nell’incontro con gli studenti di Rovereto, anch’io ho voluto mettere a fuoco questo aspetto a partire da 2666, il romanzo dove le riaperture si fanno più evidenti (e non solo rispetto all’orizzonte statunitense chiamato in causa da Lagioia).
Sono anni che in Italia si dibatte su filoni di poetica intesi come alternativi, anzi vicendevolmente escludenti: l’opzione realista, aggiornata in formule come il “ritorno al reale” o “docufiction”, rivalutata come veicolo necessario di engagement, contrapposta a barocchismi postmoderni, filiazione libresca e citazionista, ma anche alla “restaurazione” del romanzo neo-borghese. Narrazioni che decidono di veicolare preoccupazioni contenutistiche attraverso le gabbie di noir o thriller si scontrano con la convinzione che la vera letteratura debba fondarsi sulla ricerca formale quasi sempre identificata con la scrittura e con lo stile.
Ma applicate a Bolaño e soprattutto a 2666 queste dicotomie si sfarinano.
Il romanzo si apre con “La parte dei critici”, fantasmagoria di un universo metaletterario e quasi parodia della “campus-novel”, per sprofondare nel nucleo centrale “La parte dei delitti”, dove finiscono fusi elementi di giallo, cronaca giudiziaria e docufiction.
La “parte dei delitti”, l’enorme blocco centrale verso cui la narrazione converge come una materia siderale risucchiata verso un buco nero, possiede le dimensioni di un poderoso romanzo a sé stante. Il protocollo sempre uguale della scomparsa dei corpi usa-e-getta di donne e bambine vi funge da palinsesto. Discariche, deserto, grandi SUV dai vetri oscurati, maquiladoras. La rappresentazione della violenza sessuale estrema passa attraverso la ripetizione ad nauseam degli assassinii, facendosi mimesi quasi pornografica della disumanizzazione delle vittime seriali. I filoni narrativi che veicolano sviluppi di storia e quindi di senso non possono che presentarsi come presenze fossili dentro un’oscura colata lavica. Circondati dall’iperrealtà oscena e opaca di stupro e morte, i personaggi più corposi diventano fantasmatici; vuoi che siano frutto di palese invenzione come il ragazzo dal nome Lalo Cura (da la locura, la pazzia), vuoi che rimandino a persone esistenti come Sergio Gonzalez Rodriguez, l’autore di Ossa nel deserto che per il suo lavoro d’inchiesta sul femminicidio ha rischiato a sua volta di finire ammazzato. La realtà messicana spinse Gonzalez Rodriguez a abbandonare una produzione romanzesca sulle orme del “real maravilloso” e mettersi sulle tracce di accadimenti che oltrepassano l’immaginazione. Roberto Bolaño, che è forse in primo luogo il liquidatore di un certo realismo magico latinoamericano, riscatta il coraggio dell’amico fattosi “detective selvaggio” riprendendo nella propria opera tutte le ipotesi esposte in Ossa nel deserto con il distacco e il rigore necessario del giornalismo di denuncia.
In un romanzo non si può solo congetturare, ma mettere in scena tutto. Si può dare corpo all’ipotesi che forse dietro alla macelleria femminile ci sia l’industria sacrificale degli snuff-movies e soprattutto l’alleanza tra narcos e rappresentanti dello stato messicano. Ma questo passaggio dal saggio al romanzo comporta un rischio di depotenziamento di cui Bolaño è pienamente consapevole. Perché quelle trame conservino tutta la scandalosa oscurità del male, perché non si riducano a controstoria complottistica, confezionata a misura di thriller, (genere al quale, in una certa misura, appartiene persino un romanzo di straordinaria qualità come Il potere del cane di Don Winslow), bisogna sottrarle alla ricomposizione in un mistery-plot che finisca per offrire una soluzione, non importa quanto orrenda. All’interno di 2666, le spiegazioni restano tracce che affiorano per finire nel vuoto, riproducono un’impotenza conoscitiva. Portano un peso strutturale assai minore dell’elencazione delle centinaia di donne morte senza né verità né giustizia.
Nella composizione del buco nero, l’istanza del romanzesco deve fallire, la realtà continuare a superare la fantasia del verosimile: la realtà di un male irriducibile perché concreto, anzi reificato. Discariche, deserto, Suv, maquiladoras, cadaveri di donne violentate. Il male è qualcosa che trascende ogni convocazione finzionale di significato perché si incarna in quelle vite cancellate, in quella carne morta finita in spazzatura.
Il male ha spostato la sua frontiera più avanzata nel luogo esemplare di Santa Teresa – Ciudad Juarez, la bordertown dominata dal capitalismo delle fabbriche che producono in condizioni di sfruttamento per il mercato statunitense e in balia del potere criminale e corrotto messicano.
Il male in Bolaño non è riducibile a una lettura storico-politica: però non esiste al di fuori della storia, dell’economia, della politica. Bolaño è uno degli eredi legittimi di Borges (Danilo Kiš è l’altro nome che mi viene da affiancargli) che ribaltano l’inquietudine metafisica dello scrittore argentino riportando il male alla sua radice fisica e, così facendo, affermano un’istanza storico-politica tanto radicale quanto del tutto interna ai loro testi.
L’impianto della “parte dei delitti” è modulato sulla casistica del femminicidio dal 1993 al 1997 e include la vicenda ricostruita in Ossa nel deserto del presunto serial-killer posto sotto processo alla stregua di un capro espiatorio, dato che le uccisioni continuano durante la sua detenzione. La licenza maggiore che Bolaño si prende rispetto ai fatti mutuati dall’indagine di Gonzalez Rodriguez, riguarda la nazionalità dell’imputato: da egiziano, quale era nella realtà, diventa un tedesco naturalizzato statunitense. Klaus Haas, nipote del misterioso scrittore Benno von Arcimboldi sulle cui tracce si muovono i critici della prima parte del romanzo, spicca sin dalla prima apparizione perché inconfondibilmente straniero: biondissimo, quasi albino, altissimo come lo zio con il quale il lettore, seguendo la “detection” dei critici, è invitato a confonderlo sino alla comparsa del vero Arcimboldi, ossia Hans Reiter.
Lo straniero diventa perno della “parte dei delitti”, perché i delitti possono essere addossati solo a chi è estraneo alla città, ma lo è anche alla maniera dello Straniero di Camus, l’imputato di omicidio indifferente a ogni sentenza. Klaus Haas, al contrario, si difende in tutti modi, sia con conferenze stampa e avvocati, sia imparando la legge del carcere fatta di esercizio della violenza e protezione del boss più potente; ma con Meursault, il franco-algerino che ha ucciso un arabo, lo accomuna il legame tra l’estraneità fisica e sociale (il gigante ariano con passaporto Usa) e l’estraneità esistenziale e metafisica. Nell’arco della sua incarcerazione, Haas manifesta l’ambiguo carisma di chi diventa tramite di un’altrove: nel luogo chiamato Santa Teresa, dove l’ispettore di polizia Juan de Dios Martinez sembra rimandare a San Giovanni della Croce, il detenuto è travolto da visioni alla Hieronymus Bosch, visitato da sogni apocalittici che fondono il deserti messicani a quelli biblici. La sua figura trascende la domanda della colpa, però facendogli incarnare un’aporia da cui non c’è via d’uscita: i gringos, le “razze padrone”, c’entrano con il male che si manifesta nel femminicidio, ma è il male stesso che vuole presentarli come unici colpevoli. La vittima non innocente Klaus Haas, ponte tra due continenti, è invece in contatto mistico con una forza oscura che possiede storia culturale, tradizione iconografica, origine.
I critici approdano a Santa Teresa per incontrare l’uomo nascosto dietro lo pseudonimo del veneratissimo scrittore e scoprirne la storia. “La parte di Arcimboldi”, la quinta e ultima parte di 2666, che comincia con la Prima Guerra Mondiale e attraversa una buona parte del Secolo breve in Europa, sceglie di affidarsi a un registro predominante burlesco-grottesco, impastato di detriti culturali che finiscono virati verso il kitsch o addirittura verso il trash: il castello di Dracula dove si celebra un festino di baronesse, generali, scrittori e poeti di regime, ma anche i villaggi breugheliani alla soldato Šveijk (per esempio, il “villaggio delle Ragazze Chiacchierone”) dove Hans Reiter trascorre la sua infanzia.
La cultura tedesca e europea asservita al nazismo (e allo stalinismo) ne è stata contagiata e corrotta, quindi lo strumento appropriato per mettersi sulle tracce di quel male coincide a tratti con il cattivo gusto. In mezzo alla lugubre carnevalata, Hans Reiter, il bambino-alga, il soldato che sogna di annegare felicemente nell’abisso, mantiene caratteri di umanità non grazie a un maggiore “realismo” concesso al personaggio ma agli elementi fantastico-favolosi che lo qualificano come creatura di un altro mondo.
Nel dopoguerra Hans sceglie il suo nom de plume ricordando un cenno a Arcimboldo nei manoscritti trovati in una casa ucraina dalla quale il loro autore era stato deportato verso lo sterminio nazista. Quell’atto di conservazione e, al contempo, appropriazione di una vita cancellata, rimanda anche alla storia di Ivanov, scrittore sovietico di libri di fantascienza eliminato da Stalin, il cui autore in realtà era proprio l’ebreo Ansky. Il passaggio da Boris Ansky a Benno von Arcimboldi non si compie casualmente nel segno di Arcimboldo. Come è noto, i ritratti del pittore milanese sono in gran parte composti da nature morte. L’opera più significativa nel nostro contesto è probabilmente la tela denominata “Il librario”, l’uomo fatto di libri. Esistono però altri dipinti che trattano alla stessa stregua non più oggetti, fiori, frutti o animali, ma corpi umani. I volti di Adamo e Eva brulicano di nudi infantili che simboleggiano la progenitura della specie umana. Quell’allegoria grottesca si proietta in avanti, mentre il Benno von Arcimboldi di Bolaño compie il moto esattamente contrario: raccoglie in sé, ponendoli sullo stesso piano, i libri e i corpi scomparsi degli scrittori annientati.
Il male del passato si dischiude dunque come una matrioska nel personaggio finalmente ritrovato di Hans Reiter. Ma ciò accade nel luogo emblematico del male presente, nella città di frontiera divenuta fabbrica di morte a cielo aperto. C’è una linea genealogica, un’eredità precisa che, attraverso lo scrittore Arcimboldi, passa dal soldato della Wehrmacht a suo nipote. In più, la composizione dei cerchi romanzeschi mette in forma che non può esservi nessuna “parte dei critici”, nessuno spazio in cui la cultura possa pensarsi al di fuori o al di sopra del male, se questo, attraverso le epoche e i continenti, continua ad agire fisicamente come reificazione degli esseri umani, come schiavitù, barbarie e violenza.
“La critica della cultura si trova dinnanzi all’ultimo stadio della dialettica di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie.”
Sono queste le parole che Theodor Adorno scrisse nel 1949, quelle pervenute a noi nella semplificazione del precetto “nessuna poesia dopo Auschwitz”.
2666 di Roberto Bolaño è anche questo: un poema in prosa di mille pagine sul legame indissolubile di cultura e barbarie con cui il male ha varcato la soglia del ventunesimo secolo.