Potrei sbagliarmi, ma credo vi sia ancora speranza per la democrazia rappresentativa in Messico. O forse non dovrei sbilanciarmi tanto e più che di speranza dovrei parlare di spazio… c’è ancora spazio per una democrazia rappresentativa in Messico. Perché nonostante i seri e apparentemente insormontabili problemi che attanagliano il paese – corruzione istituzionalizzata, violenza istituzionalizzata, disuguaglianza, povertà e classismo istituzionalizzati – nonostante tutto, non sembra poi così folle ammettere come nuove, potenziali aree d’incontro si stiano formando, giorno dopo giorno, ora dopo ora, nelle strade, nelle piazze, nei cortili, persino nelle case private della capitale. E quando dico “formando”, intendo letteralmente formando. O meglio: geologicamente formando.
Il fatto è che Città del Messico sta lentamente ma inesorabilmente sprofondando. Una stima annuale parla d’una media compresa tra i 5 e i 7 centimetri nel Centro Storico e di 25 centimetri in zona aeroporto. Di conseguenza, quantomeno sul piano simbolico, è indiscutibile come nuovi territori si stiano aprendo in quelle porzioni di tessuto urbano restituito al cittadino dal collassare irregolare della metropoli stessa.
Da qui la mia strana proposta di giustificare quel tiepido ottimismo sul relativo potenziale benessere della democrazia del Messico: che se un’endemica mancanza di trasparenza nella realtà politica del Paese ha annichilito anche la benché minima aspettativa di cambiamento sociale, un riscatto potrebbe venire precisamente da questa consapevolezza d’essere tutti uniti in uno sprofondare comune. E non mi riferisco solamente al fatto inconfutabile di trovarsi ad affondare insieme, un movimento verso il basso da cui nessuno si salva; mi riferisco piuttosto alla già menzionata comparsa di nuovi spazi, se così si possono chiamare… luoghi fisici e allo stesso tempo profondamente metaforici dove intavolare un ipotetico nuovo processo di democratizzazione.
Certo, sto parlando di pochi centimetri all’anno, nulla di più. In tal senso questa mia proposta cade nella sfera dell’allegorico più che del concreto. Una democratizzazione in potenza, per così dire. Anche perché, che si tratti di centimetri o d’intere piazze, in Messico come in qualunque altra parte del mondo l’avere un margine maggiore per la discussione dei diritti civili non garantisce automaticamente più controllo sul potere legislativo, esecutivo o giudiziario da parte degli stessi soggetti discutenti. Ma bisogna pur iniziare da qualche parte, no? E così propongo di iniziare da qui… da fatti geologicamente e scientificamente comprovati e dalla loro potenziale spinta metaforica.
Non solo. Già che ci siamo – già che ci muoviamo nel simbolico – perché non approfittare per immaginarci la storia stessa di Città del Messico dal periodo post-rivoluzionario in avanti attraverso la lente di quelle due forze opposte e complementari che questa stessa città l’hanno dominata?
Da un lato la spinta disgregante e caotica delle forze geologiche che scuotono la terra con continui terremoti e spingono il tessuto urbano a immergersi lentamente nello stesso sottosuolo che l’ha visto nascere. Dall’altra quella conservatrice e regolarizzante del partito politico che l’ha governata per circa settant’anni di fila. La prima forza può essere sintetizzata nei più di cento terremoti registrati negli ultimi cento anni e da quei 7 metri di scarto tra la città come esisteva nel 1917 e la città come si presenta oggi ai miei occhi, nel 2019… con i relativi e facilmente immaginabili problemi di carattere edilizio e civile. La seconda deve essere individuata in quel sistema/partito che va sotto il nome di PRI – Partito Rivoluzionario Istituzionale – che è stato in grado, attraverso un controllo pressoché totale della scena politica del paese, di congelare il Messico e la sua capitale in una morsa autocratica profondamente contraddittoria ma anche assolutamente stabile.
Da qui la domanda: che questi elementi siano le due facce di una stessa medaglia? Che siano in grado di racchiudere in nuce i problemi di un Paese intero? Probabilmente no. Ma quanto meno possono aiutare a concentrare l’attenzione su alcuni dettagli che, a causa della complessità del tema trattato, andrebbero altrimenti trascurati. Certo, ci vuole un po’ d’inventiva. Forse anche un pizzico di superficialità. Ma proprio tale superficialità di giudizio può essere la chiave per capire quella “stabilità su un terreno instabile” che è il credo non detto che ha permesso alla democrazia messicana di configurarsi come un regime autoritario centralista in grado tuttavia di ispirare una certa tranquillità nella tumultuosa vita di un Paese complicato.
Ovviamente le cose non sono così semplici e mai lo sono state. Nulla è positivo o negativo a priori. E poi tutto è sfumatura. Soprattutto perché entrambe le facce di questa famosa medaglia nascondono insidie che hanno minato e continuano a minare un sano funzionamento della cosa pubblica messicana. In fondo ogni medicina viene con la sua lista d’effetti collaterali, e il binomio distruggere/mantenere non è da meno.
Prendiamo ad esempio gli inconvenienti estremamente reali causati dall’affondare della città. Leghiamoli direttamente al fatto che la capitale messicana, insieme a buona parte del Paese, è zona altamente sismica e geologicamente instabile. Ed eccoci serviti con il sollevamento d’intere aree residenziali e industriali, nonché con crolli imprevisti di edifici, con l’interruzione di canali di comunicazione, la messa a rischio del sistema di drenaggio e i conseguenti problemi di infiltrazioni, inondazioni e contaminazioni. Ma non è tutto, perché in questa assurda lotta della città col proprio sottosuolo, gli edifici più vecchi, costruiti su fondamenta meno profonde, tendono a sprofondare, mentre gli edifici attuali, generalmente costruiti su travi che raggiungono livelli rocciosi, finiscono per innalzarsi. O meglio, non proprio innalzarsi… diciamo piuttosto che non si muovono proprio. Ed è qui che dobbiamo scovare il segreto di quei centimetri strappati ogni anno alla terra e restituiti al cittadino. Perché mentre l’ambiente che circonda le nuove costruzioni s’abbassa, queste ultime rimangono immobili e finiscono col ritrovarsi “più alte” del resto della città… dettaglio che causa non pochi disguidi anche e soprattutto al privato cittadino, il quale si vede costretto, di tanto in tanto, ad aggiungere un gradino per accedere alla propria porta d’ingresso.
La stessa confusione vale per il secondo aspetto di questa strana dicotomia: il dominio incontrastato del partito unico e la creazione di un cosiddetto “sistema PRI” che, assicurando il quieto vivere di tutti, ha esercitato fino agli inizi del 2000 un’autocrazia sia a livello nazionale che locale. Chiaramente l’oscillare tra il garantire sicurezza attraverso un assolutismo elitista e la possibilità che la democrazia stessa imploda nella mancanza di un’alternativa credibile ha fatto sì che il PRI sia tutt’oggi un fenomeno bifido e difficile da giudicare. Odiato ma sempre e comunque preferito al potenziale caos di un mondo senza PRI… un mondo dove chissà quale alternativa potrebbe rimpiazzarlo. Amato ma sempre e comunque giudicato con risentimento per la sua condotta classista e lobbista. Perché in fondo, come fosse una coltivazione batterica, anche il partito unico, una volta lasciato a se stesso, non può che favorire la fioritura indiscriminata di mutazioni.
Alcune positive, certo. Ma sicuramente molte nocive… vere e proprie metastasi in grado di prosperare all’interno di un ambiente protetto da influenze esterne. Perché essere un “PRIista”, in Messico, per molto tempo non ha voluto dire appartenere a un partito soggetto a scrutinio e giudizio, quanto piuttosto essere parte integrante di uno Stato forte e super partes.
Ma il punto nevralgico della mia proposta è da rintracciarsi proprio in questa confusione tra reale e potenziale. Ciò che mi interessa è infatti immaginare un ribaltamento di senso in grado di trasformare entrambe le suddette degenerazioni che hanno caratterizzato il Messico geologico e politico degli ultimi settant’anni in una possibile speranza per le prossime generazioni. Perché se lo sprofondare venisse letto come una “creazione di nuovo spazio”, e se più spazio permette più discussione e più discussione più democrazia, ebbene più democrazia dovrebbe creare le condizioni per un sistema politico alternativo che incorporerebbe il superamento del partito unico. Cerchio chiuso.
E allora perché non pensare al fenomeno dello sprofondamento della capitale messicana come ad un’arma simbolica per pretendere una volta per tutte la creazione di nuove opportunità di dialogo democratico? E, seguendo il ragionamento, perché non pensare invece alla presunta stabilità del partito unico come a una soluzione parziale, un espediente in stile paracetamolo in grado di coprire i sintomi senza mai tuttavia curarli?
Ecco che, così facendo, quel mio strano dualismo si ribalterebbe all’improvviso: ciò che disgregava finirebbe per unire… ciò che regolarizzava finirebbe col soffocare. Ed è proprio da questa piccola, assurda sovversione che potrebbe forse nascere qualche idea inattesa… una nuova stagione per un Messico democratico.
Non ancora convinti? Comprensibile. E allora è forse arrivato il momento di affidarsi all’idea borgesiana per cui, nel presentare un ragionamento a un pubblico, è sempre meglio affidarsi al personale e al privato piuttosto che al generale, al comune. Prendiamo dunque le mie domeniche mattina. Perché essendo una persona sensibile al fascino dell’abitudine, ogni domenica, approfittando della chiusura al traffico di alcune delle arterie principali di Città del Messico, me ne vado a correre per le strade della capitale rese finalmente tranquille dall’assenza di veicoli. Tra le suddette strade spicca per importanza il cosiddetto “Paseo de la Reforma”, un boulevard che taglia in diagonale la città e che solo in quest’occasione si riempie di ciclisti e corridori amatoriali, nonché di semplici famiglie a passeggio. Punto nevralgico del Paseo è “l’Angel”, simbolo stesso di Città del Messico e punto di riferimento per ogni suo cittadino. In realtà non si tratta propriamente di un angelo, quanto piuttosto della rappresentazione della dea greca Nike. Poco importa. E comunque sia è proprio qui, all’ombra della dea alata, che un ennesimo indizio a sostegno della mia proposta sembra riproporsi agli occhi di ogni passante – per primi i miei – domenica dopo domenica, settimana dopo settimana. Perché a osservarlo bene quel monumento, non sfugge una certa peculiarità architettonica suggerita dalle diverse tonalità di colore dei gradini che conducono alla base della colonna. Non solo. A una osservazione più attenta, l’intera struttura appare come composta da strati di materiale diverso… o se non propriamente diverso, quanto meno costruito in tempi diversi. E in effetti, a conti fatti, l’Angel di oggi è ben 3 metri più alto di quello del 1910, e a causa di tale differenza, si è dovuti intervenire e costruire nuovi scalini per raggiungerla quella dea. Motivo? Ancora una volta lo sprofondare. Se, all’inizio del XX secolo, per raggiungere la base della colonna su cui poggia la statua si dovevano percorrere nove scalini, oggi se ne devono invece percorrere ventisei.
Che importa? direte. In fondo si tratta di questioni d’ingegneria civile, nulla di più. Certo. Se non fosse che, proprio grazie alle mie corse domenicali, mi sono abituato a vederle gremite, quelle gradinate… completamente occupate dal primo al ventiseiesimo gradino da una massa compatta di uomini e donne con striscioni e bandiere, tutti intenti a far sentire la propria voce. Manifestazioni… ecco per cosa si presta il monumento. Manifestazioni e proteste. Contro il governo. Contro il presidente. Contro l’oscurantismo, la violenza dilagante, la corruzione endemica eccetera.
E dunque, in una situazione tanto difficile, in un presente così scevro di alternative, come non permettersi un po’ di superficialità e pensare a come la geologia stessa stia intervenendo per darci una mano, per suggerire una via terza. Perché in fondo più l’Angel affonda, più spazio sarà restituito alla protesta, alla resistenza del cittadino. E per quanto ci siamo ormai assuefatti all’idea che la fluidità dei fatti sia il nuovo standard, questo inesorabile sprofondare e il suo involontario creare si tramutano in un fatto scientificamente comprovato… una vera e propria piattaforma di lancio per possibili cambiamenti. Una speranza simbolica, chiaro. Ma intanto iniziamo da qui.