Nel maggio del 1958, dalle pagine de “Il Mondo”, Bruno Fonzi, scrittore che vale la pena riscoprire – con Einaudi ha pubblicato Il maligno e Tennis, ha tradotto, tra i tanti, Faulkner, Singer e Hemingway – racconta che “Gli americani hanno infine riconosciuto che Pound non è matto e l’hanno liberato dal manicomio”. Il pezzo è ben scritto, un robusto sketch narrativo, e costituisce una specie di cliché: lo scrittore dettaglia, per sommi capi, la cornice della vicenda poundiana – fascino, fascinazione per il fascismo, arresto, manicomio criminale –, e il suo incontro con il poeta, a Rapallo. La chiusa del pezzo è saporita – “Lo rividi di sfuggita a Roma… Aveva il cappello a larghe tese, un bastone dalla punta ferrata e un lungo sigaro. Mi parve proprio ammattito” – e dimostra, come altri articoli (pressoché esemplari, cioè aurei esempi di giornalismo narrativo) raccolti in È inutile che io parli, la quasi assoluta, appagata, indifesa incomprensione di Pound da parte della cultura italiana. Questa è una delle scabre scoperte del libro, edito da De Piante e curato da Luca Gallesi, che raccoglie “Interviste e incontri italiani” di Ezra Pound dal 1925, l’anno in cui il poeta si trasferisce a Rapallo, al 1972, l’anno della morte, che lo coglie a Venezia, dove è sepolto.
Il libro, intendo, è pieno di autentiche perle, ma l’idea generale resta quella: Pound è trattato con sospetto – se non con diffidenza – eppure, non c’è intellettuale nostrano che non accenni – con schifiltosa vanità – a un contatto, un incontro, un incrocio con il poeta più travolgente del secolo. Così, Guido Piovene gli fa visita, è il 1951, al St. Elizabeths, ma non vede che “un fauno malato”, più attratto dal contesto, il manicomio, che da Ez; Eugenio Montale, nel 1955, sul “Corriere d’Informazione”, per lo meno, fa esercizio di scaltra umiltà (“non comprendo tutte le sue poesie, probabilmente per mia ignoranza, e meno ancora so orizzontarmi nelle sue strane teorie economiche e sociali”), eppure ci ricorda “quando lo conobbi, intorno al ’25”, “era un bell’uomo, aitante, il mento adorno da un pizzo poil de carotte”; “Irremovibile”, “Testardo, convinto delle sue idee, di stare a un gioco divertente che non recasse male ad alcuno”, lo descrive invece Romano Bilenchi, nel 1971, sul “Mondo”, in un lungo articolo, letterariamente efficace, riannodando i suoi dialoghi con il poeta dal “corpo perfetto, forte, da atleta”. Anche l’articolo di Indro Montanelli – 11 aprile 1971, “Corriere della sera” –, come al solito impeccabile, traduce un non-incontro con un uomo cucito nel silenzio, dal volto bellissimo, “tra il profeta biblico e l’eroe omerico”, che “soldati americani rinchiusero… in una gabbia di metallo come una belva idrofoba”. Perfino la ‘mitica’ intervista di Pier Paolo Pasolini del 1968, riprodotta nel tomo, infine, dice più di Pasolini che di Pound. Il celebre articolo di Giovanni Papini, strombazzato sul ‘Corrierone’ come Domandiamo la grazia per un poeta, era il 1955, oltre che retorico (“A nome dei poeti e di tutti gli uomini di cuore d’Italia io mi rivolgo alla ‘donna gentile’ che rappresenta a Roma la grande unione americana. La signora Clara Luce è, per grazia di Dio, una cristiana…”) e pieno di riserve e preservativi (“Non intendo attenuare né assolvere le colpe di Ezra Pound verso il suo Paese…”), si rivelò inutile.
Eppure, Pound nasce poeta in Italia – nel 1908, a Venezia, “stampato da A. Antonini in 100 copie”, pubblica A Lume Spento –, in Italia vive e muore, studia i grandi italiani – Guido Cavalcanti su tutti, poi Sigismondo Pandolfo Malatesta, durante le gite riminesi –, dall’Italia e dell’Italia scrive – l’editore ‘poundiano’ Raffaelli ha pubblicato nel 1996 come Ritorna Età dell’Oro un’antologia di italiani tradotti da Pound, che vanno, senza limiti, da San Francesco a Ugo Fasolo –, in Italia è arrestato, in Italia torna dopo la gabbia americana, in Italia muore. I Pisan Cantos sono definiti – così la quarta di una antica edizione Garzanti, curata da Alfredo Rizzardi – “il poema più vertiginoso del nostro secolo”. Quel mucchio di canti iniziano – è il LXXIV del poema – con “Ben e la Clara a Milano/ per i calcagni a Milano”, con l’esortazione “Temi iddio e l’idiozia della plebe” e la visione, “tutto ciò che esiste è luce”. Per l’intelligenza italica, piuttosto, Pound restò un luogo oscuro, un buco nero, che attraeva con inderogabile magnetismo. Gli fu al fianco Vanni Scheiwiller, a pubblicare le sue memorabili avventure liriche, profetiche.
Pound, probabilmente, eccedeva la misura clerical-culturale italica (“Ezra Pound – occorre dirlo – non conosce in qualsiasi cosa la misura giusta”, scrive Gino Protti sull’“Ambrosiano”, nel 1934, “ebbi l’impressione strana che si trattasse di una persona vissuta molti secoli prima e che ritornasse proprio allora a rivedere la terra, il mare, il prodigio dei colori e delle distanze”). Ancora nel 1986, secondo lo schema consueto, Enzo Siciliano ricorda il suo personale incontro con il poeta – “Era la mattina del 7 marzo ’59. Ero arrivato a Rapallo in treno, da Roma” –, il genio indiscutibile del “mitico maestro” – “I Canti pisani era stato il mio libro per tre anni interi” – e, naturalmente, l’“errore”. Per tutti, tuttavia, Pound fu un totem: consentì elaborati, acrobatici esercizi di stile. Come se per essere davvero scrittori – o poeti o intellettuali al cospetto della Storia – bisognasse passare per il trogolo – e per l’acquasantiera – di Pound. Per scoprire se stessi bisognava inabissarsi nell’ombelico di Pound, dire qualcosa su Pound, avere incontrato Pound, possedere una cartolina, un libro, una reliquia di Pound. Ha qualcosa di stordente e di stupefacente, questo.
Credo che il caso sia retto da un remota armonia, allora, perché nei giorni in cui De Piante manda in libreria È inutile che io parli, Massimo Bacigalupo, insigne studioso e traduttore di Pound, ha fatto ristampare il libro di suo padre, Giuseppe Bacigalupo, Ieri a Rapallo, che custodisce un mirabile ritratto di “Ezra Pound”. Il ritratto è bello perché privo di civetterie intellettuali e di tremori politici. Si racconta l’arresto di Pound – “Stava traducendo il Libro di Mencio il 3 maggio 1945 quando due partigiani lo prelevarono nella casetta di S. Ambrogio. Se lo mise in tasca e li seguì” –, il carcere, l’incontro, nel 1962, in Liguria, dopo un ricovero nella Casa di Cura di Martinsbrunn, vicino a Merano, “dimagrito, invecchiatissimo… in un mutismo quasi assoluto”. Giuseppe Bacigalupo è medico di fama e conduce Pound nella sua clinica, Villa Chiara: il poeta è operato dopo aver rilevato “una grave intossicazione uremica”. I ricordi più estasianti, però, affondano nel 1926, quando Bacigalupo conosce Pound “sui campi del Tennis Club di Rapallo. Ero agli inizi di uno sport che mi avrebbe dato molte soddisfazioni anche in campo agonistico, mentre Pound vi veniva a sfogare le energie non esaurite della sua vulcanica attività intellettuale, saltando e sudando copiosamente tra esclamazioni assai poco ortodosse”. Insieme a Pound, il giovane Bacigalupo partecipa “a qualche piccolo torneo nelle cittadine rivierasche, dove giungevamo sulla Fiat 509 torpedo, carichi di entusiasti del tennis e guidata da mia madre”. Quando Pound vinceva, insieme al giovane, talentuoso amico, “era giulivo come un ragazzo”. Sapeva giocare: “con poco stile ma con inesauribile energia e combattività”. Il poeta sul campo da tennis. Non avrebbe desiderato altro ricordo: lì, nel gioco, dove tutto è vento, volontà, vigore e verbo scomposto. E l’azzurro – si sa, siamo in Liguria – è una traccia di vetro.
*In copertina: Alvin Langdon Coburn, Vortograph Ezra Pound, 1916-17