Mingus racconta Monk: pubblichiamo un estratto da Mingus secondo Mingus di John F. Goodman. Traduzione di Michele Piumini.
Goodman: …Ok, e nel 1951 sei arrivato a New York. Con chi hai suonato la prima volta a New York?
Mingus: Quando sono arrivato a New York, dovevo trovarmi un lavoro, perché rischiavo di perdere mia moglie. Lei [non mi aveva] accompagnato, ero con Red Norvo, che partecipava a un programma televisivo – la prendo alla larga per raccontarti la storia completa, hai tempo? – e Red Norvo era diventato un vero razzista, perché si era messo a lavorare per un canale televisivo razzista.
Goodman: L’hai scritto anche in Peggio di un bastardo, attirandoti una marea di critiche…
Mingus: Be’, fammi raccontare la storia. Quel canale era razzista: non volevano negri o mulatti nel primo spettacolo televisivo a colori, perché sarebbe andato in onda nelle abitazioni private – non ho idea di cosa diavolo intendessero dire – con Mel Tormé, Red Norvo, Tal Farlow e me, più alcuni ballerini e altro ancora. Il presentatore somigliava al grande impresario newyorkese, quello dello spettacolo con gli elefanti…
Goodman: Ed Sullivan?
Mingus: No, quell’altro, prima ancora. Alto, magro, con gli occhiali. Nessuno lo ricorda più, ma aveva lo spettacolo televisivo più importante e seguito del paese.
Goodman: Jack Paar.
Mingus: No, riprovaci, ti verrà in mente. Suona il pianoforte…
Goodman: Steve Allen.
Mingus: Esatto. Insomma, siccome non potevano avere Steve, avevano preso un tipo che gli somigliava, un sosia. Ci esibivamo in quello spettacolo, e facevamo anche il sottofondo per tutti gli altri ospiti. Non avevano una loro band, l’unica musica che andava in onda era la nostra. Un giorno nello studio ho sentito uno che diceva: «C’è troppo colore su quel set, è troppo colorato, bisogna rimediare».
Poco dopo ho ricevuto una telefonata da Red, che mi ha detto di non venire. Era il secondo o terzo giorno di riprese. Io non avevo bisogno di trucco, e questo li mandava in bestia. Così Red ha continuato a lavorare in televisione e ha cominciato a saltare l’ingaggio serale, un nightclub nell’East Side, lasciandomi solo con Tal sul palco. E io ho mollato, perché capivo cosa aveva in mente. Quelle poche volte che si presentava, era talmente ubriaco che era impossibile parlargli. Non mi ha mai ridato i miei soldi. La mattina andavo ad aspettarlo sotto il suo albergo, volevo ammazzarlo, non per i soldi, ma per la questione razziale, avrebbe dovuto comportarsi da uomo e dire: «Ce ne andiamo tutti», non doveva fare altro…
Goodman: Già, come Benny Goodman.
Mingus: Le riprese erano già in fase avanzata, non potevano permettersi di ricominciare. Se Red fosse stato un vero uomo – be’, che vada a farsi fottere – avrebbero accettato di avere un nero nello spettacolo senza fare tante storie, invece mi hanno cacciato e hanno preso qualcun altro per i primi piani, hanno rifatto tutti i primi piani. Se suonavamo in sottofondo, non c’erano problemi e lasciavano andare, ma per i primi piani del trio volevano un’altra faccia. Hanno scelto Clyde Lombardi. È un tipo calvo, [incomprensibile] e io so che stavo suonando bene, sai, non c’era niente che non andava nella musica. E questo era Red. Tal invece veniva dalle montagne, con il suo Moonshine,[1] come si chiama la terra del Moonshine?
Goodman: Kentucky, Tennessee.
Mingus: Kentucky, viene dal Kentucky. No, dalla Carolina, lo chiamano Carolina Slim. Comunque, avevano un pianista che faceva il presentatore, somigliava a Steve Allen, ma il suo problema era che mentre Steve Allen all’epoca era sulla cresta dell’onda, lui era semisconosciuto. E poi faceva anche il disc jockey. Steve non aveva mai fatto il disc jockey.
Goodman: Era grandioso, accidenti. Alcuni degli spettacoli di Steve Allen erano grandiosi.
Mingus: Aveva una fantasia incredibile. Ricordo quando ha ospitato Monk. Monk non parla con nessuno – o almeno all’epoca non lo faceva, forse oggi parla – e Steve è venuto da me a chiedermi: «Cosa devo fare? Se non comunico con quest’uomo non posso mettere in piedi lo spettacolo». Io dovevo essere ospite del programma insieme a Monk, così sono andato dalla mia manager Sue – uuh, Sue… Judy… uuh, Celia (ride) – era stata Celia a ottenere la partecipazione allo spettacolo: era andata da Steve Allen e gli aveva chiesto perché non invitava mai nessun jazzista…
Goodman: E dire che lui sostiene di amare il jazz…
Mingus: Appunto. Lei accompagnava la mia band. Lui parlava sempre di jazz e metteva su i dischi. Così lei ha cercato di promuovere la mia band, ma lui ha detto: «Mingus non è abbastanza famoso, puoi trovarmi qualcuno tipo Miles Davis o Monk?»
«Posso trovarti Monk», gli ha detto lei. Monk era in prigione, perciò lei sapeva dove trovarlo.
Goodman: E come si faceva con la carta?
Mingus: Ah sì, il permesso per suonare nei club. Davvero buffo, come ragiona la gente: fino a quel momento nessuno aveva mai pensato di tirare fuori Monk, ma ecco che arriva lo spettacolo in tv, quelli fanno il nome di Monk e dicono: «Bene, tiriamolo fuori di galera. Paghiamogli la cauzione. Non sarà difficile racimolare i soldi, saranno pochi dollari».
Così, per prima cosa sono andato a trovarlo nella casetta dove abitava, è davvero un uomo straordinario. E fidati, è un bene che non parli, perché dice più cose con il suo silenzio e con la sua musica.
Goodman: Dove l’avevi conosciuto?
Mingus: Nei primi anni Cinquanta, quando lavoravo con Teo Macero, Teddy Charles e il Composers Workshop. Suonavamo sempre con Monk. Be’, Monk ha preso in pugno la situazione. Dentro o fuori dalla prigione, voleva suonare i suoi pezzi. Abbiamo suonato «Round ’Bout Midnight» e (canta una frase di «Well, You Needn’t»).
Insomma, sono andato a prenderlo per le prove. Avevo una macchina, se non sbaglio; all’epoca ero sempre al volante e credimi, trovare parcheggio era meno difficile di oggi. Cinque anni dopo ho iniziato a prendere un sacco di multe, ma prima neanche una. (Tra poco torniamo a Red Norvo.) Ma Monk mi ha detto: «Cosa suoniamo?» Me l’ha chiesto perché sapeva che [nello spettacolo] avevo la mia band.
Per giunta, Steve Allen voleva suonare il piano insieme a Monk, quindi si sono organizzati, anche Steve conosceva i suoi pezzi. Così si è seduto e si è messo a suonare, e Monk ha fatto altrettanto. Steve gli faceva domande tipo: «Thelonious Monk, cosa c’è nella tua musica che ti rende tanto diverso da tutti gli altri pianisti jazz?» Verso la telecamera, per favore.
E Monk faceva: «Mmm hmm» (ride) e Steve insisteva con un milione di parole, e Monk: «Hmmmmm».
Poi: «Ti va di fare un pezzo insieme?»
Monk ha risposto: «“Round ’Bout Midnight”».
E Steve: «No, quella non la so, Monk. Che ne dici di (canta una frase di “Well, You Needn’t”)», e Monk ne era entusiasta. Era stato un bello spettacolo. Non ci hanno dato tanti soldi ma è servito per farci conoscere, sono arrivati un altro contratto e degli ingaggi nei nightclub. Proprio come quando i Beatles sono sbarcati in America e sono andati in tv. Prima dell’Ed Sullivan Show non li conosceva nessuno, è servito a procurargli lavoro. Pubblicità pagata, insomma.
Goodman: E che pubblicità.
Mingus: A pensarci bene, ci servirebbe un altro Ed Sullivan. Trovamelo.
Goodman: Hai visto Monk di recente?
Mingus: È stato male, molto male. Non suonava più. Ha ricominciato a suonare la settimana scorsa. Quel tenorista, come si chiama? Il mio copista…
Goodman: Paul Jeffrey. Ha messo insieme un suo gruppo, un ottetto, se non sbaglio.
Mingus: Esatto, ma non ce l’ho con lui. Paul ha parlato con Monk, dice che si sta esercitando col piano.
Goodman: Se l’è vista brutta, vero?
Mingus: Non hanno capito cosa avesse, ma il suo spirito è stato più forte. Non poteva certo mettersi a letto e morire come tutti gli altri. Lui ha il fuoco dentro, sai, ha il vudù, è un artista vudù. Scrivila questa, è un artista vudù. È un romojuvenahl [qualcosa del genere].
Goodman: C’è ancora la sua signora, Nellie?
Mingus: Sì, sta ancora con Nellie. Ed è rimasto amico di Nica [la baronessa Pannonica de Koenigswarter]. Nica gli sta sempre dietro: quando lui sta male, va a casa di Nica. Lei ha un grande pianoforte a coda e un tavolo da ping-pong. Qualcuno è andato a fargli visita e lo ha battuto a ping-pong. Chi era, forse Paul? Monk non è niente male, a ping-pong. È proprio come quando suona il piano: la racchetta arriva quando meno te l’aspetti. Ti prende alla sprovvista. Il suo ritmo ti prende alla sprovvista, perché colpisce la palla all’ultimo momento. Il ping-pong ha un suo ritmo: ping-pong-pada-bong, boom–boom. Ma Monk non fa boom-boom, Monk fa bapp! Ti aspetta al varco.
Io a ping-pong me la cavo abbastanza bene, anche Milt Jackson, ma Monk non lo batte mica. Però uno che lo batte lo conosco, Britt Woodman. E anche Nesuhi Ertegun, credo che Nesuhi Ertegun lo batta. Erano tutti e due in finale alle cerimonie di Los Angeles. Britt e Nesuhi Ertegun giocavano a livello professionistico. Io gioco meglio di loro, a volte, ho giocato con Ertegun e ho giocato con Bags, cioè Milt Jackson. Come giocatore di ping-pong Bags vale sì e no un decimo di Britt ed Ertegun. Chiedigli se ha mai giocato con Ertegun. Io gli ho dato del filo da torcere, ma ho giocato molto peggio di Milt e ora voglio la rivincita, perché ho un ritmo imprevedibile.
Goodman: Giochi alla Monk, insomma.
Mingus: Esatto, ma parliamo di una decina d’anni dopo la mia partita con Monk. Eravamo sulle Berkshires a fare dei concerti, ed Ertegun viene e mi fa: «Tu non mi batti, Mingus. Al contrabbasso sei bravo, ma non mi batti. Una volta ero un campione».
Goodman: Be’, è la competizione.
Mingus: Esatto, ed è così che dovrebbe essere la musica. Mettiamoci i guantoni e vediamo chi picchia più forte. Sono stufo di tutti questi critici che si sforzano… è per questo che Down Beat sta fallendo, sai? Down Beat sta fallendo perché tutti hanno paura di dire su chi puntano. Hanno paura di prenderle di santa ragione. Ok, mettiamo che qualcuno dica che Ornette Coleman è il più grande per questo e quest’altro motivo. Il giorno dopo, dico io, Ornette, Charlie McPherson e altri tre contraltisti di mia conoscenza dovrebbero salire su un palco e fare una jam session. E a quel punto loro cosa farebbero?
Goodman: Oppure fare la stessa cosa sulla rivista, una piccola tavola rotonda.
Mingus: Questo sarebbe utile, aiuterebbe molto la rivista. Ma immagina un posto dove i critici possano andare ad ascoltarli con le loro orecchie, cosa gli direbbero? «Sedetevi e suonate un pezzo insieme». L’idea è di una semplicità incredibile.
Ornette dice: «Ehi, aspetta. Io devo usare i miei arrangiamenti. Come sarebbe, salire sul palco e suonare tutti insieme?»
Buddy Collette dice: «Dai, bello, suoniamo la tua musica, Ornette, porta la tua musica».
Benny Carter dice: «Be’, Ornette, ok, si suona la tua musica».
McPherson dice: «Ehi, il jazz non è musica da leggere. Il jazz è suonare insieme, quindi suoniamo insieme. Suoniamo qualcosa che Ornette conosce e che Benny Carter conosce, forza, troviamo un pezzo che conoscono tutti».
Così attaccano (ride) «All the Things You Are», «Body and Soul», chiamano i pezzi, e se lui non conosce il pezzo, come si fa? Specialmente se gli dici di fare il primo chorus. Il primo chorus di solito è la melodia. È davvero triste. Non lo sapremo mai, ed è davvero triste.
La fine del mondo è vicina, secondo me. Gesù sta per arrivare. Arriverà su un carro, prenderà i peccatori e li metterà a sedere in un angolo accanto al diavolo, poi chiamerà gli angeli e dirà: «Facciamo una jam session».
A quel punto Ben Webster salterà su e tirerà fuori il sax, e salterà su Coleman Hawkins, e Bird salterà sul palco con Buddy Collette, Ornette Coleman e Benny Carter, e dirà: «Cosa volete suonare?» E sarà uno spasso, perché a chi sa suonare non gliene frega niente di quale pezzo chiami. O hanno l’orecchio assoluto e azzeccano i cambi, oppure conoscono tutti i pezzi e stanno sempre attenti. Voglio dire, è ridicolo che ci sia gente che non sa suonare i pezzi di un altro. Io suono i pezzi di chiunque, mi basta sentirli. È davvero triste.