Stefano Tamburini è morto in un imprecisato giorno dell’aprile 1986. Fu ritrovato senza vita nel suo appartamento, su un materasso steso a terra, a un paio di settimane dal decesso. Qualche tempo dopo, sull’emittente locale Teleroma 56, a ricordarlo furono quelli che erano stati innanzitutto i suoi amici e poi… be’ sì, colleghi: Filippo Scozzari, Andrea Pazienza, Vincenzo Sparagna. Assieme a loro, a Tanino Liberatore e a Massimo Mattioli (nessuna parentela col sottoscritto), Tamburini aveva battezzato il mensile Frigidaire, un UFO atterrato nel panorama editoriale italiano circa sei anni prima, nel novembre 1980; prima ancora c’era stato Cannibale, atto di nascita della nuova onda del fumetto italiano; e negli anni Settanta la fugace militanza nei gironi dell’underground romano, compresa una collaborazione con Stampa Alternativa di Marcello Baraghini.
La vicenda di Stefano Tamburini sta tutta qui: quando morì non aveva ancora compiuto 31 anni, Frigidaire era arrivato al numero 65, e l’ultima puntata di Ranxerox (tuttora la sua opera più nota) era uscita a dicembre 1985. A quel punto gli ultimi echi del ’77—di cui Tamburini fu al tempo stesso esito e interprete—erano già evaporati nel riflusso, nell’eroina e infine nella luccicante vacuità di quell’Italia da bere la cui nuova capitale, Milano, era stata immortalata nel puntualissimo spot Ramazzotti, anno 1985. In questo senso quella di Tamburini fu una scomparsa che con una certa, ipocrita superficialità possiamo definire simbolica, sia per la data in cui cadde che per le cause (overdose). Due anni dopo, allo stesso modo finirà Andrea Pazienza.
Io Tamburini l’ho conosciuto che era morto già da diversi anni. Come tanti adolescenti, ero stato preso dal demone pazienziano e in uno slancio di ardimentoso enciclopedismo mi ero fatto regalare per il compleanno l’ingombrantissimo “Pacco Orda d’oro”, quello in cui il direttore Vincenzo Sparagna aveva infilato tutti i numeri di Frigidaire fino a metà anni Ottanta. Trovatomi in casa con tre scatoloni zeppi di fumetti, donne nude e articoli che spaziavano come nulla fosse da “Le regole della Camorra” a “Intervista ai Tuxedomoon”, venni preso da qualcosa di molto simile alla sindrome di Stendhal quando l’occhio mi cadde proprio su una delle ultime puntate di Snake Agent, quella celebre del “Venderemo il nostro Lichtenstein/Ma è falso!/Perché, noi siamo veri?”.
A fatica, riuscii a decifrare numero dopo numero tutti i suoi contributi, e negli anni ho sviluppato nei suoi confronti una… boh, non so come altro chiamarla, una passione che alla fine ha indirizzato molte delle mie scelte da quasi vent’anni a questa parte, compresi i dischi da acquistare, le cose da scrivere, le riviste (o rivistine) da fondare, e non ultimo un soprannome smaccatamente tamburiniano, Thalido, che mi sono portato appresso per anni al punto che c’è ancora gente che mi chiama così.
Ora: forse è una mia impressione, forse un’ossessione personale, forse un mero dato di fatto, ma ecco, vicende private a parte ho sempre percepito la scomparsa di Tamburini come un nodo non risolto dell’immaginario italiano Ottanta. A differenza di Pazienza, la cui idolatria riverbera ancora al punto da provare quasi pena per tutti i fumettisti che sono venuti dopo (in fondo come dare torto a Gipi quando dice che “Pazienza ha rotto il cazzo”?), mi sembra che l’autore di Ranxerox sia come stato relegato alla mitologica ma un po’ triste categoria degli unsung heroes, da dizionario “gente che fa cose la cui importanza non viene adeguatamente riconosciuta.”
Qualcuno ogni tanto ci prova: a vent’anni dalla scomparsa, il festival di fumetti indipendenti Crack! gli intitolò l’edizione nel 2006; il più istituzionale Comicon di Napoli gli ha dedicato una mostra nel 2011. In entrambe le occasioni, a fornire letteralmente il materiale delle retrospettive fu il collezionista e curatore Michele Mordente, il cui contributo alla causa risale perlomeno a Una matita a serramanico, l’omaggio uscito nel 1997 per la collana Millelire di Stampa Alternativa. L’anno prima era stato Filippo Scozzari, nel libro autobiografico Prima pagare poi ricordare, a mettere in prospettiva la saga frigidairiana ristabilendo il peso che “Tamburo” ebbe nella stessa ideazione della rivista romana. E però, nulla da fare: nel simbolico pantheon delle italiche icone, Stefano Tamburini resta una presenza marginale, o al limite venerata più per convenzione che per effettiva conoscenza.
Mi sono sempre domandato il perché della scarsa fortuna di Tamburini persino presso quegli ambienti che pure, in teoria, gli devono se non altro qualcosa. Un primo motivo che mi sono dato, è che la sua opera maggiore, e cioè sempre Ranxerox, resta presenza ricorrente dell’immaginario di casa nostra più per i disegni di Tanino Liberatore che per le storie di Tamburini stesso. Perché in effetti Tamburini, Ranxerox non lo disegnava mica. O meglio: l’aveva inventato lui e in un primo momento l’aveva anche ritratto, ma poi aveva passato le matite a colleghi più dotati perché in fondo a disegnare non era granché.
In effetti il vero, grande fraintendimento che riguarda la sua figura, è proprio che Tamburini sia stato un fumettista. Voglio dire, ovvio che Tamburini fu anche un fumettista, lo dice pure Wikipedia. Però già a partire da Cannibale il suo ruolo era sfumato in direzione di un più generico lavoro sull’immagine, sulla grafica, sul design, e assieme su un approccio ai contenuti che fosse specchio di un clima che davvero non so riassumere se non ricorrendo all’etichetta-feticcio post-punk. Dietro ogni suo singolo materiale c’era una poetica molto precisa, sia che si trattasse di metafumetti alla Snake Agent che delle griglie grafiche di Frigidaire, sia che fossero le recensioni di dischi che le peripezie del solito coatto sintetico in una Roma bladerunneriana prima di Blade Runner. Tutte le sue cose conservano sempre un che di scontroso e contemporaneamente algido, a volte fanno ridere ma è sempre un ghigno cinico, che mette a disagio. Viene da associarlo a un disco dei primi Devo, quelli di “Mongoloid” per capirci. O alla velenosa freddura di un coatto di Centocelle, anche: ma a questo ci arriveremo poi.
La copertina del numero 1 di Frigidaire.
Per quanto mi riguarda, il massimo capolavoro di Tamburini coincide con la nascita di Frigidaire, che è nel complesso una creazione principalmente sua (anche se da condividere con Vincenzo Sparagna, che della rivista più che il direttore fu l’anima “politica”). Di Frigidaire Tamburini concepì innanzitutto il nome, il logo, e il taglio contenutistico: una rivista-contenitore che assieme ai fumetti comprendesse anche reportage, inchieste, musica, e più in generale uno sguardo obliquo su quello che anni dopo, con termine orribile, sarebbe andato sotto la voce lifestyle.
A ispirarlo fu prima di tutto il magazine francese Actuel, ma l’altra influenza cruciale furono le pubblicazioni—di tutti i tipi: manifesti, fanzine, dischi, cassette—in cui si imbatté nel 1979 durante un viaggio a New York, o per meglio dire nell’allora degradatissimo Lower East Side. È noto che per Tamburini New York significasse sostanzialmente no wave, lo scontroso movimento antimusicale nato proprio tra Bowery e Alphabet City i cui protagonisti si chiamavano Mars, DNA, Contortions, Teenage Jesus & The Jerks, e tale era la sua immedesimazione in quei suoni ansiogeni in cui si accavallavano scazzo urbano e dissonanze avantgarde, che alla no wave Frigidaire dedicò un precoce tributo già nel 1982, sul numero 14 della rivista. Qualche pagina oltre, viene anche intervistato James White. Ancora sullo stesso numero, un reportage sul punk bolognese. E infine, allegato al giornale ecco un 45 giri con brani di Naif Orchestra e Monofonic Orchestra.
Tamburini pensava al gruppo di Frigidaire come “a una rock band”. E anche se Pazienza più in là dei Supertramp non andava, fu proprio la musica, mi confessò a suo tempo Tanino Liberatore, a funzionare da collante sin dai tempi di Cannibale, che di Frigidaire fu l’antefatto: lo stesso sodalizio Tamburini-Liberatore venne propiziato dai ritratti che quest’ultimo aveva fatto di musicisti come Brian Eno e Robert Wyatt; a Bologna, Filippo Scozzari viveva assieme ai futuri Gaznevada, Stupid Set e Hi-Fi Bros, vale a dire i gruppi di riferimento del post-punk italiano più avventuroso e spiritualmente vicino alla stessa no wave; da parte loro, tanto Massimo Mattioli quanto Stefano Tamburini collaborarono a più riprese con Maurizio Marsico (il Monofonic Orchestra di cui sopra), altro musicista che proprio nella New York di Mars e Contortions si era formato; l’industrial di gruppi inglesi come Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire, il gelido nonsense dei Residents, la patafisica schizoide dei Pere Ubu, divennero riferimenti pedantemente citati dal gruppo e da Tamburini in particolare, che su Frigidaire si improvvisò anche critico musicale (le sue blasfeme recensioni a nome Red Vinyle restano un concentrato di ruvidezza maldestramente imitata fino ai giorni nostri); e poi c’è la cassetta Thalidomusic for Young Babies, guazzabuglio plagiarista messo assieme dal solito Tamburini riassemblando e mandando al contrario dischi perlopiù industrial e (ci mancherebbe) no wave. Ah, il nome Thalido veniva da lì: il thalidomide prima di allora manco sapevo cosa fosse.
Tutti questi aneddoti aiutano a comprendere quali fossero i modelli su cui Tamburini plasmò “il suo” Frigidaire, diversissimo e in molti casi antitetico a quello di Sparagna. Per dirla proprio con Tamburini: “ci sono due tendenze nel giornale. Da una parte c’è la musica, ci sono situazioni più europee, e dell’altra c’è la politica, guerriglieri, negri, terzomondismo ecc, cose che a me non interessano tantissimo.” Nell’impostazione di Tamburini, Frigidaire doveva essere insomma una specie di rivista new wave, o meglio ancora un giornale che della new wave restituisse gli aspetti più stridenti e meno edulcorati: l’enfasi sul post-punk d’avanguardia e l’affinità sbandierata con movimenti come la no wave e la musica industriale, erano parecchio più di un indizio. Ma ancora più esplicito fu in questo senso il lavoro di Tamburini come grafico e art director della rivista: le griglie tutte angoli e linee spezzate, i collage detournati, le citazioni costruttiviste e le fotocopie stirate erano una violentissima variazione sul tema della “accelerazione” che esplodeva in particolar modo—ha giustamente notato Carlo Branzaglia—nell’impaginazione dei sommari, forse il suo più importante contributo al graphic design italiano o meglio ancora europeo.
Perché ecco, andrebbe ricordato che il lavoro di Tamburini in questo campo correva parallelo a quello di altri grandi designer, tutti più o meno affiliati alla new wave: per restare all’Italia, la tipica estetica frigidairiana era di fatto una versione omicida degli esperimenti postmodern di Ettore Sottsass periodo Gruppo Memphis; all’estero, i punti di contatto più evidenti erano coi francesi di Bazooka e soprattutto con la scena inglese indissolubilmente legata (di nuovo) agli ambienti musicali del post-punk: le citazioni futuriste di Peter Saville e gli ammiccamenti suprematisti di Malcolm Garrett sono tutti plausibili termini di paragone, ma forse il personaggio che più si avvicina a Tamburini è proprio Neville Brody, che poi è il più rappresentativo graphic designer del periodo. Di nuovo Branzaglia ha già suggerito che tra i due esistessero sia evidenti affinità (la durezza, tipicamente post-punk, del contrasto bianco-nero) quanto evidenti differenze (più neoclassico l’inglese, irriducibilmente freddo il romano), ma non è nemmeno un caso che quando Brody divenne l’art director del mensile inglese The Face, proprio Frigidaire avrebbe finito per fargli da sponda in Italia. Addirittura nel 1983 le due riviste (più la solita Actuel in Francia, El Vibora in Spagna, Wiener in Austria…) formarono una specie di “internazionale” rimasta caso isolato del panorama europeo.
Gli altri capolavori di Tamburini sono ovviamente Snake Agent, culmine dei suoi esperimenti con l’oggetto fotocopiatrice; gli stranianti collage coi cartoncini Bristol di cui resta esempio la pluricitata copertina del numero 1 di Frigidaire e la fantomatica collezione Vudu Moda; e in generale tutto il lavoro sull’idea di “furto/appropriazione creativa”: e fin qui siamo al curriculum dell’artista morto troppo presto la cui opera magari un giorno, chissà, forse, vedremo, speriamo, verrà riscoperta, finirà in qualche catalogo e allora staremo di nuovo a parlarne. Se non lo sapevate già, spero insomma che arrivati a questo punto abbiate compreso che ridurre Tamburini alla figura di fumettista, o peggio ancora a quella di sceneggiatore di Ranxerox, è se non altro… improprio. Come però è improprio circoscriverne l’opera all’interno dell’estetica post-punk e alla poetica del freddo che fu una delle cifre della new wave tutta, sia italiana che non.
Tamburini in fondo era prima di tutto un borgataro, figlio di ferroviere e abituale frequentatore di quella wasteland spirituale che è la periferia romana, la stessa a cui per abitudine assocereste l’aggettivo “pasoliniano”. Mi viene da pensare a una cosa scritta da Emi Fontana, che del fondatore di Frigidaire fu la moglie: “Le sue fonti di ispirazione preferite erano sul sessanta e il cinquantasei notturni, nelle strade semideserte delle sterminate periferie romane di Centocelle e Prenestino,” e a me—che da adolescente a Centocelle ci vivevo e tuttora non è che mi sia spostato di molto—più che una coincidenza è sempre sembrata una conferma e assieme un motivo di inconfessata identificazione. Stefano Tamburini era senz’altro un artista molto romano, da tanti punti di vista: provava un’adulazione incondizionata per Mario Schifano e la vecchia scuola di piazza del Popolo, e coi vari Tano Festa e Franco Angeli condivideva, oltre che la consuetudine con la siringa, il rapporto osmotico con un’Urbe intrinsecamente marginale, antiromantica, molesta; e poi era l’erede di un percorso che riportava indietro ad Aldo Piromalli, ad Alberto Grifi, a Victor Cavallo, in sostanza a quell’underground capitolino il cui ultimo esito sarà il Nico d’Alessandria di L’imperatore di Roma, storia di tossici uscita un anno dopo la morte di Tamburini stesso e sorta di Accattone coi coatti in motorino al posto dei ragazzi di vita, il chiodo al posto delle canotte, i sintetizzatori al posto di Bach.
Per un altro borgataro come il sottoscritto, questa specie di tradizione occulta della Roma off off che quasi non può fare a meno di rispecchiarsi nella figura topica del coatto, era un sollievo e anche uno spunto per liberarsi da quel “complesso di Pasolini” che immancabilmente attanaglia chi la toponomastica di Ragazzi di vita la conosce perché gli è toccato viverci, e al tempo stesso non ne può più di ritrovarsi il santino di Franco Citti evocato a ogni aneddoto che per oggetto ha via Casilina e dintorni. Con Tamburini invece, leggevi Red Vinyle e in una recensione dei DNA ci sentivi la lingua di Torre Maura. Sfogliavi Frigidaire e in qualche strano modo ci ritrovavi tanto la New York no wave quanto le prostitute di via Palmiro Togliatti. Mi viene da pensare che se Tamburini è stato a suo modo un artista post-punk, non è perché per le sue grafiche rubava le idee ai Devo; semmai è perché a inizi anni Ottanta la borgata doveva suonare esattamente come un disco dei Contortions: un cumulo spigoloso di vetri rotti, siringhe sporche, botte di cocaina sul muretto, aggressioni verbali e culi in tiro.
È un’immagine a cui torno spesso, la Centocelle tamburiniana, se non altro perché quegli stessi luoghi non hanno mai smesso di alimentare una mitologia che, per venire a tempi recenti, può andare dalle mistificazioni del Pigneto immaginato da Michele Masneri in Addio Monti, ai bengalesi di Walter Siti che erigono altari alla dea Kali nella piazzetta di via dell’Acqua Bullicante. Forse mi sbaglio, ma credo che Tamburini Masneri l’avrebbe detestato, mentre chissà, Walter Siti gli sarebbe piaciuto: “le borgate sono il nostro domani,” chiosa lo scrittore di Modena in Il contagio, il che rievoca il tamburiniano “il coatto sarà il soggetto sociale degli anni Ottanta.” In fondo, anche i muscoli ipertrofici del culturista Marcello, musa e tormento di Siti, discendono a loro insaputa da quelli di Ranxerox.
Ogni tanto però mi chiedo che fine abbia fatto, quell’immedesimazione scontrosa con gli umori della borgata, ora che la borgata è stata diluita nel surreale sprawl caltagiron-veltroniano, anche quello riflesso implicito dei 30 livelli in cui Tamburini divise la Roma di Ranx. Di sicuro la borgata non suona più come i Contortions, e in fondo è giusto così: sono passati 35 anni, no? Semmai trasuda di singulti panetnici alla Shackleton, diciamo. A me Shackleton piace, a Red Vinyle non saprei. I vetri rotti, le siringhe sporche, le botte di cocaina sul muretto, le aggressioni verbali e i culi in tiro, in ogni caso sono ancora lì, con buona pace dei MacBook Pro del bar Necci.