Pochi giorni dopo il funerale di Italo Calvino ho buttato giù gli appunti che seguono, soltanto per ricordarmi la situazione e i sentimenti del momento. Ero appena tornato dalla Francia, e la sera stessa la moglie di Calvino (Chichita) mi ha telefonato per dirmi che Italo stava morendo. Sono partito in macchina nella notte verso Siena assieme alla moglie di Carlo Ginzburg (Luisa), mentre Carlo stava arrivando col treno da Roma.
In macchina io e Luisa siamo arrivati a Siena a mezzanotte e mezza, e proprio allora Carlo stava smontando da un taxi davanti all’ospedale. Chichita era andata a dormire all’albergo. Italo era in sala di rianimazione dove non si poteva entrare, lo tenevano ancora in vita con farmaci «a termini di legge». Abbiamo cercato in tutti gli alberghi di Siena senza trovare un posto per dormire, allora ci siamo seduti ad aspettare davanti all’ospedale. Siamo riusciti a entrare solo alle 4, quando è arrivata Chichita assieme a Giorgio Agamben, Giovanna, Aurora, François Wahl, e il fratello di Italo. Avevano già composto il corpo di Italo nella bara, ma in modo ridicolo, pare, mettendogli del pizzo intorno alla testa.
Nella notte ci siamo seduti intorno a un tavolo nella stanza del direttore dell’ospedale. Chichita ha dovuto andare a occuparsi della bara e d’altre cose, poi quando è tornata si è messa a farci molti racconti su Italo. Mentre era in stato di semi coscienza i dottori lo avevano interrogato a lungo, e Italo rispondeva a tono, ma sempre in modo romanzesco. Diceva frasi come se stesse ancora rimuginando su qualcosa da scrivere, e a un certo punto avrebbe detto questa frase: «Gli occhiali sono il giudice». Poi una battuta patafisica, in francese: «Je suis un abat-jour allumé» (questo, secondo Chichita, perché l’aneurisma gli aveva messo un tremendo bruciore nella testa).
In un altro momento Italo si era risvegliato chiedendo se aveva avuto un incidente. Poi aveva detto ai dottori che aveva trent’anni e abitava in Boulevard Saint Germain (dove andava a passeggiare quasi ogni sera, quando io ero a Parigi). Prima di cadere nel sopore che precede il coma, ha cominciato a parlare come se leggesse un libro, pronunciando queste parole molto scandite: «Vanni di Marsio, fenomenologo… le rette… le parallele…». E dopo non ha più parlato.
Adesso avevano messo il suo corpo nella bara in mezzo a un grandissimo salone dell’ospedale. Nella bara s’era tutto rimpicciolito, e il suo viso era deturpato da una grossa bozza sulla fronte, dove lo avevano aperto per operarlo. Inoltre gli avevano tagliato tutti i capelli, e anche questo lo rendeva diverso. Aveva però una traccia della sua antica smorfia sulle labbra, e guardandolo dal lato opposto a quello della bozza lo riconoscevo bene. La grande sala era piena di affreschi, con sedie di velluto allineate lungo i muri, e una corsia per terra arrivava fino al tavolo di marmo su cui era stata collocata la salma. C’era quel ridicolo pizzo intorno alla bara, che ogni tanto il vento agitava, e bisognava rimetterlo a posto. Erano già le sei del mattino, si vedeva una bella luce nella vallata fuori dalla finestra.
Alle sette i malati dell’ospedale hanno cominciato ad affluire per vedere il morto famoso, di cui parlavano tutti i giornali. Poi sono venute molte donne con la sporta, che entravano nell’ospedale mentre andavano a fare la spesa. Queste donne nel grande salone non si avviavano mai sulla corsia, ma giravano tutte a lato della bara con aria umile e rispettosa. Anche nei negozi intorno alla piazza non si faceva che parlare di Italo, era una bellissima giornata e adesso cominciavano ad apparire i turisti che andavano a visitare la cattedrale. Verso le otto è arrivato il prefetto di Siena, che ha salutato Chichita con un inchino molto rigido. Poi è venuto il comandante dei carabinieri a salutare Chichita in modo più umano, quasi scusandosi, e andando via con aria commossa. Il prefetto invece è andato via rigido come un baccalà.
Veniva gente di tutti i tipi. È arrivato anche il padrone d’un ristorante a salutare affettuosamente Chichita. Sono venuti carabinieri, preti, suore, malati, infermieri a vedere il corpo dell’uomo famoso. Sono venuti i bambini d’una scuola elementare accompagnati da una suora, e mentre la suora diceva una preghiera i bambini si drizzavano sulle punte dei piedi per vedere il morto. Poi è arrivata Natalia Ginzburg, ed era la persona che amavo di più in tutto quel traffico. François Wahl sembrava un uomo torturato: borbottava che un anno fa gli è morta la madre, poi è morto Foucault, adesso Italo. Sic transit gloria mundi, volevo rispondergli.
Alle undici io, Carlo e Luisa siamo andati in albergo. Ho dormito fino alle quattro e ho fatto un sogno. Nel sogno c’era una strada che stavano costruendo, e c’era una specie di trattore che buttava la ghiaia ai lati, prima di stendere l’asfalto sulla carreggiata. Su quella specie di trattore era seduto Italo, che si teneva strette le braccia intorno al corpo in una sua posa abituale, e aveva anche la sua vecchia smorfia sulle labbra. Poi quando Carlo è venuto a svegliarmi, stavo sognando che la strada congiungeva due città lontane, e Italo aveva a che fare con la sua costruzione come se fosse un sorvegliante dei lavori (ho pensato molto a questo sogno, al senso di questa strada che congiunge luoghi lontani).
Quando siamo tornati all’ospedale, tutta l’atmosfera luttuosa mi piaceva ancora. Era venuta una delegazione del Partito Comunista, c’erano molte corone, molta gente popolare. Mi piaceva che venissero in tanti, tutti confusi, i preti, i comunisti, le suore, i pallidi intellettuali di provincia che spiavano il morto timidamente. Mi piaceva che ci fosse un andamento non prestabilito, ma funebre, e che tutti uscissero di tanto in tanto a chiacchierare mestamente davanti al duomo. Poi mi è piaciuto quando è arrivato il Presidente della Repubblica, e tutti i malati l’hanno applaudito. Io ero sui gradini del duomo con Carlo; è arrivato un altro personaggio del Partito Comunista con l’aria simpatica; scendeva un po’ di pioggia ma il cielo era tutto sereno.
Così le cose sono andate avanti bene fino alle sette e mezza di sera, quando dovevano chiudere la sala dell’ospedale. Chichita ha detto: «Non ci riesco a lasciarlo qua da solo». Io e Giorgio Agamben volevamo stare là dentro chiusi tutta la notte a fare compagnia a Italo, ma non era possibile perché la sala doveva restare vuota (regolamenti!). Allora abbiamo dovuto lasciarlo là da solo, e forse adesso Chichita mi ha raccontato altre cose. Non ricordo bene per quale motivo mi ha fatto ridere, ma c’entrava col fatto che a Italo piaceva pochissimo la vita di relazione cosiddetta.
A cena in un ristorante stavamo bene, con Carlo e Luisa, Giorgio Agamben, Ginevra Bompiani. Pensavo alle ultime parole di Italo («Vanni di Marsio, fenomenologo… le rette… le parallele…»). Per lui la geometria era una idea di chiarezza, e amava poco il buco dell’anima, il nero che abbiamo dentro. Si rifiutava, si rifiutava a queste cose. A lui piaceva l’esprit de géométrie, come un Pascal al rovescio. Negli ultimi tempi s’era messo a studiare la fenomenologia di Husserl. Vanni di Marsio è un nome che non esiste: l’ultima sua frase riassume tutto.
Adesso però mi viene in mente che ho sbagliato gli orari, perché in realtà il salone dell’ospedale non è stato chiuso alle sette e mezza, bensì a mezzanotte. Ed è lì che ho cominciato a sentirmi a disagio, precisamente quando a mezzanotte ho visto spuntare sulla piazza del duomo quattro figuri dell’alta cultura, con l’aria di grossi parassiti che si vergognavano ad essere lì, si vergognavano della morte. Sembravano cani con la coda tra le gambe, non per dolore o mestizia, ma perché il lutto li metteva in imbarazzo. Uno di loro mi ha anche detto queste precise parole: «Sai, la morte mi sembra una cosa sconcia, poco dignitosa e antiestetica».
La mattina dopo, ore otto, tutto era cambiato in peggio. A ogni minuto che passava la situazione diventava più insopportabile. Tutti i giornali riportavano la notizia della morte di Italo in prima pagina, ma non c’era un solo articolo che valesse la pena di esser letto. Calvino diventava il simbolo d’un privilegio, il simbolo della letteratura come privilegio mondano, un miraggio che veniva rimesso in circolazione per la prima volta dai tempi di D’Annunzio. Lui che per tanti anni aveva deriso la mania di «farsi scrittori», che s’era torturato per non cedere alla facilità del «nome di richiamo», adesso era diventato uno specchio per le allodole. C’è un ritorno alle mitologie dannunziane in forma industriale, la letteratura entra ufficialmente tra i prodotti pubblicitari di consumo, d’ora in poi sarà solo questa montatura dei «nomi di richiamo» sventolati sui giornali. E tutti gli aspiranti al privilegio mondano del ruolo di «scrittore», adesso spuntano fuori come i topi che vanno in cerca del formaggio.
Verso le undici erano già arrivati tutti, uno a uno, non so a fare cosa, tutti con l’imbarazzo per il lutto. Venivano lì a guardare Italo proprio di sfuggitissima, i nostri uomini di cultura, l’alta borghesia, i grandi parassiti. E poi subito li ritrovavi che chiacchieravano mondanamente davanti all’ospedale. Lo vedevo bene che ognuno aveva un’orbita dove girare, ognuno faceva atto di presenza in un giro di personaggi che contano. Lo vedevo che adesso Italo era completamente in mano loro, era un morto della Grande Casta: era un loro celebre rappresentante che venivano a sbirciare per dovere, prima di tornarsene a ronzare nelle loro orbite.
Giravo di qua e di là ascoltando gli orbitanti sulla piazza. Parlavano solo di libri, dei loro libri, dei loro successi, delle loro alte conoscenze, degli articoli sui giornali, delle cose che bisogna leggere, delle cose che non bisogna leggere. Ho sentito qualcuno che diceva, d’un libro che stavano pubblicando: «Sarà un grande successo». Poi qualcuno ha detto: «E lo facciamo tradurre subito in francese». Erano così assorti nei loro traffici, che la circostanza del lutto non li sfiorava neanche lontanamente. In un bar ho incontrato Umberto Eco, che vedendomi mangiare una brioche mi ha salutato con questa battuta: «Facciamo un banchetto in onore del morto?». Doveva scappare in fretta, lo aspettavano a Bologna.
Verso mezzogiorno avevo voglia anch’io di scappare via, ma non potevo perché ero con Carlo e Luisa. Là sulla piazza vedevo gli orbitanti in circolazione, tutti gonfi col gas della cultura. Tutti che campano e si nutrono di giudizi, si scambiano giudizi in continuazione, e quella è la loro carota. I giudizi riverberano nelle orbite, e chi vuole far carriera deve fare come gli altri, per avere accesso alle orbite, perché quella è la sua carota. Intanto il feretro passava attraverso la porta dell’ospedale, mentre i malati che volevano uscire erano rimandati indietro dagli infermieri. A parte i rappresentanti della Grande Casta mondana e culturale, non c’era più molta gente sulla piazza, stranamente vuota anche di turisti.
Ho fatto il viaggio in macchina con Carlo e Luisa fino al cimitero di Roccamare, nel paesaggio collinare pieno di colori tenui. Sulla strada verso Grosseto, tra i campi appena arati e in una bella giornata di settembre, avevamo molta voglia di parlare di Italo. Ripensavamo a quando ci aveva fatto incontrare, sedici anni fa, con questo ordine tassativo: «Diventate amici!». Da allora io e Carlo non abbiamo mai smesso di litigare, fino a quel momento in cui ci sentivamo molto amici.
Cimitero di Castiglione della Pescaia, in alto sul promontorio. Qui era netta la separazione tra le classi. La Grande Casta era attorno al buco della tomba che veniva cementato, mentre gli indigeni arrampicati sui muri guardavano tutto da lontano. Il sindaco di Castiglione della Pescaia aveva fatto affiggere dei manifestini che inneggiavano a Italo come «autore locale», ma niente aveva l’aria della festa paesana, tutto puzzava di pubblicità e di mondanità. Un fotografo si è messo a fotografare Natalia Ginzburg che piangeva. Intorno a me sentivo molti che parlavano l’ottimo francese dei migliori circondari parigini. Non c’era proprio altro da fare che scappare via in fretta. Chichita stava in piedi a stento, non mi ha neanche riconosciuto quando l’ho abbracciata.
Poi per fortuna c’erano Carlo e Luisa, e andando in macchina ci sentivamo molto vicini. Se ho pianto alla sera è perché era passato via tutto, non c’era più niente da fare, bisogna proprio abbandonare questo paese cinico e baro. Tutta la cosiddetta alta cultura aveva finalmente trovato un morto che la sollevasse dalla sua bassezza, e io personalmente sentivo la mia miseria non diversa da quella di Italo. Di Italo però mi vengono in mente le smorfie da ragazzino con cui spesso mostrava di non essere per niente a suo agio nella vita, e anche di poter fare lo sciocco quando ne aveva voglia. Cose queste che sui giornali non si scrivono, né interessano ai professori universitari: perché il nostro lato nero, che a momenti diventa quello più radioso, è poco trattabile nei termini della famosa carota culturale.