Abbiamo visto “ Nella casa “ regia di Francois Ozon.
Ozon è un ancor giovane regista francese che nell’arco di poco più di dieci anni ha realizzato ben 14 film. Storie completamente diverse le une dalle altre, di impostazione prevalentemente borghese e intellettuale. Il primo film “ La famiglia è simpatica “ con toni grotteschi e surreali, racconta il declino morale di una famiglia di periferia. L’anno dopo gira “ Amanti criminali “, con toni gotici riprende la fiaba di Hansel e Gretel, in cui due adolescenti di nome Alice e Luc decidono di uccidere un loro compagno di scuola e inserendo una variante morbosa e voyeuristica. Tra gli altri gira successivamente le commedie noir “ 8 donne e un mistero “ e “ Swimming pool “. Nel frattempo realizza un trittico più uniforme ma ancor meno omogeneo detto, la trilogia del lutto: “ Sotto la sabbia “, “ Il tempo che resta “ e nel 2009 “ Ricky – una storia d’amore e di libertà “ in cui ad un bambino crescono le ali di un angelo.
Regista dagli interessi molteplici e sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo sia nelle storie che nel timbro stilistico, passa da commedie noir a film ‘ gotici ‘ ispirati da Rimbaud, al teatro di Fassbinder fino a quest’ultimo film tratto da una piece teatrale del drammaturgo spagnolo Juan Mayorga “ Il ragazzo dell’ultimo banco “ in cui il regista francese ha razionalizzato il magma di dialoghi e pensieri che si scambiano i due protagonisti. Eppure, ancora una volta, pur con le migliori intenzioni non riesce a raggiungere gli obiettivi prefissati, che sono alti, altissimi, e quindi difficilmente raggiungibili per un regista colto, bravo, ma non all’altezza di certa cifra stilistica. Forse gli manca una scrittura sufficientemente solida, forse l’assenza di regole lo fanno a volte deragliare, forse per il cinema che vuole rappresentare – anarchico e insofferente delle convenzioni – avrebbe bisogno di liberarsi dalla sua cultura borghese e dai troppi debiti narrativi che lo rendono meno originale di quanto voglia rappresentare.
Debiti narrativi che sono troppi in questo film e quindi lo spingono in troppe direzioni, pur realizzando un buon film da cineclub. Debiti facili da riconoscere, riferimenti a temi e suggestioni di altri maestri come Chabrol e Rohmer, ma anche a Bunuel e Haneke; senza tuttavia mostrare l’ironia o la fredda profondità di un bisturi o la critica alla famiglia borghese che hanno reso quei registi dei maestri. Ma la scena finale è un omaggio a Hitchcock, le intromissioni del professore protagonista nella vita degli altri sono di Woody Allen e c’è anche qualcosa di Zavattini e forse nella penultima scena il Cèline del “ Viaggio al termine della notte “, insomma messa così sembra un film senza personalità e invece si può dire che è un film godibile ma che non colpisce il segno se non in parte, una specie di puzzle che vuole raccontare la genesi della creazione narrativa, la confusione tra verità e fantasia, la variazione sul tema dell’apparenze e della realtà, la descrizione di di un interno di famiglia, il rapporto di un adulto e un ragazzo ( l’uno senza un figlio, l’altro senza una famiglia ) entrambi soli e disamorati che cercano attraverso la fantasia e la scrittura un mondo che non gli appartiene, la differenza tra curiosità e voyerismo, la compensazione tra sogno e realtà e si potrebbe aggiungere altro ancora.
Da segnalare un cast ottimo su cui primeggia come al solito il grande attore francese Fabrice Lucchini ( “ Le donne del sesto piano “, “ Parigi “, “ Confidenze troppo intime “ ), ma è anche molto brava l’algida Kristin Scott–Thomas, la dolente Emmanuelle Seigner e il giovane Ernst Umhauer, alla sua quarta prova di interprete.
Nella provincia francese vive una coppia di cinquantenni borghesi, lui Germain ( Fabrice Luchini ) è un professore di letteratura al liceo Flaubert, scrittore fallito e innamorato della grande letteratura; lei è Jeanne ( Kristin Scott Thomas ), una gallerista d’arte moderna che rischia di chiudere l’atelier e trovarsi a spasso: due isole nela corrente, privi di reale sentimenti. Inizia un nuovo anno scolastico, tra studenti indolenti, privi di fantasia che scrivono nei temi: Sabato sono andato al centro commerciale, domenica ho mangiato la pizza; ma c’è uno studente che incuriosisce dapprima e interessa dopo un po’ il nostro professore: i suoi elaborati sono pieni di buona scrittura e di narrativa intrigante; racconta con abilità l’amicizia che istaura con Rapha ( Bastien Ughetto ), un compagno di classe, non perché lo trovi interessante, ma perché ha scoperto che ha una famiglia borghese, apparentemente ” perfetta “, famiglia che invece il ragazzo non ha. I temi sono settimanali e quello che intriga Germain e anche Jeanne, coinvolta dal marito, è il finale di ogni tema: ‘ continua ‘.
Affascinato dalla scrittura e dallo spirito di osservazione dello studente, Germain lo stimola a continuare a scrivere, mentre il sedicenne Claude si insinua abilmente in seno alla famiglia del compagno, e diventa quasi di famiglia nella bella villetta. I piani su cui si svolge la narrazione diventano quasi subito tre: il rapporto tra professore e allievo in classe e nei colloqui in cui il professore spiega le tecniche narrative, i trucchi per ottenere una trama avvincente; Claude nella casa degli Artole mentre sfrutta l’amicizia con Rapha per osservare la madre e il padre ( Denis Ménochet ), guardare nei cassetti e frugare nell’intimità della famiglia; e quello privato di Germain e sua moglie, in cui commentano gli elaborati di Claude e così conosciamo alcuni momenti della loro vita privata. E sono due realtà borghesi asfittiche, sofferenti e prive di comprensione reale ( ma Chabrol avrebbe avuto maggior cattiveria, Haneke ne avrebbe fatto un’autopsia e Hitchcock creato una suspense maggiore ).
Settimanalmente Claude consegna a Germain le puntate della sua cronaca voyeuristica in cui descrive dettagli anche morbosi, come l’odore della madre del suo amico, della infelicità della donna e dell’attrazione che lui prova per lei infilandosi nella camera da letto quando non c’è oppure guardarla mentre fa l’amore con il marito ( e qui sentiamo la mancanza del tocco alla Bunuel ), e del bacio che riesce a dare alla donna, vorace e fantasioso, della presunta omosessualità dell’amico, ed emergono anche i problemi lavorativi del padre di Rapha ( Denis Ménochet ) e le imprevedibili svolte del plot. Ci si avvia al finale non prevedibile ma con la consapevolezza che lo scrivere e la fantasia possono essere pericolosi sia emotivamente che esistenzialmente, ma anche liberatori. E qui, nel finale, oltre a Cèline ci sembra intravvedere la poetica di Zavattini che diceva: basta pedinare la realtà per trovare storie affascinanti.