L’edizione postuma dei Papiers Colles (Gallimard, 1978), riporta una nota piuttosto cruda: “Nato a Parigi nel 1923, Georges Perros è stato attore, ha fatto parte negli anni Cinquanta della Comédie-Française. Durante una tournée, ha conosciuto Jean Grenier, al Cairo, che lo ha introdotto alla N.R.F. Poco dopo, lasciò il palco per la scrittura. Malsopportando la vita di Parigi, si è trasferito a Douarnenez, in Bretagna, con la moglie e i tre figli. Malato di cancro, è morto a Parigi il 24 gennaio del 1978”. Una volta letto, Perros non può che rimanere appiccicato alla pelle. In Italia i suoi lavori sono presenti in una silloge, deliziosa e colta, Impossibile essere felici di esserlo, a cura di Mauro Leone (Prova d’Artista, 2020). Scrittore schivo, teso alla cronaca del proprio cuore, di oscura lucidità, Perros ha consegnato un lascito in quaderni di “fogli incollati”, nel rischio, dunque, del crollo, della cancellatura. Perros scrive note sul margine del giorno: scrive – leggiamo in questa scelta di frammenti – ogni giorno, rasentando la formula magica. Se è vero che il mondo si interrompe se qualcuno, il santo, il monaco, smette di pregare, così il giorno sanguina se il poeta smette di appuntare osservazioni, memorie fuggitive, istanti. Privo di verbi adatti, il giorno si sbriciola. In una nota a Poèmas blues, riedito da Gallimard nel 2019, Bernard Noël ha scritto che Perros riabilita il banale nel miracolo, lo ribalta dal grigiore al prodigio. “Cos’è la banalità? Da sempre, è la nemica della poesia, perché rappresenta il quotidiano, il triviale, la ripetizione. Quando uscì il romanzo-poema Une vie ordinarie, nel 1967, una sorta di epopea dell’ordinario e dunque della banalità, la sorpresa fu eclatante. Una simile attenzione mette in allerta: come non notare, allora, che è proprio tra le pieghe dell’ordinario che si dispiega il flusso della vita? Lungi dall’essere banale, il moto del nostro cuore coincide con l’ansia del destino! Per questo, l’eccezionale si nasconde nell’ordinario, e mette in crisi gerarchie assai arbitrarie”. Perros, dice Noël, parte dal presupposto che “la condizione umana è certamente infelice”, eppure, “basta una mano sulla spalla per affievolirla, basta un gesto apparentemente assai banale per illuminare una vita”. Così, la poesia è sempre la capriola di un bambino, il gioco astuto e ingenuo di un dilettante. Chi ne ride, autentico, è il lettore.

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Non riesco a concepire l’uomo occupato continuamente in ciò che fa, ha fatto, farà. Qualsiasi cosa sia questo fare. Mi pare impensabile l’uomo che non sperimenta, tutti i giorni, fosse per un istante, il vuoto, l’impossibilità di vivere. Ecco: quella zolla d’istante mi affascina. Ha fatto la mia vita. Quell’istante senza motivo né ricordo, senza riferimento né eredità. Né crudele né pessimista – impercettibile ad altri. Dolore furtivo che ti trapassa come un aereo fende le nuvole. Meglio essere soli quando accade. Qualsiasi cosa facciamo in quel momento, privi di invidia, assecondiamo il dolore. L’ho sperimentato, sul palco, mentre recitavo ruoli consecutivi. Tra due repliche, ha attaccato, senza malizia, incurante di ciò che stessi facendo. Mi sono ritrovato, all’improvviso, in un mondo bloccato, fermo, una specie di museo delle cere, senza senso. Almeno, possa viaggiare in pace sulle ali di questo dolore, questo formicolio quotidiano che percorre ogni momento, senza badare alla cronologia della mia vita.

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Inutile lamentarsi: se sapessimo da dove veniamo, dove siamo e dove stiamo andando, sarebbe l’inferno assoluto.

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Domandiamo una mollica d’amore, per questi giorni. Ce ne è destinata una tonnellata per l’eternità, che è la morte.

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Per scrivere è necessario non pensare assolutamente a niente. A nessuno. Deserto totale. Altrimenti, ridivento modesto. Incapace. Come nella vita. Per strada. Perfino a letto.

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Soltanto quando sono solo mi sento più umano. Come conciliare questo stato con l’altro, più frequente? Tento. È difficile. Chi ha conosciuto la solitudine alcolica non dovrebbe sposarsi, né frequentare persone. Conosce i suoi amori. I suoi disastri. Li depone ovunque. Siamo esseri rifiutati, adatti ai rifiuti. Tutto di noi ci porta lì.

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Quando conosciamo così bene le quinte, non si pone più il problema di entrare in sala. Tanto meno di andare in scena. Dunque?

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Il teatro, follia condivisa. Tutti i personaggi teatrali sono folli. Follia contagiosa.

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C’è lirismo dov’è circolazione. Niente è più lirico del sangue. Altrimenti non esiste lirismo per l’uomo. Un battito particolare di cuore che scandisce l’ora di un discorso interrotto, discontinuo.

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Invidio agli artisti il tempo che li invade in modo tale da squadernare il cantiere, scoperchiato, così che il lavoro sia possibile, in pieno, come se si trattasse di fare il falegname, il muratore, il boscaiolo…

Invidiabile è tramutare l’arte in artigianato.

Riposo. Ispirazione. Parola difficile da pronunciare, impossibile da tradurre, che non copre nulla, annullata dal lavoro medesimo.

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La notte dona idee, impigliate nel sonno, come se le idee diurne fossero più compiute di quelle che ci visitano nel sogno. Queste idee spesso ci sfuggono, e non sappiamo perché. Mentre dispiegano il loro assoluto, pensiamo che si possano annotare. Loro, non altre. Eppure, sono proprio queste idee che non riusciamo a fermare, che tornano periodicamente e che di continuo non ricordiamo.

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Scrivo, ma non è il mio lavoro, nessun lavoro riassume l’uomo. È ciò che posso. So che se non scrivo, qualcosa non va, segnala la catastrofe. Ho amici più folli di me. La mia giovinezza è stata folle. Se non scrivevo almeno dieci pagine di sciocchezze, mi ammalavo. O mi innamoravo. Ne valeva la pena. Ora è diverso. Frequento gli altri. Scrivere non è più così tragico. Al contrario. C’è di peggio. La scrittura è un privilegio. Il privilegio dei poveri.

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La penna è lo strumento più aguzzo per squarciare il muro dei minuti, per rompere la catena avvelenata del tempo. Ma questo muro si ritrae alla stessa velocità con cui avanzo. Scaviamo solo una distanza.

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Invento man mano che procedo, dice il romanziere. Ma le parole sono un contagio. E i libri raramente contagiano; piuttosto, sono malati. Un buon libro, un bel libro è un libro che ci rende malati. Fino alla morte.

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Scrivere un poema che restituisca l’oro della lingua significa non dare la parola a nessuno. Nemmeno a se stessi. Il teatro la dà a tutti. Non stupiamoci, dunque, se i poeti hanno nostalgia del teatro. Kafka riesce a far recitare ai suoi personaggi più di un ruolo dentro uno spazio che sarebbe teatrale se l’urgenza non l’avesse smantellato. Il teatro, che fu chiesa.

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C’è sempre qualcosa di indecifrabile in una poesia (degna di questo nome). L’indecifrabile, l’illeggibile, è la poesia stessa, resa equivalente alla natura. Inabile. Ci regala i guanti nella semina.

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Se visiti un cimitero ciò non significa che ne conosci gli abitanti.

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La lettura, resurrezione di Lazzaro. Solleva la lapide delle parole.

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Il momento in cui non puoi più dire la verità, perché è insopportabile. Inaudita. Indecente. Peggio che fare l’amore in mezzo alla strada.

Georges Perros

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