Scrittore, saggista, accademico e intellettuale, Claudio Magris ha saputo condensare nelle sue opere narrative i motivi principali della migliore letteratura mitteleuropea dandogli una connotazione epica e civile, personale. Affrontando nei suoi romanzi il tema del male in tutta la sua ambiguità e complessità, senza cedere a stilizzazioni o facili moralismi. Autore di libri tra i più significativi degli ultimi cinquant’anni di letteratura italiana, come Danubio e Alla cieca, ha saputo racchiudere nella sua opera i numi e i simboli di una tradizione letteraria di confine che si è fatta eco di ogni frontiera e canto di un eterno ammutinamento nei confronti di un destino immutabile e convenzionale. Costruendo architetture narrative epiche, corali, polifoniche dell’uomo e del suo viaggio nel mondo travolto dai venti della storia e sfidato dagli scherzi del destino. Nelle sue opere Magris ha saputo comporre personalissimi alfabeti capaci di rivelare i grandi enigmi dei narratori del Novecento, da Musil a Borges, da Roth a Büchner, senza dissoverli in facili formule, ma restituendo in forma critica la loro dimensione di mito e mistero.
Cosa intendeva quando in Utopia e disincanto parlava di “letteratura timorata”?
André Gide diceva che con i buoni sentimenti non si fa letteratura. Non c’è infatti artista che, timoroso di essere considerato edificante, non predichi la trasgressione piuttosto che invitare a osservare i comandamenti o la morale kantiana. Di fatto la letteratura mantiene raramente la promessa di fare i conti con il male, di cui la realtà è permeata come l’aria metropolitana dallo smog, e di esprimere quei sentimenti maligni che si impastano nell’animo, rendendolo sporco e opaco come il colletto d’una camicia non cambiata. L’ostentata profanazione, cara a molte espressioni artistiche di effetto, si rivela spesso benintenzionata, così come sono in genere le persone più ammodo a vantarsi di aver ricevuto brutti voti in condotta. Gli scrittori dissacranti celebrano l’eros contro la repressione, le scelte ribelli contro l’autoritarismo dogmatico, la rivolta degli emarginati contro i tutori delle gerarchie sociali. Tutto ciò è lodevole, ma è appunto una professione di moralità e di buoni sentimenti; sono questi ultimi che inducono a difendere le libertà d’ogni genere e le vittime di oppressioni, mentre sono gli inquisitori e i tiranni a rappresentare il male e ad avere quindi il diritto di ammantarsi della sua infera seduzione. Proprio gli scrittori che amano le provocazioni sono spesso, infatti, dei bravi ragazzi, che celebrano la democrazia ma criticano doverosamente il capitalismo, avversano il comunismo dispotico ma coltivano un nobile e vago socialismo libertario. Pressoché nessuno si mette dalla parte dei sentimenti veramente cattivi, approvando l’amorale libertà dell’individuo capace di sfogare senza inibizioni la propria volontà di potenza non curandosi dei dolori inflitti agli altri, simile al bambino che gioisce di schiacciare un insetto o di strappare un giocattolo a un altro bambino più debole, senza lasciarsi turbare dal suo pianto. È questo quello che intendevo in quel mio scritto tratto da Utopia e disincanto, quando parlavo di “letteratura timorata”. Attenzione, non è però certo il caso di deprecare questa diffusa moralità apprezzabile perfino quando è ipocrita, perché l’ipocrisia è sempre il prezzo che il vizio paga alla virtù e la condanna della violenza è comunque socialmente benefica; nessuno certo auspica scrittori che facciano l’apologia delle tragedie della storia. Ma per affrontare realmente la rete di malvagità che ci invischia e che ognuno di noi fila come un velenoso baco da seta, non bastano né la declamazione di buoni sentimenti né le apoteosi della trasgressione. Credo che solo una letteratura capace di confrontarsi senza compiacimenti e senza riguardi con l’immane potenziale del negativo insito nella vita e nella storia può esprimere l’ardua bontà; sono Les liaisons dangereuses e non i romanzi sentimentali a narrare l’intensità, lo smarrimento e anche la tenerezza dell’amore. Le parole “bontà” e “buono” non stonano in bocca a Dostoevskij, proprio perché egli si è immerso senza remore nel fango che scorre nelle nostre vene, come un messia che risorge ma prima muore e scende davvero all’inferno, tanto per fare due esempi.
Pacchetto Teatro – Fra Oriente e Occidente
Oggi secondo lei assistiamo ad una nuova letteratura timorata che non sa confrontarsi col male, con l’amorale, con l’eccezione?
Senza generalizzare o tracciare sintesi epocali, penso che in parte ci troviamo ancora di fronte a questa tendenza. C’è troppa bonomia e troppo timore nell’affrontare le vere questioni dell’esistenza, dimenticandoci purtroppo che la vita è una cosa seria. Ciò non vuol dire propagandare il male, né svilire la grandezza dell’umorismo (la cui importanza ci è stata ribadita dai grandi maestri del Novecento), ma affrontare la vita in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue declinazioni, confrontandosi anche con il male che è presente nella vita. Ogni vero libro si misura con la demonicità della vita. In questa capacità di scrutare verità anche intollerabili c’è una bontà più grande di ogni conciliante bonomia, la disponibilità a scendere sino in fondo, con impavida e sconsolata pietà, nel nostro buio.
“Il mito rivela la verità solo quando lo si guarda con spirito illuminista”. Quali sono i miti imperanti d’oggi, che meriterebbero un maggiore sguardo critico ed illuminista?
Credo soprattutto quelli che riguardano questa sorta di “discoteca universale permanente” in cui siamo immersi. Il circo delle interconnessioni e del continuo frastuono che è tipico di questi anni, in cui tutti vogliono apparire e comunicare. Un clima che purtroppo rischia di inflazionare il confronto, la riflessione, i veri rapporti interpersonali dietro questa permanente frenesia.
Nella prefazione del ’97 del suo Mito absburgico dice che esso è diventato un po’ il romanzo della vita del suo autore, la sua geografia spirituale e intellettuale. Può spiegarsi meglio e cosa di quel testo ha condizionato e prefigurato la sua vita e sensibilità intellettuale?
È stato un libro fondamentale, oltre che il mio primo libro, nato originariamente come tesi di laurea. Quando chiesi al mio professore di realizzare questa tesi, infatti, non sapevo bene cosa volessi raccontare o descrivere, ma avevo in mente una atmosfera che volevo rappresentare. Nel suo piccolo, Il mito absburgico è divenuto un po’ il romanzo della vita del suo autore, è vero, il disegno e la trama dei sentieri ch’egli continua a percorrere e che si biforcano in sempre nuove piste, nello spazio, reale e immaginario, della Mitteleuropa, ma forse più oltre ancora.
Quale mondo e atmosfera evocava in quel saggio? E perché scelse proprio quel tema?
La storia del mito asburgico è la storia di una cultura che vive con particolare intensità, nelle sue forme peculiari, la crisi e la trasformazione epocale di tutta un’area non certo soltanto austriaca; è la storia di una civiltà che, in nome del suo amore per l’ordine, scopre il disordine del mondo. Il mito absburgico è soprattutto la storia di quell’amore per l’ordine, e si affaccia appena, forse con troppa discrezione, sul ciglio di quella scoperta del disordine che scopre il musiliano Comitato per l’azione parallela nelle pagine dell’Uomo senza qualità. Quando lavoravo al libro inseguivo qualcosa che andava precisandosi e prendendo forma soltanto nel corso della mia ricerca, tanto che, all’inizio, non ero riuscito a spiegare bene al mio maestro Leonello Vincenti quale fosse veramente l’oggetto della mia tesi di laurea, vale a dire quel libro. Cercavo di cogliere un mito, ossia i modi e le forme con le quali una civiltà si sforza di ridurre la pluralità del reale a un’unità, il caos del mondo a un ordine, la frammentaria accidentalità dell’esistenza a un’essenza, le contraddizioni storico-politiche a un’armonia capace di comporle se non di risolverle. Mi proponevo soprattutto di descrivere la morfologia ma anche di seguire la storia di questo mito, la sua genesi, il suo sviluppo, le sue motivazioni e funzioni politiche, il rapporto che la sua formulazione poetica e la sua sovrastruttura ideologica intrattengono, di volta in volta, con la realtà sociale. Si trattava di ripercorrere la storia della civiltà asburgica, ma anche di estrarre dal suo contesto storico un nucleo essenziale, un “mito” che ne mettesse in evidenza la funzione intellettuale e conoscitiva, la capacità di far risaltare, con una chiarezza da laboratorio, quello che Musil definiva un «esperimento del mondo». Quando mi sono accostato a quel mondo, a differenza del 1997 quando scrissi la prefazione che mi avete citato, non se ne parlava quasi mai. Sembrava dimenticato, tramontato. La storia fa talora questi scherzi; qualcosa che pareva superato e defunto, improvvisamente riappare con una carica di rinnovata attualità, mentre ciò che pareva attuale e proteso all’avvenire si rivela invecchiato.
Perchè scrisse Il mito absburgico?
Alla sua origine il libro e la sua scrittura rispondevano, sul piano personale, alla mia necessità di fare i conti – saggisticamente, ossia per via obliqua, metaforica – con Trieste, con la mia storia, con la mia tradizione e col suo significato culturale ed esistenziale. Lasciata Trieste per andare a studiare a Torino, avevo la sensazione di dovermi appropriare intellettualmente e fantasticamente del mio mondo, del suo retroterra, ossia di un mio passato prenatale. Per capire Trieste dovevo confrontarmi con ciò che le stava dietro e quindi anche con quel mondo asburgico cui essa aveva appartenuto e che era diventato parte essenziale della sua realtà, ecco perché quel libro è indirettamente anche un saggio autobiografico trasposto e oggettivato nell’analisi e nella rievocazione di un mondo storico. Il saggio del resto è per definizione un genere letterario obliquo, che parla di una cosa per parlare anche – talora soprattutto – di un’altra e il cui tema non si riduce mai al suo oggetto esplicito. Anche se penso di aver scritto il vero finale del Mito asburgico, oltre che in Lontano da dove, soprattutto in due libri: sul piano saggistico, ne L’Anello di Clarisse (1984), un volume dedicato alla problematica del nichilismo e del grande stile, imperniato sulla letteratura europea e specialmente austriaca tra la fin de siècle e la stagione contemporanea; sul piano narrativo, in Danubio. Per questo Il mito può essere considerato forse un saggistico romanzo della mia esistenza.
Sta scrivendo un nuovo romanzo?
No in questo momento sto scrivendo solo dei vaghi appunti. Sapete, i miei libri sono nati sempre con una loro determinata fisionomia che si è manifestata quando le esperienze della vita e delle cose del mondo si sono intrecciate con le mie vicende personali, trovando un punto d’incontro e un’immagine che li avviasse o li delineasse. Mentre scrivevo Alla cieca, ad esempio, non riuscivo ad andare avanti perché il “cosa” che volevo raccontare, non coincideva con il “come”. Ciò che raccontavo non riusciva a coincidere con l’unico stile possibile per esso. Un giorno, mentre ero in Belgio, visitai un museo delle polene e rimasi così impressionato da quella visita che riuscii a completare Alla cieca.
Cosa la impressionò?
Lo sguardo delle polene. Le polene, quegli ornamenti femminili messi sulla prua dei galeoni, quasi ad anticipare e a difendere la nave dagli schiaffi delle onde e delle tempeste, mi colpirono con i loro occhi dilatati quasi da veggenti, capaci di scorgere naufragi e scherzi del destino prima degli altri. Lo scontro dell’uomo col mare, col destino, con le forze eterne e ribelli dell’esistenza in quel museo fiammingo mi apparve più chiaro, netto, definito. Dopo quella visita il blocco che mi aveva impedito di scrivere Alla cieca scomparve, permettendomi di scrivere una delle opere a cui sono più legato. Ora non ho in mente, invece, nessun romanzo, solo alcuni appunti.