Dopo circa due delle tre ore di Oppenheimer – il nuovo film scritto e diretto da Christopher Nolan a partire da Oppenheimer. Trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica, fondamentale biografia del 2005 di Kai Bird e Martin J. Sherwin, tradotta anche in italiano nel 2007 da Garzanti – esplode finalmente la bomba: è il 16 luglio 1945 e nel deserto di Los Alamos viene effettuato il Trinity Test, la detonazione del primo ordigno nucleare della storia, davanti agli sguardi degli scienziati del Manhattan Project. È una scena fondamentale ed emozionante, a cui si arriva con un climax da thriller. Ci sono i preparativi frenetici, le condizioni meteo avverse che fanno temere un rinvio del test, c’è il countdown e c’è la musica perfetta di Ludwig Göransson che scandisce l’avvicinamento al momento cruciale. L’intera popolazione della base di Los Alamos si prepara ad assistervi come se fosse al cinema, chi addirittura in auto, come in un drive-in. Tutti però schermano il proprio sguardo, perché per sopportare i raggi ultravioletti dell’esplosione è necessario che un diaframma si frapponga tra l’occhio e il mondo. E poi, infine, il pulsante rosso viene premuto: improvvisamente cala un lungo silenzio, interrotto solo dai respiri, e si sprigiona la luce.

Il frame in questi secondi è riempito soprattutto da volti e sguardi, perché nonostante lo spettacolo del formato 65 mm, Oppenheimer è soprattutto un film di volti e sguardi, visi giganteschi che riempiono lo schermo. La sequenza dell’esplosione di “The Gadget” (questo il nome della prima bomba atomica) si configura come un’unità narrativa che galleggia sospesa nel tempo e nello spazio, il momento solenne in cui il cinema rivendica con forza la capacità se non di mostrare di alludere al reale che sfugge allo sguardo e di mettere in scena la morte e la fine della storia. Nel fuoco apocalittico che inonda lo schermo, subito dopo i volti, a bruciare è tutto il passato, che lascia spazio al nostro presente segnato in modo indelebile da una novità prima impensabile: lo spettro dell’autodistruzione.

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Questa scena è centrale nell’intreccio di Oppenheimer, che si innesta su due linee narrative principali. La prima, a colori, è intitolata “fissione” e mostra l’interrogatorio che il fisico, interpretato da un perfetto Cillian Murphy, subisce nel 1954 da una commissione d’inchiesta incaricata di verificare l’accusa rivoltagli da alcuni colleghi, come Edward Teller e William Borden, di essere una spia sovietica. Questa prima linea di plot ripercorre poi attraverso lunghi flashback la formazione e i primi passi di Oppenheimer e poi i fatti che lo hanno portato alla guida del progetto Manhattan e alla progettazione della bomba atomica, prima testata a Los Alamos e poi sperimentata sulle città di Hiroshima e Nagasaki. La seconda linea narrativa, in bianco e nero e intitolata “fusione”, racconta l’interrogatorio dell’ammiraglio Lewis Strauss (Robert Downey Jr. nella prova migliore della sua carriera), che in procinto di assumere un importante incarico governativo viene esaminato dal senato poiché sospettato di essere stato il manovratore delle accuse a Oppenheimer. Da questo interrogatorio si diramano altri salti all’indietro che ricostruiscono il periodo della Guerra fredda e lo scontro tra Strauss e lo stesso Oppenheimer. I passaggi tra le varie dimensioni temporali avvengono con estrema libertà e senza soluzione di continuità, con un ritmo indiavolato, supportato dall’eccezionale lavoro di montaggio di Jennifer Lame.

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La sfida (vinta) di Oppenheimer è quindi quella di essere sia un biopic caratterizzato da uno sguardo cubista e dal passo furibondo di un thriller, sia, su un piano più teorico, di comprovare come il grande cinema possa anche riuscire a rivelare l’invisibile. Se c’è, infatti, un elemento che può essere messo a fattor comune nella filmografia di Christopher Nolan è probabilmente la fiducia nel fatto che il cinema possa mostrare ciò che non si può vedere, permettendoci anche di reggerne il peso. Spesso, nelle complesse scomposizioni dei plot dei suoi film, fino all’esperimento estremo di Tenet, i film del regista inglese sono riusciti nell’impresa di farci visualizzare la più misteriosa e intangibile delle dimensioni, il tempo. Non solo, però. Si pensi a Inception o Interstellar, dove l’apparato gigantesco del blockbuster è messo al servizio di una dimensione molto intima, come il drammatico processo di elaborazione di un lutto o la riconciliazione problematica con la figura paterna rea di abbandono.

Oppenheimer riesce in prima battuta a farci percepire la forza invisibile e misteriosa della natura, quella da cui è ossessionato il “padre della bomba”: atomi, particelle, come segni da decodificare e interpretare (come il Sanscrito, da cui lo scienziato riprende la frase che pronuncia al momento della detonazione: «sono diventato Morte, il distruttore di mondi»). Immagini astratte, pulviscoli, il fuoco, la pioggia che fa cerchi in una pozzanghera, immagini che hanno a tratti un sapore quasi malickiano. Mostrare l’invisibile e rendere evidente ciò che è latente sembra quasi una dichiarazione d’intenti del film, il cui protagonista, nelle prime battute sottolinea come siano nate nello stesso tempo storico la fisica quantistica, la psicoanalisi e l’arte astratta, discipline orientate al disvelamento della natura. Un disvelamento che è però per lo più mortifero, giacché un senso di morte incombe su tutto il film, di gran lunga il più cupo e pessimista di Nolan. Tanto che, per osservare il mistero che si fa immagine, come nella scena della detonazione, è sempre necessario un diaframma, forse il diaframma del cinema.

Oppenheimer, a proposito di morte, è anche un mirabile saggio sul concetto di ambiguità, sull’impossibilità di stabilire una morale all’interno della storia. Una rappresentazione esemplare della complessità, che giunge oggi, in un’epoca fatta di tifoserie contrapposte, fatta attraverso un saggio di scrittura di un personaggio, costruito su contraddizioni e chiaroscuri, su un senso di colpa insondabile, su un dilemma morale irrisolto che confligge con l’ambizione. Prometeo rubò il fuoco agli dei per darlo agli uomini e per questo fu fustigato, dice una didascalia nei titoli di testa, Oppenheimer, il supervisore della squadra di scienziati di Los Alamos il cui contributo apocalittico alla scienza gli è valso il soprannome di “American Prometheus”, ruba alla natura la sua potenza primordiale e la regala all’uomo, dandogli il potere, mai avuto prima, di autodistruggersi.

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In questo l’operazione di Oppenheimer è davvero perfetta, riuscendo a mostrare l’inafferrabilità della morale, la sua intangibilità, attraverso un film di paradossi e conflitti, come la pace mantenuta grazie al fantasma della distruzione, come l’ambizione assecondata a costo dello sterminio di popoli. Lo sterminio è fuori campo, Hiroshima e Nagasaki vengono raccontate ma mai mostrate, suggerite ma mai descritte, a volte proposte attraverso espedienti sonori (in questo ricorda The Zone of Interest di Jonathan Glazer, tratto da Amis, in cui la morte incombe al di là del fotogramma). Per questo Oppenheimer è un film di volti che parlano molto, ascoltano e su cui soprattutto si scrive il dramma della storia, persi dentro alla complessità delle proprie scelte, la cui posta in gioco è troppo alta; volti fotografati e scolpiti dalla luce del direttore della fotografia Hoyte van Hoytema nel formato gigante dell’IMAX, quasi per catturare l’inquietudine dei tumulti interiori di Oppenheimer, brillante matematico e leader mediocre la cui natura impulsiva e gli appetiti sessuali insaziabili hanno reso la sua vita privata un disastro, e il cui più grande contributo alla civiltà è stata un’arma in grado di distruggerla.

Inquadratura dopo inquadratura, Oppenheimer riscopre un elemento chiave del cinema, quello degli enormi primi piani dei volti, anche in questo caso riuscendo a mostrare ciò che non si può vedere, i dubbi interiori che agitano i protagonisti di una vicenda storicamente complessa, da cui emerge un dato, inquietante e attuale, che caratterizza l’agire dell’uomo nella storia: quella tendenza, tutt’altro che rassicurante, all’autodistruzione.

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