Non far nulla. Guardar crescere l’erba. Lasciarsi scivolare nel corso del tempo. Fare della propria vita una domenica… Roland Barthes parla della delizia della pigrizia.

La pigrizia è un elemento della psicologia scolastica. Lei come l’analizzerebbe?

La pigrizia non è un mito, è un dato fondamentale e come naturale della condizione scolastica. Perché? Perché la scuola è una struttura di costrizione e la pigrizia è un mezzo, per l’allievo, di prendersi gioco di questa costrizione. La classe comporta fatalmente una forza di repressione, non foss’altro perché vi s’insegnano delle cose di cui l’adolescente non ha necessariamente il desiderio. La pigrizia può essere una risposta a questa repressione, una tattica soggettiva per assumerne la noia, manifestarne la coscienza e così, in certo modo, dialettizzarla. Questa risposta non è diretta, non è una contestazione aperta, perché l’allievo non ha i mezzi per rispondere direttamente alle costrizioni; è una risposta sviata, che evita la crisi. In altre parole la pigrizia scolastica ha un valore semantico, fa parte del codice della classe, della lingua naturale dell’allievo.

Se si guarda l’etimologia si nota che in latino, piger, l’aggettivo (poiché pigrizia viene da pigritia) vuol dire «lento». E l’aspetto più negativo, più triste, della pigrizia, che è di fare sì le cose, ma male, controvoglia, di soddisfare l’istituzione dandole una risposta ma una risposta che si trascina.

In greco invece pigro si dice argos, contrazione di a-ergos, molto semplicemente «che non lavora». Il greco è molto più franco del latino.

Già in questo piccolo dibattito etimologico si profila la possibilità di una certa filosofia della pigrizia.

Sono stato professore di liceo solo per un anno. Non è da qui che ricavo l’idea di pigrizia scolastica, ma piuttosto dalla mia esperienza di allievo. Ritrovo spontaneamente la pigrizia scolastica, ma a titolo di metafora, nella mia vita attuale, che in linea di principio non ha nulla di quella di uno scolaro: spesso, davanti a compiti che mi annoiano considerevolmente, come la posta, i manoscritti da leggere, resisto e mi dico che non arriverò a farli, esattamente come lo scolaro che non può fare i compiti. Si tratta, in questi momenti, di un’esperienza dolorosa della pigrizia, nella misura in cui è un’esperienza dolorosa della volontà.

Che posto assegna – o deve concedere – alla pigrizia nella sua vita, nel suo lavoro?

Sarei tentato di dire che non assegno nessun posto alla pigrizia nella mia vita e qui sta l’errore. Sento la cosa come una carenza, come un torto. Spesso mi metto in condizione di lottare per fare le cose. Quando non le faccio, o almeno per tutto il tempo che non le faccio – perché in generale finisco per farle – si tratta di una pigrizia che s’impone su di me invece di essere io ad averla scelta e a impormi su di essa.

Evidentemente questa pigrizia vergognosa non prende la forma del «non far nulla», che sarebbe la forma gloriosa della pigrizia, la forma filosofica.

In un’epoca della mia vita mi accordavo dopo la siesta, fin verso le 4 o le 5 del pomeriggio, un po’ di questa pigrizia euforica, che non combatte. Senza irrigidirmi, prendevo gli ordini dal mio corpo, che in quel momento era un po’ addormentato, non troppo disposto.

Non cercavo di lavorare, lasciavo andare.

Ma era una vita in campagna, durante l’estate. Facevo un po’ di pittura, di fai-da-te come fanno molti francesi. Ma a Parigi sono più attanagliato dalla necessità di lavorare e dalla difficoltà di lavorare. Mi lascio andare a quella forma di pigrizia subita che è la diversione, la ripetizione delle diversioni che uno si crea: farsi un caffè, prendere un bicchier d’acqua… In completa malafede del resto, perché se una diversione mi arriva dall’esterno, invece di accoglierla bene sono invelenito contro chi la provoca. Posso subire con contrarietà delle telefonate o delle visite che in realtà disturbano solo un lavoro che non viene fatto.

Accanto a queste diversioni conosco anche un’altra forma di pigrizia dolorosa. La metterei sotto la protezione di Flaubert che la chiamava la «marinata». Significa che a un dato momento ci si butta sul letto e si «marina». Non si fa niente, i pensieri girano in tondo e si è un po’ depressi.

«Marinate» ne ho spesso, molto spesso, ma non durano mai molto, un quarto d’ora, venti minuti… Dopo mi riprendo d’animo.

Credo di soffrir, e ritorno al tema del «non far nulla», per non avere il potere e la libertà di non far nulla. Ci sono tuttavia dei momenti in cui vorrei veramente riposarmi. Ma, come diceva di nuovo Flaubert: «Per che cosa volete che mi riposi?».

Se vuole, sono incapace di mettere dell’ozio nella mia vita, ancor meno dello svago. A parte gli amici, ci metto solo del lavoro e della pigrizia imbronciata.

Non ho mai amato molto lo sport, e ora, comunque, non ne avrei l’età. Allora cosa vuole che faccia uno come me se decide di non far niente?

Leggere? Ma è il mio lavoro. Scrivere? Ancor di più. Per questo mi piaceva molto la pittura. È un’attività assolutamente gratuita, corporale, estetica malgrado tutto, e nel contempo un vero riposo, una vera pigrizia, perché essendo un dilettante e nient’altro non m’investivo in nessuna sorta di narcisismo. Mi era indifferente far bene o male.

Che cos’altro? Rousseau, in Svizzera, verso la fine della sua vita, faceva merletti.

Senza troppa ironia si potrebbe porre il problema della maglia. Lavorare a maglia è il gesto stesso di una certa pigrizia, a meno che non si sia ripresi dal desiderio di finire il lavoro.

Ma le convenzioni vietano agli uomini di lavorare a maglia.

Non è stato sempre così. Centocinquant’anni fa, cento forse, gli uomini facevano correntemente degli arazzi. Ora questo non è più possibile.

Lo spettacolo, la cosa più anticonformista e quindi, letteralmente, la più scandalosa che forse abbia visto nella mia vita, scandalosa non per me ma per le persone che assistevano, era un giovane, in una carrozza del mètro a Parigi, che ha tirato fuori dalla borsa un lavoro a maglia e si è messo ostentatamente a sferruzzare. Tutti hanno avuto una sensazione di scandalo ma nessuno l’ha detto.

Il lavoro a maglia, ecco l’esempio di un’attività manuale, minima, gratuita, senza finalità, ma che tuttavia rappresenta una pigrizia ben riuscita.

Bisognerebbe anche vedere che cos’è la pigrizia nella vita moderna. Ha notato che si parla sempre di un diritto agli svaghi ma mai di un diritto alla pigrizia? Mi domando del resto se da noi, occidentali e moderni, esista: non far nulla.

Anche persone che hanno una vita completamente diversa dalla mia, più alienata, più dura, più laboriosa, quando sono libere non fanno: «nulla»; fanno sempre qualcosa.

Mi ricordo di quest’immagine… Quando ero bambino, adolescente, Parigi era diversa. Era prima della guerra. L’estate faceva caldo, più caldo di adesso, almeno si crede, comunque io lo credo. Allora, molto spesso si vedevano i portieri parigini – ce n’erano molti, era un’istituzione – di sera, quando faceva molto caldo, metter fuori delle sedie davanti alle porte, sulla strada, e sedersi senza far nulla.

È una visione della pigrizia che si è cancellata. Non la ritrovo più nella vita. Nella Parigi attuale non ci sono più tanti gesti di pigrizia. Il caffè è sempre una pigrizia con dei raccordi: ci sono delle conversazioni, anche un «figurare». Non è la vera pigrizia.

È probabile che adesso la pigrizia consista, non nel non far nulla, dato che non ne siamo capaci, ma nello spezzare il tempo il più spesso possibile, nel diversificarlo. È quello che faccio io su piccola scala quando introduco delle diversioni nel mio lavoro. Spezzo il tempo. È un modo di rendersi pigro. Tuttavia aspiro a un’altra pigrizia.

Una poesia Zen, che mi sconvolge sempre per la sua semplicità, potrebbe essere la definizione poetica della pigrizia di cui sogno:

Seduto pacificamente senza far nulla

viene la primavera

e l’erba cresce da sola.

In più la poesia, com’è tradotta in francese, presenta un mirabile anacoluto, una rottura di costruzione. Colui che è pacificamente seduto non è il soggetto della frase. Non è la primavera a essere seduta [printemps in francese è maschile – n.d.t.]. Questa rottura di costruzione, voluta o no, indica bene che nella situazione di pigrizia il soggetto è quasi spossessato della sua consistenza di soggetto. E decentrato, non può neppure dire «io». Questa sarebbe la vera pigrizia. Arrivare, in alcuni momenti, a non dover più dire «io».

Il soggetto innamorato non sarebbe colui che cerca di più di raggiungere questa pigrizia?

La pigrizia che chiede il soggetto innamorato non è soltanto «non far nulla», è soprattutto non decidere.

In un Frammento, intitolato «Che fare?», ho detto che il soggetto amoroso, in certi momenti, cerca di mettersi insieme, in quella perpetua tensione che per lui rappresenta la passione, «un angolino di pigrizia».

Infatti il soggetto amoroso che mi sforzavo di descrivere si pone a ogni momento dei problemi di comportamento: devo telefonare? Devo andare all’appuntamento? Non devo andarci?

Avevo ricordato che il «che fare?», cioè il tessuto delle risoluzioni e delle decisioni di cui è forse fatta la nostra vita, è simile al karma buddista, vale a dire alla concatenazione delle cause che ci obbliga continuamente ad agire, a rispondere. Il contrario del karma è il nirvana. Si può quindi, quando si soffre molto di karma, postulare, fantasmare una sorta di nirvana. La pigrizia allora assume una dimensione di annullamento.

La vera pigrizia sarebbe in fondo una pigrizia del «non decidere», dell’«esserci». Come i somari in fondo alla classe, che hanno il solo attributo di esserci.

Non partecipano, non sono esclusi, ci sono, punto e basta, come dei sacchi.

Di questo qualche volta si ha voglia; esserci; non decidere nulla. Esiste, penso, un insegnamento del tao sulla pigrizia, sul «non far nulla», nel senso di «non muovere nulla», non determinare nulla.

Si potrebbero ritrovare per questa via certe tentazioni della morale tolstoiana. Nella misura in cui ci si potrebbe domandare se non si abbia il diritto di essere pigri davanti al male. Tolstoi rispondeva di sì, è ancora questo il meglio poiché non bisogna rispondere a un male con un altro male.

È inutile che le dica che questa morale è adesso del tutto screditata. E se si andasse ancora più avanti, la pigrizia potrebbe apparire come un’alta soluzione filosofica del male: non rispondere. Ma ancora una volta la società attuale sopporta molto difficilmente gli atteggiamenti neutri. La pigrizia le è quindi intollerabile, come se, in sostanza, fosse il male principale.

Quello che è terribile della pigrizia è che può essere la cosa più banale, più stereotipata, meno pensata del mondo, come può essere quella più pensata.

Può essere una disposizione ma anche una conquista.

 

Henri de Toulouse Lautrec, Il letto, 1893

Questa pigrizia pensata non sarebbe quello che Proust chiama il tempo perduto?

L’atteggiamento di Proust nei confronti del lavoro dello scrittore è qualcosa di molto particolare. La sua opera è edificata se non sulla base per lo meno in compagnia di una teoria della memoria involontaria, del libero riflusso dei ricordi, delle sensazioni. Questo libero riflusso implica evidentemente una sorta di pigrizia. Essere pigri, secondo questa prospettiva, è appunto, per riprendere la metafora proustiana, essere come la madeleine che si disgrega lentamente nella bocca, che, in quel momento, è pigra. Il soggetto si lascia disgregare dal ricordo, ed è pigro. Se non lo fosse ritroverebbe una memoria volontaria.

Si può far ricorso a un’altra immagine di Proust: quella dei fiori di carta giapponesi, molto pressati, che si distendono e si sviluppano nell’acqua. La pigrizia sarebbe questo: un momento della scrittura, un momento dell’opera.

Tuttavia, anche per Proust, scrivere non è un’attività pigra. Proust usa un’altra metafora per designare lo scrittore, una metafora di lavoro. Dice che fa un’opera come una sarta fa un vestito. Questo implica un’attività incessante, meticolosa, costruttiva, aggiuntiva come quella di Proust. Giacché, insomma, è stato forse pigro fino alla metà della sua vita (e anche!), ma poi, quando si è rinchiuso per scrivere la Recherche, non è stato pigro, ha lavorato tutto il tempo.

In fondo nella scrittura ci sarebbero due tempi. Un primo tempo che sarebbe il tempo della passeggiata, un tempo divagante, quasi dragueur, durante il quale si dragano i ricordi, le sensazioni, gli incidenti, li si lascia sbocciare. Poi ci sarebbe un secondo tempo, quello del tavolo a cui si scrive (per Proust il tempo del letto).

Ma credo veramente che, per scrivere, non si debba essere pigri, ed è proprio una delle difficoltà dello scrivere. Scrivere è un godimento, ma nello stesso tempo un godimento difficile perché deve attraversare delle zone di lavoro molto dure, con i rischi che questo comporta: desideri e minacce di pigrizia, tentazioni di rinunciare, stanchezze, rivolte. Ancora un’ora fa stavo prendendo degli appunti sul diario di Tolstoi. È un uomo che era ossessionato dalle regole di vita, dalla suddivisione degli orari, dal problema morale di non essere pigro. In ogni momento annota le sue manchevolezze. È una lotta incessante, una lotta veramente diabolica. E effettivamente, se si è fondamentalmente pigri, o se si è deciso di esserlo – cosa perfettamente concepibile e sostenibile – non si può scrivere.

Ci sono dei riti della pigrizia o la domenica è un giorno come un altro?

È il momento di dire che ci sono comunque tante pigrizie quanti sono i mestieri, forse quante sono le classi sociali. E se la domenica è la casella istituzionale della pigrizia, è evidente che la domenica di un professore non è la stessa della domenica di un manovale, di un burocrate o di un medico.

Ma, a parte questo problema sociologico, ci si deve porre il problema storico del ruolo del giorno settimanale, sia esso la domenica, il sabato, il venerdì, a seconda delle religioni… vale a dire il problema della «pigrizia» ritualizzata.

Nelle società molto codificate, come nell’Inghilterra vittoriana, per esempio, o nella giudaicità attuale, il giorno di riposo era ed è un giorno marcato da riti d’interdizione dal fare. Il rito viene incontro a quel desiderio del «non far nulla» o «far nulla». Ma sembra, sfortunatamente, che dal momento che sono obbligate ad assoggettarsi a questo rito d’interdizione le persone soffrano del «far nulla».

La pigrizia, poiché allora viene dal di fuori, poiché è imposta, diventa un supplizio. Questo supplizio si chiama la noia.

Schopenhauer ha detto: «La noia ha la sua rappresentazione ufficiale la domenica».

Per me bambino la domenica era piuttosto un giorno noioso. Non so molto bene perché, ma penso che spesso i bambini la sentano così. Non c’è scuola in quel giorno, e la scuola, anche se per il bambino è ambigua, è un ambiente sociale e affettivo… abbastanza distraente.

Adesso, poiché non sono più bambino, la domenica per me è ritornata un giorno fausto. Un giorno che sospende quella richiesta sociale – posta, telefono, appuntamenti – che è la mia fatica della settimana. Un giorno felice perché è un giorno bianco, un giorno silenzioso in cui posso restare pigro, vale a dire libero. Perché la forma votiva della pigrizia moderna è in fondo la libertà.

Questa intervista è stata pubblicata su “Le Monde-Dimanche”, 16 settembre 1979. A cura di Christine Eff.

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