Parasite di Bong Joon-ho, vincitore della Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes, più che un film sudcoreano sembra in principio una tipica commedia all’italiana: uno spaccato di società rappresentato attraverso la messa in scena dell’arte di arrangiarsi. I protagonisti usano la furbizia, lavorano d’ingegno, ai margini quando non ben oltre i limiti della legalità, per tirare avanti e sopperire a un lavoro che non c’è. Il raggiro intorno a cui ruota Parasite è presto spiegato. A Ki-woo, che vive in una famiglia in cui sono tutti disoccupati, si presenta un’inaspettata opportunità: sostituire un amico nel dare ripetizioni a una ragazza di buona famiglia che deve superare gli esami di ammissione al college. La lussuosa villa in cui da un giorno all’altro si trova introdotto è un manifesto della ricchezza dei suoi nuovi datori di lavoro; una volta conquistatane la fiducia, il giovane trova presto modo di far entrare anche la sorella Ki-jung, presentata come un’esperta di arteterapia in grado di seguire lo sviluppo del presunto talento artistico del figlio più piccolo. L’opera sarà poi completa quando si aggiungeranno anche il padre Ki-taek, raccomandato come nuovo autista, e la madre Chung-sook, assunta in qualità di governante.
A questo punto i membri della famiglia povera, che fanno finta di non conoscersi, si trovano dunque tutti impiegati con un qualche ruolo nella casa della famiglia ricca, specularmente composta da una madre, un padre, una figlia e un figlio, e il titolo del film assume connotati assai ambigui: chi sono i parassiti? I poveri, riunitisi in incognito e con l’inganno sotto un tetto migliore, o i ricchi, che grazie al denaro possono circondarsi di persone in difficoltà a cui delegare qualsiasi mansione, dall’istruzione dei propri figli alla preparazione dei pasti? Bong Joon-ho ha l’intelligenza di sospendere il giudizio – o meglio, di lasciarlo allo spettatore, senza fare proprio nulla per indirizzarlo nella facile direzione dei più svantaggiati. Intervistato da Hollywood Reporter, il regista sudcoreano ha rivelato che il primo titolo a cui aveva pensato per questo film era The Décalcomanie: «Quando vedi il risultato di una decalcomania, o decalco, entrambi i lati a prima vista sembrano uguali. Ma se guardi con più attenzione, non sono esattamente identici. In un certo senso questo dice qualcosa sulle due famiglie. Possono sembrare simili, o persino uguali, ma non lo sono».
In Parasite le differenze emergono più nettamente attraverso le immagini. Le persone potranno pure somigliarsi, sembra suggerire il film, ma la condizione economica va poi a determinare divergenze enormi in merito a possibilità, motivazioni e soprattutto decisioni. Grazie a un lavoro di messa in scena di prim’ordine gli ambienti iniziano così a raccontare una storia più universale rispetto a quella dei protagonisti. Come sempre accade nel grande cinema, e nonostante l’originalità dell’intreccio narrativo, la forza e la valenza simbolica delle immagini prendono il sopravvento.
Il semplice confronto tra le abitazioni delle due famiglie dice molto allo spettatore: una è un seminterrato che si affaccia a stento su un vicolo dove la gente si apparta a pisciare sotto gli occhi di un infuriato Ki-taek e dei suoi familiari, sottilmente preannunciando l’alluvione che più tardi aggraverà la loro situazione, complice una finestra lasciata aperta, costringendoli a rifugiarsi in un centro di accoglienza insieme ad altri sfollati. L’altra è una villa il cui soggiorno presenta una gigantesca vetrata che dà su un curatissimo giardino privato. Trovandosi in cima a una collina, il percorso da fare per raggiungere la villa è poi tutto in salita, compresi i gradini che portano fino all’ingresso; finito di lavorare lì la famiglia povera, per tornare a casa, deve al contrario scendere nei bassifondi della città, e nel loro caso gli ultimi passi sono di nuovo su alcuni gradini, che però portano ancora più giù, sotto il livello della strada. In maniera mirabilmente controintuitiva, inoltre, la casa della famiglia povera è strapiena di cose, mentre la villa della famiglia ricca sembra vuota, dato che qualsiasi oggetto possa, in nome della sua mera utilità, guastare l’elegante design degli interni è stipato nei modernissimi arredi a scomparsa.
La studiata messa in scena degli ambienti mira evidentemente non solo a sottolineare la questione centrale del film, vale a dire il solco scavato nel sociale e nella società dalla diseguaglianza economica, ma anche ad anticipare e a lasciar presagire come la distanza sia già incolmabile: l’improvvisata convivenza tra i due nuclei famigliari non potrà mai funzionare, né avere un lieto fine. Gli iniziali tratti da commedia all’italiana allora sfumano progressivamente nel racconto di una (doppia) violazione di domicilio – tema già caro al Peckinpah di Cane di paglia, più recentemente affrontato da Haneke sia con una buona dose di violenza in Funny Games, sia in chiave perturbante con Niente da nascondere, e ripreso quest’anno dal fortunato horror Noi di Jordan Peele. La risata amara della tragicommedia, con il passare dei minuti, lascia così spazio a un accumulo di tensione, riferibile piuttosto al cinema di Lanthimos o di Ostlund, che raggiunge il suo apice in una magistrale sequenza in cui ancora una volta troviamo accostati l’alto e il basso, vicini come non mai: i due padroni di casa sono sopra un divano, mentre Ki-taek, Ki-woo e Ki-jung, a pochi metri dalla coppia, si nascondono sotto un tavolo. Da quel momento, sarà tutto un precipitare verso l’inevitabile climax.