Autobiografia, romanzo di formazione, “guida turistica letteraria”: non è facile trovare la definizione più appropriata con cui etichettare Parigi è un desiderio (Ponte alle Grazie), l’esordio romanzesco di Andrea Inglese (poeta, “studioso di romanzi” e co-fondatore del blog letterario Nazione Indiana). Di certo – mi racconta l’autore stesso –, questo libro gli è parso l’unico modo per fare i conti con una città, Parigi, che ha rappresentato un polo di attrazione geografico e sentimentale costantemente presente nella sua vita e nel suo immaginario.
Un’ossessione, o meglio, un desiderio, quello di raccontare il suo rapporto con la capitale francese, che ha spinto l’autore a mettersi in gioco e ad affrontare per la prima volta il terreno tanto nobile (e per questo tanto temuto) della forma romanzo. Nel realizzare questa operazione difficile e ambiziosa, Inglese è riuscito a smarcarsi con naturalezza dalla trappola dei cliché parigini, regalando ai suoi lettori una radiografia dell’anima oscura della ville lumière, tanto onirica e leggendaria, quanto inevitabilmente concreta e spietata, frutto di un singolare approccio “umorale” e “idiosincratico” al materiale umano, culturale e urbano con cui si è confrontato nel corso degli anni.
Dalla “noncuranza” tanto invidiata al protagonista di Fino all’ultimo respiro di Godard alla piaga del precariato nelle università, dalla scalata della Tour Eiffel con un gruppo di amici alla logorante routine della vita lavorativa, perennemente in bilico tra il “morboso collezionismo autobiografico” perechiano e la sfiziosa deriva debordiana, Inglese decostruisce l’immaginario legato al mito della capitale francese, declinandolo nelle mille sfaccettature della vita vera attraverso il filtro romantico di un sognatore e di un autentico appassionato della cultura transalpina. L’ho incontrato – ovviamente – a Parigi, città nella quale tuttavia non vive più, avendogli preferito l’hinterland, in un bar qualunque di Place de la Nation.
Hai quasi 50 anni. Perché hai aspettato così tanto per scrivere il tuo primo romanzo?
Sono arrivato a questo romanzo in modo abbastanza inaspettato. Non avevo in testa l’idea di scriverlo. Non faccio parte di quei poeti che sentono l’esigenza di passare al romanzo per aprirsi ad un pubblico più ampio. Nel mio caso, è la vicenda autobiografica che mi ha portato verso il romanzo. Il soggetto, ovvero fare i conti con una città, Parigi, non poteva esprimersi nelle forme della poesia. Così, ho iniziato a scrivere delle prose sperimentali, nello specifico il Commiato da Andromeda, che è un prosimetro; poi, questo nucleo di partenza è diventato un saggio autobiografico; a sei mesi dalla consegna mi sono reso conto che era un romanzo. Essendo uno studioso di romanzi – ho fatto una tesi di dottorato sul romanzo – il romanzo mi ha sempre terrorizzato, l’ho sempre considerata una forma nobile, con un passato nobile nel ‘900. Mi impauriva per la complessità delle implicazioni che questa forma ha.
C’è chi, come lo scrittore Gianni Biondillo, sostiene che “scrivere ancora di Parigi è da pazzi”. Lo pensi anche tu? E se sì, perché lo hai fatto?
Non è un problema che mi sono posto, altrimenti non avrei scritto questo libro. Sono andato avanti a testa bassa, anche se mi sono reso conto che i rischi erano tanti. Ho anche letto varie cose che erano uscite su Parigi. La letteratura recente su Parigi ha legittimato il mio lavoro, perché ero certo che stavo facendo qualcosa di diverso. Non avrei scritto un romanzo turistico. Avrei parlato del mio rapporto con Parigi in termini idiosincratici, umorali, personali e senza nessuna pretesa di accompagnare qualcuno nella scoperta della città.
Dici che il tuo è un romanzo, eppure molte cose che accadono al protagonista del libro, Andy, sono accadute anche a te e tutte le altre restano comunque molto credibili…
È ottimo che tutto sia credibile. Ciò vuol dire che l’operazione ha funzionato. Per me è un romanzo autobiografico. Non solo perché ci sono dentro inserti di pura finzione, ma anche perché è basato su una materia autobiografica. Tra la materia e l’esito finale c’è la forma. La forma romanzo. In genere un’autobiografia non ha mai un inizio, né una fine. In quel caso io prendo dal mio primo ricordo importante fino a quando ho smesso di scrivere. Ci entra tutto quello che io decido di ricordare. Qui, invece, c’è assoluta selezione, di innesco e di finale, una selezione finzionale, legata al romanzo. La materia autobiografica crea una voce, che è nella logica della confessione, dell’esibizione e che viene creduta sempre. Gli si dà fiducia totale. Negli snodi narrativi più importanti, è talmente vicina al gesto sincero, che di conseguenza anche tutto il resto viene creduto. Ma non c’è nessun patto autobiografico con il lettore.
All’inizio del romanzo, Parigi è – appunto – un desiderio che vive nei sogni del protagonista. Poi diventa realtà. Il bilancio di questo passaggio è positivo o negativo?
La cosa del romanzo sono i rapporti con i fantasmi di una città. C’è un continuo slittamento rispetto all’idea che il personaggio si è fatto. Alla fine, il bilancio è drastico. Ad un certo punto, infatti, Parigi non è più il desiderio. Il protagonista cessa di desiderare di vivere a Parigi. Questo, ovviamente, avviene dopo varie modalità di rapporto. Non esiste una chiave di rapporto definitiva su una città. C’è il sogno, lo studio, il lavoro, la famiglia: nessuno di questi dà una chiave definitiva. Parigi rimane una città che sfugge a tutti i tentativi di appropriarsene. Georges Perec, nel suo Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, ci fornisce l’esempio perfetto: c’è una sorta di inesauribilità di metropoli come Parigi rispetto a chi la vuole intrappolare in un giudizio. Detto questo, Parigi è una città molto dura, spietata per chi ci vive. E non stiamo parlando, ovviamente, della città del sogno, del turista o della borghesia che se la gode come una sorta di parco giochi.
Come definiresti la cosiddetta “noncuranza” che invidi tanto al protagonista del film di Godard Fino all’ultimo respiro e che fa parte del tuo immaginario giovanile legato a Parigi?
Sì, in effetti è un termine che ho legato a questo personaggio interpretato da Jean-Paul Belmondo in Fino all’ultimo respiro. E’ una definizione che ha un fondo tragico, in realtà. Non significa fottersene di tutto. E’ una specie di tranquillità incosciente di fronte ai pericoli e alle trappole della vita. Uno stato infantile vissuto da un uomo adulto. L’immagine che mi viene in mente è quella di un personaggio che cammina sul bordo del precipizio senza provare nessuna angoscia. Una condizione opposta alla modalità in cui viviamo la nostra realtà, di controllo del mondo, secondo una logica funzionalista e utilitaria, di pragmatismo sfacciato. Nella noncuranza c’è un elemento poetico e tragico. È un concetto che si riallaccia alla storia del dandysmo, del flâneur, del non essere ingaggiato in qualche attività professionalmente seria sulla quale costruisci il futuro. Non è il menefreghismo del faccio quello che voglio.
Alla noncuranza del flâneur o del poeta si oppone l’abitudine, che tu consideri una prerogativa borghese. Il protagonista del tuo romanzo è sempre in bilico tra queste due dimensioni. Perché?
Io sono un abitudinario, quindi so cosa comportano le abitudini. Proust ha già detto tutto: “Le abitudini sono un compromesso tra il mio sistema individuale e il mondo”. Per non prendere sberle, costruisco un’abitudine che mi protegge, che mi fa controllare una zona di mondo attraverso la ripetizione. Il problema è che questo sistema difensivo può anche essere una delle nostre trappole. I sistemi difensivi possono diventare auto-offensivi, minacciare la persona stessa che li ha costruiti. Nel romanzo, il presupposto del protagonista è quello di mettersi in gioco in modo scoperto. C’è un momento in cui bisogna prendere rischi sennò non si crea nulla di importante. Le svolte sono sempre dolorose, implicano rischi, pericoli di perdersi, ma sono assolutamente necessarie. Noi siamo complici di tutte le forme di prigionia della società. Iniziare a fare uno sgambetto a noi stessi è un passo verso l’emancipazione.
Il principale alleato dell’abitudine è il lavoro. Cosa succede quando ci si trasferisce in una città come Parigi e si passa dalla statuto di turista (o di studente) a quello di lavoratore?
Parigi vissuta da lavoratore è stato un passaggio fondamentale per capire come funziona la società. È il lato oscuro del turismo. Ecco perché la società ci spinge a stare nel turismo anche a casa nostra, costringendoci ad una maturazione differita e ritardata, allo studio infinito. Nel rapporto con il lavoro, infatti, tutte le tensioni e gli scontri sociali esplodono. E’ il luogo in cui le maschere cadono, in cui si concentra il principio di realtà. Da qui, l’importanza della deriva debordiana di cui si parla nel libro, che ti permette di portare uno sguardo diverso, astruso, stralunato, eccentrico rispetto a un sistema di vita. Lo sguardo dei poeti, dei vagabondi, dei marginali ti permette di vedere delle cose che né nel turismo, né nel sistema lavorativo vedi.
Alla fine del romanzo, il protagonista è spietato con Parigi. Tra le altre cose, la definisce una città per gente esageratamente ricca…
È un dato di fatto. Ci sono degli studi sulla “gentrificazione” di Parigi. C’è il problema di un’enorme quantità di gente che ci lavora e che non ci può vivere. Poveri e classe media non ce la fanno, sono costretti ad uscire. La qualità della vita in città è sempre più difficile a meno di non avere molti soldi. In ogni caso, sono scettico sull’idea che esistano posti in cui è importante vivere perché è lì che passa lo spirito del tempo. Non credo sia decisivo esserci per avere buona qualità di vita o per creare. Le belle idee e le grandi opere sono venute tanto dalla periferia del mondo quanto dai grandi centri cosmopoliti.
Nel romanzo, parli molto del XIII arrondissement. Una scelta originale. L’hai fatto apposta?
L’ho fatto perché nel XIII c’ho vissuto. Non è l’unico posto in cui ho vissuto a lungo, intendiamoci. E non è che sia in sé significativo. La cosa che mi sembrava interessante era di parlare di un arrondissement senza grande storia, senza grande carattere, fuori da tutti gli immaginari, ma che nonostante tutto esiste, è Parigi, e ci sono mille storie che si svolgono lì dentro. Malgrado fosse fuori dalle telecamere, dalle luci, mi ha interessato farlo vivere, far vivere i suoi personaggi. E’ un quartiere ancora popolare di Parigi, dove c’è ancora una classe media. C’è tutta una zona nuova molto interessante, una parte importante di quartiere cinese, le torri ultrapopolari, le parti fighette, una visione parecchio sfaccettata di Parigi fuori dall’iconografia tradizionale.
Il capitolo intitolato La Sorbona Novella è praticamente un pamphlet sul precariato nell’università. Coma mai questa scelta?
In effetti, questo capitolo è stato criticato da varie persone, anche con delle ragioni. Perfino un libro riuscito può avere un sacco di difetti. Sembra che ci sia sorta partito preso, un elemento pamphlettistico, appunto. Il romanzo, d’altronde, è un genere composito, in cui un elemento pamphlettistico ci può stare. In questo capitolo il giudizio domina sulla narrazione, altrove, invece, i due elementi sono bilanciati. Il mio obiettivo era di mostrare come il criterio meritocratico nell’università è esploso e non funziona più. Non per la storia della mafia e del nepotismo. Il problema è che i candidati brillanti sono troppi rispetto alla capacità di assorbimento del sistema, per cui diventa difficile dire che uno ha delle qualità superiori rispetto a quelle di un altro. Funziona sempre meno. Ci sono la mafia e le raccomandazioni, certo, ma il criterio del merito – l’intelligenza – non funziona più. Perché un professore a contratto sembra un genio, poi quando gli scade il contratto, pare un pirla qualsiasi rispetto al professore? Io lo difendo, il pamphlet, e lo difendo nel romanzo.
Nel libro, Hélène, una delle donne del protagonista, enuncia una curiosa teoria sul lavoro: “Se tu paghi male una persona, sei anche incline a trattarla male”. Poi aggiunge: “Siccome ti pagano male, ti trattano male, e ti trattano male perché hanno vergogna, e per vincere la vergogna usano il disprezzo”. Credi anche tu a questa teoria?
Assolutamente sì. Tutti i precari dovrebbero fare un casino della madonna, ma purtroppo non c’è la forza di fare casino al livello collettivo. Quando ti rendi conto che il 30% degli insegnanti universitari sono precari, se non di più, basterebbe che si mettessero in sciopero e l’università è bloccata. E se la blocchi, blocchi tutta una serie di cose, la vita degli studenti, quella dei genitori degli studenti, oltre a creare un cortocircuito istituzionale. Le colpe di tutti, purtroppo, ricadono sul singolo. Quando sono dentro la condizione del precario e non riesco ad ottenere un miglioramento delle mie condizioni di lavoro, dico che è colpa mia, che non sono abbastanza bravo, che non lecco abbastanza il culo, che non pubblico abbastanza. Tutto è puntato sulla mia inadeguatezza. No, c’è un sistema che non funziona più, un’università in cui gente viene continuamente trascinata a fare master, etc… E dopo che tu hai prodotto tutte queste persone qualificate, già al dottorato c’è il livello di strozzamento. “Non pretenderai mica…”. È un problema di sistema che non viene affrontato, non si ha la forza di farlo, e ognuno lo vive come una forma di inadeguatezza personale.
Perché hai deciso di concludere il romanzo con nascita della figlia del protagonista?
L’evento di avere un figlio è la cosa più banale del mondo. Si fa da sempre e non c’è nessuna sorpresa. Per un personaggio che avuto una formazione lunga, trascinata, anomala, legata a tutta una generazione, la generazione del precariato, terrorizzata dal fare figli per ragioni economiche e culturali, questo elemento banale è percepito come eccezionale e diventa un’avventura reale e una rottura con tutte le abitudini. Come dice anche Daniele Giglioli, la nascita di un figlio è il momento in cui l’ego viene deposto dal piedistallo, in cui cessano tutte le sue pretese eroiche. In quel momento inizia una vera avventura, più banale di quella che ti aspettavi, che ti obbliga a dismettere le pretese verso il futuro, ecco perché scrivo che la figlia del protagonista brucia il suo futuro. Se prima era possibile sognare sempre delle nuove ripartenze, delle nuove rinascite, ora non è più possibile. Ci sono delle cose irreversibili, dalle cui forme non si uscirà più.