La rilettura del dittico di Patrick Leigh Fermor, Tempo di regali e Fra i boschi e l’acqua (Adelphi 2009 e 2013 rispettivamente) mi ha fatto venire in mente una domanda stuzzicante: è ancora possibile — e in cosa consiste di preciso — una letteratura di viaggio?
In un certo senso non c’è opera migliore di questi due libri per porre e inquadrare la questione. Nell’autunno 1933 il diciottenne Fermor si mette in viaggio verso l’Europa dopo un’adolescenza complicata e ribelle: sbarcato dalla patria Inghilterra in Olanda, il suo piano è di attraversare il continente a piedi fino a raggiungere Istanbul. Cominciano così oltre seicento pagine, fra i due volumi, dove sfilano di fronte ai nostri occhi le pianure gelide dei Paesi Bassi, osterie tedesche in pieno sorgere del regime nazista, meravigliose biblioteche, amicizie nate per strada, ospitalità delle più varie — camere affittate da barcaioli, conoscenti di conoscenti che offrono una stanza al giovane Fermor, giovani mitteleuropee che si divertono con lui, nobili magiari che lo viziano — e quindi brillanti riflessioni sull’araldica, la demografia e la linguistica, e poi il Danubio che appare di colpo fra raffiche di vento, il coro di Augusta, la vastità dell’Ungheria percorsa per un tratto a cavallo, le Porte di Ferro tra i Carpazi e i Balcani, il cibo diviso coi contadini, gli Schloss, foreste incontaminate, leggende e favole, un soggiorno in Austria come ritrattista “porta a porta” di borghesi, il Reno attraversato in chiatta, i quadri di Cranach e Altdorfer, e naturalmente le città: Colonia, Stoccarda, Vienna, Brno, Praga, Budapest, Cluj…
L’epopea di un chierico vagante, insomma, ma a pochi anni dal più sanguinoso conflitto del Novecento: e sebbene qui e là l’Europa tagliata in due da Fermor sembri ribollire di cupe avvisaglie, per la maggioranza del viaggio ha un aspetto quasi premoderno (sia nel mondo pastorizio che in quello altolocato). Forse il ragazzo in viaggio è riuscito a cogliere l’ultimo bagliore di un mondo ancora integro, più o meno negli anni in cui il filosofo Edmund Husserl consegnava al futuro il concetto di Europa come ideale di civiltà, ridandole il telos di verità e democrazia dei Lumi che a suo giudizio aveva smarrito. O forse no, forse è solo illusione: di lì a poco, tutte queste parole sarebbero affogate per sempre nel sangue e nell’orrore.
Comunque sia: una volta richiuso il secondo volume — Fermor prese appunti per un terzo, la parte finale del viaggio, senza riuscire a terminarlo — mi è balzata in testa la domanda con cui ho iniziato l’articolo: è ancora possibile una letteratura di viaggio individuale (dunque non legata ai grandi flussi migratori) così luminosa? Qual è il suo segreto? E in cosa consisteva una letteratura di viaggio quando tutto il globo ormai era scoperto, quando l’epopea dell’altrove stava per finire, e per di più in un’Europa ormai solcata in lungo e in largo?
La risposta può cominciare da una considerazione apparentemente banale. La grandezza di Fermor non sta nel percorso compiuto, e nemmeno in un certo senso l’averlo fatto a piedi o in quel periodo storico. Oserei quasi dire che il punto non sta neanche nelle cose straordinarie o buffe che capitano al giovane inglese, ripercorse nella loro nuda successione: il punto sta nello stile.
Non voglio passare per formalista, tutt’altro. Perché qui stile e missione coincidono, come nelle migliori opere: dove la missione è di ridare linfa a categorie come la meraviglia, l’imprevisto, la fortuna, la conoscenza da strada, l’incontro casuale, la passione per il linguaggio e le etimologie, la storia appresa sul posto, la babele delle lingue e delle usanze, l’assoluta gratuità di un incontro. Non è il fatto registrato, bensì lo stupore come continuo ingranaggio che ci mette in movimento.
Le avventure di Fermor sono indubbiamente “realistiche”: diremo delle “memorie”. Ma c’è un abisso fra il realismo inteso come copia di quanto vissuto, come semplice resoconto di esperienze, per quanto affascinanti, e la sua rielaborazione. Ed è proprio qui che si misura la differenza tra letteratura e memoria. Verso la fine di Tempo di regali, non appena dice di avere ritrovato il quaderno (un evento accaduto durante la stesura del libro), Fermor chiosa:
È stata una scoperta eccitante; ma anche inquietante. C’erano discrepanze di tempo e luogo tra il diario e quanto avevo già scritto, ma erano di poco conto e si potevano correggere. Il problema vero era che avevo immaginato — come sempre accade con gli oggetti smarriti — che il contenuto fosse migliore di quanto non era in realtà. Forse quella prima perdita a Monaco non era stata così seria come mi era parsa all’epoca.
Non c’è una cloud o una possibilità di backup a salvare Fermor. La “presa diretta” delle sue esperienze, per quanto mediata da un diario redatto al momento, è andata persa. Eppure la riscoperta del diario stesso non è essenziale. Come ammetterà anche in Fra i boschi e l’acqua, il quaderno è un aiuto inestimabile per ricostruire alcuni particolari; ma viene riportato solo in parte e comunque non costituisce autentica materia di narrazione. Il giovane Fermor era troppo impegnato a vivere il suo viaggio; il vecchio Fermor correva il rischio della memorialistica fine a sé stessa. La felicità sta a metà strada del testo — la riscoperta formalmente adeguata dell’emozione primitiva — e a metà strada dell’esperienza stessa. E il testo la illumina in modo stupendo.
Due esempi a caso? Due esempi presi a caso, giuro, dai due volumi. Ecco il primo:
Appena si aprirono le porte della cattedrale, mi arrampicai su per la scala del campanile per fermarmi, con il cuore in gola, sopra il solaio dove erano fissate quelle campane. Visti attraverso le cuspidi di un rosone pentalobato e l’agitazione delle taccole e di un paio di corvi che il mio arrivo aveva disturbato, i tetti della città si riducevano in scorcio a un labirinto appiattito. Ulm è il punto più a monte del Danubio, e c’erano file di chiatte all’ancora. Mi chiesi se il ghiaccio fosse avanzato silenziosamente durante la notte, e dove avrebbero trainato le chiatte. L’acqua è l’unica cosa che, quando ghiaccia, si espande invece di contrarsi, e un improvviso abbassamento della temperatura stritola come gusci d’uova le barche poco accorte. A sud del fiume, la campagna indietreggiava in una distesa bianca che si univa alle montagne del Giura svevo.
Ed ecco il secondo:
Mentre guidavamo verso sud, attraverso vigneti e campi di luppolo, le colline boscose fecero ben presto scomparire dalla vista il pinnacolo di Sighișoara. La campagna si stendeva ampia e solenne, con piccoli villaggi annidati fra gli alberi sulla riva dei corsi d’acqua. Se domandavamo il nome dei paesini, gli abitanti indicavano sempre nomi sassoni: Schaas, Trappold, Henndorf, Niederhausen. […] Erano costruiti attorno a un cortile centrale recintato, con ingressi ad arco ribassato per i carri, cancelli con tettoia a scandole, tetti a displuvio e file di finestre sui timpani che si affacciavano sulla strada. Le murature erano solide, fatte per durare e moderatamente adorne, qua e là, di audaci tocchi barocchi.
Questo non è un individuo che proietta le sue diapositive su uno schermo decenni dopo, né un ragazzo che torna da un viaggio e risfoglia le pagine del suo taccuino (o del suo blog). È il secondo sguardo di Fermor a essere cruciale, è la passione del dettaglio goduto con pienezza, ritrovato e restituito nella sua autentica essenza — e cioè nell’esattezza della parola. “Tettoia a scandole” o “rosone pentalobato” sono termini che difficilmente si possono annotare su un diario di viaggio; lo stesso vale per il nitore della sintassi. In Marcel Proust e i segni, Deleuze dice che la Recherche è un’opera proiettata verso il futuro, non verso il passato. L’unità del libro non sta nella memoria, ma nella “ricerca della verità”: quella di un letterato, della sua formazione; ritrovare dei segni vivi e non un passato morto. Oso un paragone: è proprio questa la magia di Fermor; quella che gli fa ritrovare con le parole quel tipo di gioia ineffabile, di nuovo ricreata con un simbolo ma assolutamente concreta e presente — quella che ad esempio in Tra i boschi e l’acqua, mentre si ferma dopo una cavalcata, gli fa dire:
Le foreste erano tutto un frullo di codirossi e culbianchi, appena arrivati dopo viaggi epici, riconoscibili dai codrioni mentre sfrecciavano da un tronco all’altro in mezzo a uccelli che già avevano costruito il nido, e nei campi aperti le allodole crestate si levavano in volo al nostro arrivo e cantavano in cielo, come se ci fossero dei fili a tenerle sospese. La vita non avrebbe potuto essere più perfetta.
Ah. “La vita non avrebbe potuto essere più perfetta”. Sentito come suona? È la stessa, meravigliosa, rarissima, proustiana felicità solitaria che prova il Nick Adams di Hemingway ne Il grande fiume dai due cuori, quando accampatosi nel bosco cucina la sua cena dopo un’intera giornata di viaggio, e porta alla bocca un cucchiaio di salsa di pomodoro con fagioli e spaghetti dopo avere atteso che si raffreddassero un poco: guarda il fiume, guarda l’oscurità, guarda la tenda. Poi manda giù il cibo e dice — allegramente, aggiunge Hemingway, sempre parco su queste cose: “Cristo. Gesù Cristo”. Ed ecco, quel cucchiaio di zuppa vale tutte le avventure di Addio alle armi. Proust incontra così Jack London e disegna lo spazio emotivo e concettuale per una delle ultime grandi epiche di viaggi e libertà dell’era moderna, pari forse solo a quella di un peraltro grande amico di Fermor: Bruce Chatwin.
Ma è tempo di tornare alla domanda cruciale. Ora che il turismo da un lato e le migrazioni dall’altro sembrano avere preso definitivamente il posto dell’epica di vagabondaggio individuale, “i viaggi sono finiti” — come dice Lévi-Strauss ne i Tristi tropici? Certo, da un punto di vista materiale chiunque oggi può fare lo stesso e cercare di calarsi negli spazi ancora salvi dall’immaginazione di massa, o eludere la mappatura implacabile dei paesaggi (ma anche degli interni) da parte di Google. Ad esempio, Matt Gross si è ispirato proprio a Fermor nel coprire a piedi lo spazio fra Vienna e Budapest, e una vena simile sembra scorrere anche nelle lunghe camminate di MacFarlane. Ma non è la stessa cosa: i viaggi non sono finiti, come pensava Lévi-Strauss, per il semplice fatto che si è spenta la possibilità dello sconosciuto; ma forse sembrano finiti i loro racconti perché si è andata smarrendo la qualità di un determinato stupore. Una certa capacità di trasformare l’inatteso, ma anche l’ovvio — ciò che è rubricato sotto questa o quella guida, questo o quel percorso in mezzo a tanti, tantissimi altri — in un unico. Il fraintendimento che passa fra l’avventura e lo stile che la rievoca.
Prevengo l’obiezione: questo taglio fra forma ed esperienza può apparire molto banale. Ma il fatto è che la letteratura di viaggio, fra i tanti “generi”, si staglia come una delle più incisive giustificazioni nei confronti del puro contenuto: più avventure uguale più letteratura, uguale più bellezza; e di converso, meno luoghi inesplorati e meno fascino “esotico”, uguale meno bellezza. Un’equazione fallace, e peggio ancora: un’idea che cede al ricatto del realismo come semplice copia, come una sequenza museale di immagini. Sospetto che in questo giochi anche l’abitudine a documentare che abbiamo acquisito in modo quasi automatico con la diffusione dei supporti digitali. Oggi chiunque può mettersi per strada e bloggare la sua avventura, giorno per giorno, aggiungendo dei tweet per immortalare i dettagli più volatili e postando foto su Instagram. Ma è proprio tale atto che, in un certo senso, previene e impedisce il “secondo sguardo” letterario: si ferma al diario del giovane Fermor (rendendolo però pubblico), senza apporvi la rielaborazione dello scrittore. Per avere ancora una letteratura di viaggio all’altezza dei suoi maestri può anche essere necessario cercare un luogo dove i piedi umani non sono ancora stati; ma non è sufficiente. I piedi, senza una lingua capace di problematizzare quanto si vive, serviranno solo per riportarvi a casa.
Quanto a “Sir Paddy”, come dicevo in precedenza, la terza e ultima parte del resoconto non fu da lui completata: ma è stata pubblicata nel 2013 con il titolo The Broken Road. Il curatore, Artemis Cooper, si è basato sul manoscritto dell’autore e ha cercato di rimanervi il più fedele possibile. Non ho ancora letto questo terzo volume, e non dubito che Cooper abbia fatto un ottimo lavoro. Ma per ora credo sia più poeticamente adeguato il non-finale di Tra i boschi e l’acqua, poco prima di quella breve appendice in cui Fermor fantastica seduto al tavolino di un caffè, e poco dopo avere visto un marinaio lanciare la cima “come un lazo fra i gabbiani”: un semplice e meraviglioso “CONTINUA”.