Per fare un giornalista ci vogliono pochi ma essenziali elementi. Tra questi, la buona scrittura occupa una percentuale piuttosto bassa. Ci sono colleghi che si divertono a calcolarla, i più severi non vanno oltre il venti per cento. Il resto è deontologia, esattezza, calvinismo. Insomma la buona scrittura se c’è è meglio, sennò pazienza. Piero Colaprico sa scrivere e oltre quel venti per cento ha anche tutto il resto. Basta vedere la carrellata di articoli che ha scritto per Repubblica in più di vent’anni ora raccolti in Mala storie. Anche in quelli più datati, l’unica differenza è nel paesaggio, quasi sempre urbano, a volte di provincia, dove è stato costretto a lavorare da cronista di nera. In alcuni articoli ci sono ancora i gettoni del telefono, le monete da venti lire e certi quartieri di Milano non sono ancora diventati Milano. Poi le cabine del telefono lasciano il posto ai cellulari, le mille lire agli euro, le Volvo 740 e le Thema ai Suv e alle monovolume, la città diventa metropoli globale e anche i delitti perdono l’aura da zanza dell’inizio degli anni Ottanta e diventano sempre meno italiani, sempre più complessi, globalizzati come la vita che si muove intorno.
Milano passa da socialista-affarista a lavacro nazionale attraverso Tangentopoli, a leghista fino a diventare quella specie di blocco clerico-liberista che è oggi. La città cambia e perde pezzi, soprattutto pezzi d’anima in una complessità che si può solo intuire, mai rischiarare del tutto. “I buchi neri di Milano”, li chiama Colaprico. Ma quel che resta uguale è il cronista, colui che rischiarare deve ma può fino a un certo punto con gli strumenti logori, imperfetti ma eversivi che ha. Leggete l’attacco dei suoi pezzi e le chiuse, le due cose tecnicamente più importanti di un articolo. E poi leggete il filo che le tiene unite: la pietas, l’occhio di chi osserva che non è mai diventato cinico.
Basterebbero i suoi reportage sul caso di Eluana Englaro e dell’odissea civile del padre Beppino per concedere pace alla figlia per averne la prova. Ma anche in tutti gli altri casi, che si tratti di ragazze uscite per andare in discoteca e mai tornate a casa, di extracomunitari massacrati per un pacco di biscotti, di folli che si sono messi a sparare al primo che passa, di adolescenti che se ne sono andate perché la vita sembrava loro già troppo pesante a quell’età per capire che cosa significa pietas. Si dice che se non si entra a casa dei parenti di una vittima per raccogliere informazioni subito dopo avvenuto il fatto non si può fare il mestiere. E’ vero, ma c’è modo e modo di farlo. Ci sono trucchi, ci sono scorciatoie e c’è chi le usa. Ma c’è anche chi semplicemente lo fa in modo discreto e con rispetto. Ci vogliono anni per impararlo, molti di più che per un buon attacco o una buona chiusa. O per scrivere bene. Tutto questo è molto, molto di più del venti per cento.