L’8 aprile 1979 moriva Breece D’J Pancake, autore di un’unica raccolta di racconti molto amata. Lo ricordiamo con un breve ritratto.
«Tutta l’acqua che veniva dalle vecchie montagne scorreva verso ovest. Ma la terra si è sollevata. Mi restano solo il letto del torrente e gli animali di pietra che colleziono. Sbatto le palpebre e respiro. Mio padre è una nuvola color kaki tra i cespugli di canne e Ginny nient’altro che un odore amaro tra i rovi di more, su per il crinale».
Siamo alle (se permettete: bellissime) battute finali di «Trilobiti», il racconto di Breece Dexter John Pancake contenuto nella sua unica raccolta uscita nel 1983, The stories of Breece D’J Pancake – in Italia sono stati pubblicati per la prima volta da Isbn, prossimamente saranno nuovamente in libreria per minimum fax con traduzione di Cristiana Mennella e prefazione di Joye Carol Oates. Pancake si suicida con un colpo d’arma da fuoco alla testa l’8 aprile 1979, quando non aveva ancora compiuto ventisette anni. Le circostanze e le motivazioni che lo indussero al suicidio restano controverse. Alcuni suoi conoscenti pensarono che si trattò di un incidente. Altri, invece, dissero che ripensando a certi suoi messaggi avrebbero potuto leggere in controluce la sua volontà di farla finita. Di sicuro il giovane scrittore non se la passava bene e sul suo umore pesavano due lutti avvenuti a distanza ravvicinata: nel 1976 Pancake perde prima il padre, dipendente del colosso della chimica Union Carbide, e subito dopo uno dei suoi amici più cari.
Morto da giovane – per di più a 27 anni, quell’età che accomuna tutto un gruppo di artisti scomparsi prematuramente – dotato di sicuro talento, il cliché dello scrittore “rock” potrebbe scattare come un riflesso incondizionato. Per fortuna, niente nella sua biografia e soprattutto nelle sue storie, pervase invece da una tensione quasi sacra, un invito al raccoglimento sullo sfondo di (apparentemente) piccole quisquilie domestiche, prende questa direzione.
Pancake visse a Milton, nella Virginia occidentale, studiò letteratura e scrittura creativa all’università dello stato. Siamo nel “Nord del Sud” degli Stati Uniti, tra il Kentucky, l’Ohio e la Pennsylvania. Le sue storie sono pervase dell’atmosfera del luogo, un posto tutto sommato tranquillo che poteva d’altra parte tendere alla desolazione, paesi dove certo non doveva accadere molto, e il richiamo delle dipendenze – quella dall’alcol, ad esempio – si rivelava un rifugio abbastanza scontato. Un’America insomma quantomai lontana dalle grandi metropoli. Potrebbero venire in mente certe atmosfere recentemente rievocate da Roberto Minervini nei suoi film documentari.
Lì tra i monti Appalachi che dominano la Virginia occidentale Pancake andava a caccia, s’armava di lenza per andare a pesca, o alla ricerca di trilobiti (fossili). Amava il cantautore folk Phil Ochs. Si diploma nel ’74 e quindi insegna per due anni all’Union Military Academy, prima di abbandonare la professione per dedicarsi più seriamente alla scrittura. Comincia a sottoporre le sue storie a editori e riviste. Una prima risposta positiva gli arriva dall’Atlantic, storica rivista culturale americana. Sono interessati a Trilobiti. In fase di lavorazione gli editor del giornale sbagliarono la punteggiatura del nome, abbreviandolo in D’J. Pancake non volle correggere le bozze. Siamo nel 1977 e Trilobiti apparve dunque sull’Atlantic. Il racconto di Breece D’J Pancake piace e stimola l’interesse degli editor di altre riviste letterarie.
Malgrado il discreto successo ottenuto, Pancake non è sereno, perlomeno non sempre. Nel ’76 sono avvenuti i due lutti che lo hanno notevolmente segnato. All’Università poi si sente emarginato, o piuttosto vuole emarginarsi: non è a suo agio con gli altri studenti, d’estrazione sociale differente, e malgrado tutto sommato la sua famiglia non fosse povera, coltiva un certo mito fatto di purezza e autoisolamento. Viveva in una misera stanza alla periferia di Charlottesville, arredata con pochi mobili e tanti libri, e lì leggeva e scriveva i suoi racconti. La notte dell’8 aprile 1979, che fosse per sua volontà (l’ipotesi che resta più probabile) o per un incidente, muore.
«Apro la porta del camioncino, scendo sulla stradina di mattoni. Guardo ancora una volta Company Hill, tutta consumata e logora. Molto tempo fa era davvero scoscesa e stava come un’isola sul fiume Teays. C’è voluto più di un milione di anni per fare questa piccola collina liscia e io ho cercato dappertutto trilobiti. Penso a com’è sempre stata lì e a come ci starà sempre, almeno per tutto il tempo che importerà qualcosa. Quando arriva l’estate, l’aria si fa afosa. Un branco di storni fluttua sopra di me. Sono nato qui e non ho mai voluto andarmene davvero. Ricordo gli occhi di papà morto che mi guardavano». (traduzione di Ivan Tassi)
Questo è l’attacco di «Trilobiti», tutto dolcemente proteso verso la millenaria infelicità degli esseri umani. Natura e uomo, intimità e vaste distese si fondono in un unico abbraccio, non necessariamente piacevole. Sappiamo che esistono il passato (il milione di anni che ha impiegato la collina per diventare liscia) e il presente – l’aria afosa dell’estate, il dolore per la perdita del padre. Decifrare quel “per tutto il tempo che importerà qualcosa” è il vero mistero di queste righe: Pancake sta parlando della sua esperienza del mondo come individuo – oppure le sue parole suggeriscono una dimensione religiosa e trascendente? Una piccola risposta può risiedere nella conversione al cattolicesimo di Breece, intorno ai 23-24 anni – fu in quell’occasione che aggiunse “John” al suo nome. Interpretazioni a parte, tuttavia, resta la bellezza puramente letteraria di un grande incipit.
Fu solo nel 1983, lo stesso anno in cui uscì Cattedrale che 12 suoi racconti vennero riuniti in un’unica raccolta. La cosa sorprendente – sorprendente per il tono dei racconti, notevolmente distanti per ambientazione e “sentire” dalle opere che andavano più per la maggiore in quel periodo – è che il libro ottiene buoni riscontri. Vende 15 mila copie ed è candidato al Pulitzer. «Il marchio», «L’attaccabrighe», «La mia salvezza», «Come dev’essere» sono altre delle storie contenute nella raccolta di Pancake, che coltivava una disciplina assai rigida nella scrittura. Joyce Carol Oates lo paragonò a Ernest Hemingway, personalmente ho intravisto echi della letteratura di Pancake nelle storie di David James Poissant, tra le più interessanti arrivate nell’ultimo periodo dagli Stati Uniti.
Uno dei suoi lettori più entusiasti fu Kurt Vonnegut, che disse: «Si tratta semplicemente del più grande scrittore, dello scrittore più sincero che io abbia mai letto. Quello che temo è che questo gli abbia dato troppo dolore, non c’è nessun divertimento a essere così bravi. Ma né tu né io lo sapremo mai».