Siamo nel 1966: Handke ha ventiquattro anni. Il suo editore Siegfrid Unseld, della Surkhamp, ha appena accettato il suo romanzo I calabroni. Di prosa narrativa, però, gli dice, non si campa – perché allora non provarsi anche col teatro? Insulti al pubblico è il risultato, istintivo e brutale, di questo incitamento: un testo straordinario e sovversivo, che trasforma immediatamente Handke in una pop star della letteratura tedesca. Lui, di suo, è un abile provocatore: ogni sua lettura pubblica è uno show; nessuno più di lui è bravo nell’arte del j’accuse letterario. Invitato a Princeton per un convegno del Gruppo 47 – la più potente istituzione culturale della Germania Occidentale – prende la parola a sorpresa l’ultimo giorno. Il suo intervento è una plateale requisitoria a tutta la letteratura tedesca: “descrittivamente impotente”, “miserevole”, “non creativa”, “ridicola”, “terribilmente convenzionale”. È aggressivo ma furbo, il ventiquattrenne Handke: attacca forte ma non fa nomi, suscita scandalo per poi subito ritrarsi in attesa dell’attacco successivo. Insulti al pubblico debutta nell’ottobre 1966 a Frankfurt con la regia del celebre Claus Peymann, ed è l’epicentro di infinite discussioni e altrettanto infiniti aneddoti: proteste, aggressioni, scazzottate (una vede protagonista lo stesso Peymann) – gli insulti al pubblico diventano spesso, replica per replica, insulti dal pubblico. Nel dibattito culturale non si parla d’altro: Handke diventa forse il primo caso di “scrittore fotografato”. Ci si sarebbe dovuti forse ricordare di più di quest’approccio mediatico ai tempi della sua discussa posizione su Slobodan Milošević: l’ascesi misantropica che fa di Handke uno scrittore quasi mistico non deve impedire di vedere l’altro aspetto della sua postura artistica: il piacere della provocazione, l’attacco frontale al sistema, il gusto nel verificare l’attrito di una società letteraria: farsene respingere e allo stesso tempo rendersi irrespingibile. Il Premio Nobel ha solo dato una conferma plateale e definitiva che la letteratura non può fare a meno di Peter Handke: la sua opera costituisce un oggetto al contempo imprescindibile e non metabolizzabile.
Ora che il suo scandalo non ci tocca più, Insulti al pubblico ci arriva come puro testo: un duro sacramental laico, un gesto di poesia teatrale che conserva tutta la sua energia propulsiva anche nella versione italiana: da noi è stato messo in scena due volte – nel 1999, con Armando Punzo e la Compagnia nella Fortezza – e nel 2006 con Daria Deflorian e Piraldo Girotto, nella regia di Fabrizio Arcuri.
È evidente in Insulti al pubblico il disamore, il fastidio per ogni convenzione drammaturgica, il desiderio di immaginarne di nuove: fondare un nuovo rito teatrale, un nuovo rapporto con lo spettatore, un nuovo tipo di frontalità con la platea. Il pubblico viene tracciato, intrigato, irriso nelle sue aspettative, nei suoi preconcetti, nella struttura stessa del suo immaginario e del suo vocabolario:
Qui il tempo non viene rappresentato. Qui c’è soltanto il tempo reale. Qui c’è soltanto il tempo che noi, noi e voi, viviamo sulla nostra pelle. Qui c’è soltanto un tempo. Questo significa unità di tempo; unità di tempo, luogo e azione. Questa piéce è dunque classica.
Ma quel “voi” al pubblico, che funzionava allora come gesto di rottura di una quarta parete la cui caduta è per noi oggi quasi ovvia (in molti teatri tedeschi il post-drammatico è già diventato da tempo una nuova, ben codificata convenzione), oggi irrompe come un vocativo poetico, una brutale requisitoria, una presa d’atto: lo spettatore viene chiamato in causa individualmente, interpellato nella propria funzione, chiamato al suo “ruolo”: spettatore in quanto corpo, individuo, cittadino, consumatore culturale, testimone di una specie, centro di un rapporto che va ricominciato dall’inizio:
Qui non viene dato al teatro quel che è del teatro. Qui non troverete soddisfazione. Il vostro desiderio di guardare resterà inappagato. Nessuna scintilla scoccherà tra noi e voi. Non si fremerà per la tensione. Queste tavole non significano il mondo. Queste tavole servono soltanto a noi per starci su. Questo non è un altro mondo rispetto al vostro. Voi siete il tema. Voi siete al centro. Voi siete nel punto focale delle nostre parole. (…) Voi siete un evento. Voi siete l’evento”.
Il secondo testo importante di questa raccolta, Autodiffamazione, appartiene allo stesso periodo: ha debuttato nell’ottobre 1966, a Oberhausen, con la regia di Günther Büch. È difficile che un testo drammaturgico sappia oltrepassare la sua teatralità e prendersi, oltre alla dignità della scena, quella della letteratura. Autodiffamazione è uno di questi casi. Si tratta di una vera e propria piccola cosmogonia individuale: la storia di un essere umano nella forma di un regesto – una disperante rendicontazione del proprio passaggio nel mondo. Una confessione, tutta suonata al passato prossimo, in un’interminabile litania di verbi appena compiuti. I due attori in scena recitano e rappresentano, col proprio stesso corpo, il precipitato di una sequela di azioni. Azioni a cui – lo scopriamo qui – può essere in fondo riassunta, scritta, ritualizzata la vita:Ho vissuto nel tempo. Ho pensato all’inizio e alla fine. Ho pensato a me. Ho pensato ad altri. Sono uscito fuori dalla natura. Sono divenuto. Sono diventato innaturale. Sono approdato alla mia storia. Ho riconosciuto che io non sono tu. Sono stato in grado di comunicare la mia storia. Sono stato in grado di tacere la mia storia.
Ho avuto modo di vedere Autodiffamazione in scena al Teatro Kismet di Bari, nel 2014, ad opera di Lea Barletti e Werner Waas, compagnia italo-tedesca che ha con la drammaturgia di Peter Handke una profonda consuetudine. Era uno spettacolo doloroso e bellissimo: i due attori terminavano la scena integralmente nudi, una nudità che non aveva nulla di provocatorio o di estetizzante, piuttosto una nudità patetica e negativa. Il lungo rosario di verbi diventava una confessione che era anche preghiera: qualcosa d’infantile, definitivo e inconsolabile. Quella messinscena faceva emergere una qualità quasi terribile del testo di Autodiffamazione: il parlare di sé cercando una sincerità totale e assoluta (quella sincerità che Baudelaire, nelle note preparatorie al Cuore messo a nudo, riteneva quasi impossibile): una sincerità oggi spesso sbandierata ma mai reale, che in Handke si pone come l’esporsi alla possibilità del ridicolo, la rinuncia al cercare una qualsiasi immagine di sé. Aprire, sul proprio corpo e a proprie spese, uno spazio di vulnerabilità e di offerta. Un tentativo commovente di verità.
Forse è proprio questo aspetto che il testo di Handke va a stanare inesorabilmente: una nuova nozione del teatro, dell’attore (dell’attore che ogni essere umano è costretto ad essere), nel momento in cui si toglie lo specchio davanti, si sottrae alla propria immagine e si consegna, si butta, si lancia in pasto agli altri e all’Altro che essi significano: concedendosi, scommettendo tutto, appunto autodiffamandosi.
Nella sua Nota alle pièces vocali Handke descrive l’intento che sottende il suo teatro: non fornire “un’immagine del mondo, bensì un’idea del mondo”. Un teatro che oggi ancora più di allora ha il dovere di porsi come un evento non più solo narrativo, di rappresentazione o di mimesi, ma come l’apertura di una prospettiva problematica, di un conflitto concettuale e non solo psicologico: un teatro più urgente e più pericoloso. “Non intendiamo rivoluzionare nulla”, scrive Handke – “bensì rendere attenti”.