Abbiamo visto Pietà diretto da Kim Ki Duk.
Il cinema coreano è tra i più interessanti di questo nuovo secolo e Kim Ki Duk è uno dei registi più significativi e ostici di questo Paese. Alcuni ricorderanno Bad Guy del 2001, altri Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera del 2003 e trasmesso da Rai3 nel 2007, molti avranno visto quello che riteniamo il suo capolavoro Ferro 3 – la casa vuota (che ci permettiamo di invitarvi a vedere, se lo avete perso) del
2004. Ma Kim Ki Duk ha diretto ben 18 film in sedici anni ed ha mostrato tutta la sua originalità e il suo valore nonostante qualche compiacimento di troppo nel far vedere in primo piano una violenza sadica quasi insopportabile per lo spettatore in alcuni passaggi narrativi. Ha sperimentato narrazioni che si potrebbero definire labirintiche, ha mostrato visionarietà portate quasi all’estremo, ha voluto mostrare l’orrore del vivere e il dolore di una certa umanità senza alcun compromesso. Una cifra stilistica ‘contro’, da facitore di quel vero Cinema antagonista e sostanzialmente anticapitalista che noi non abbiamo quasi mai fatto per indole, mancanza di coraggio e ‘bonarietà’ estetica. Certo la violenza sui corpi e nelle anime che ci racconta è qualcosa di quasi insopportabile per noi spettatori anestetizzati dalla realtà apparente e rappresentata come vera. Se ci permettete la parafrasi ovvia, lui ci indica la luna e ci impedisce di guardare il dito che la mostra. Come ha scritto qualcuno, Pietà è un manifesto contro il capitalismo estremo, nel raccontare il potere corruttore del denaro e quanto l’avidità distrugga tutto, la società, la famiglia, l’individuo.
Vincitore dell’ultimo Leone d’Oro al festival di Venezia, non è stato accolto dalla critica in modo uniformemente positivo e sembra quasi che dalle parti nostre ci sia la condivisione con molti critici coreani che reputano questo regista un drop out un po’ folle e sicuramente estremo. Con questo ultimo film, nonostante una violenza che sembra indugiare ancora troppo, Kim Ki Duk sceglie un racconto dalla struttura circolare e classica, più fruibile per il grande pubblico, quindi meno visionarietà e più ‘concretezza’.
Gang Do (Lee Jung-Jin) è un trentenne solitario e duro come la pietra, vive da solo in una casa disordinata e sporca nella periferia di Seul e fa sesso con il suo cuscino. Fa l’esattore per uno strozzino senza alcuno scrupolo e brutalizza i poveri disgraziati artigiani che non riescono a pagare i debiti: si aggira durante il giorno nel degradato quartiere di Cheonggyecheon terrorizzando e storpiando gli artigiani, amputa le mani sotto la pressa o li fa saltare da un piano di un palazzo in costruzione per spaccargli le gambe e così recuperare il debito con l’assicurazione che il malcapitato ha firmato prima di ricevere il prestito (una ventina di minuti così crudi da restare ammutoliti e straziati). Un giorno qualcuno bussa alla porta di casa sua, è una donna vestita di rosso (la brava Jo Min Su), ancora giovane e completamente silente, il giovane la scaccia dapprima, la maltratta poi ma lei lo continua a seguire incurante degli insulti: lui arriva, per non farla entrare in casa, a sbatterle ripetutamente la porta sulle mani, ma lei continua a guardarlo adorante senza reagire. Un giorno lei gli confessa che è sua madre e vuole il suo perdono per averlo abbandonato dalla nascita, lui non le crede e decide di metterla alla prova con disperante ferocia, la violenta e la obbliga a mangiare forse un dito del piede che si è tagliato. Si convince in fine che quella è sua madre, o almeno così vuole credere, si ‘scioglie’ emotivamente e si affeziona a lei in modo intenso, quasi a voler recuperare tutto il dolore della sua solitudine. Escono assieme, vanno a ristorante, lui pianta un pino ai bordi del fiume su sua richiesta. Ma un giorno la donna lo chiama a telefono inscenando un pestaggio per rappresaglia e successivamente sparisce facendo credere di essere stata rapita e così Gang Do va in tilt e si mette alla disperata ricerca della madre ritornando nei luoghi in cui vivono gli artigiani ormai paralizzati o appena suicidi. Ma la realtà è ben un’altra e la madre si fa trovare per poi lasciarlo nel modo più cruento che può immaginare.
Un film forte, asciutto e durissimo in cui una Maria piena di grazia all’inizio si trasforma in un Angelo vendicatore finale che non si fermerà nel suo proposito nemmeno dal dubbio finale. E simbolo del film è il manifesto in cui viene mostrata Mi-sun con velo bianco, che tiene dolente sulle ginocchia il corpo di Kan-do, come la vergine Maria col corpo di Gesù, nella Pietà di Michelangelo.