Cantautore. Sono passati più di sessant’anni dalla coniazione di questo scialbo, petulante, italianissimo mot-valise, e ancora non siamo riusciti a liberarcene. Abbiamo archiviato matusa, valletta, maggiorata, capellone, ma del termine escogitato nei primi anni ’60 negli uffici della Rca di Roma ancora oggi ci serviamo. Così, Pino Daniele, disgraziatamente mancato a soli 59 anni per un infarto il 4 gennaio 2015, passa bruscamente alla storia con questa bislacca qualifica.
È stato un cantautore, Pino Daniele? Per massmediatica comodità dobbiamo accettarlo, e raccontarcelo pubblicamente. A me, che ho attraversato gli anni in cui nel nostro Paese questo bollino assumeva un senso quasi sacrale, riesce difficile chiudere il povero, grande Pino nella gloriosa, banalissima etichetta. Se penso ai suoi esordi, lo ricordo soprattutto come un talentuosissimo chitarrista e cantante blues, segnalatosi tra la seconda metà degli anni ’70 e i primi anni ‘80, la stagione della cosiddetta “scuola napoletana”, quella di Napoli Centrale (gruppo di cui ha fatto parte), Toni Esposito, Edoardo Bennato, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, ecc.
Le “scuole” regionali, allora, spuntavano come funghi nella canzone italiana che cominciava a storicizzarsi. Si parlava (a ritroso) di “scuola genovese”, di “scuola milanese”: in realtà, queste presunte “scuole” erano (come tante altre cose di quegli anni) un’invenzione giornalistica: il “genovese” Gino Paoli era di Monfalcone, Endrigo di Pola, il “milanese” Jannacci pugliese, Gaber nasceva Gaberscik, e via dicendo.
L’idea di “cantautore” rimandava, negli anni ’70, a una legittimazione artistica della canzone. Canzone “d’autore”, sul modello del cinema e del fumetto. I giovani consumatori di musica “leggera” (così continuava a chiamarsi) pretendevano che i loro prodotti preferiti venissero consacrati come autentica Poesia, allo stesso livello di quella canonizzata nei libri. Il cantautore –così inteso – era una specie di Vate, che parlava – a suon di “impegno” e di vaporanti metafore – a nome di un’intera comunità di fans e di “compagni”. Se andiamo a riascoltare e a rileggere i primi successi di Pino Daniele, ci accorgiamo che questo bluesman di casa nostra non aveva nemmeno in nota le ambizioni letterarie di un Guccini o di un De Gregori: quello che lo caratterizzava era una eccezionale bravura strumentale, una “grana” vocale senza confronti, il dono che gli spagnoli chiamano el duende (il dionisiaco diavoletto zingaro che anima dentro e ispira). Pino Daniele è stato innanzitutto uno scioltissimo musicista e un grande, grandissimo vocalista. La sua voce sottilmente velata, il suo ritmo, avevano poco a che fare con la scrittura e con l’ideologia. Certo, i testi che cantava li scriveva lui. Ma in primo piano, in pezzi come “Napul’è” o “O’ scarrafone”, non c’era il “messaggio”, e men che meno la “poesia”. Il che non significa che le sue canzoni non dicessero niente.
Pino Daniele non era un “professionista” nel senso deteriore, uno che si rifugiasse tartufescamente nel suo “puro” talento artistico. Nei suoi testi parlava della sua città, attaccava senza filtri la xenofobia, direttamente la Lega Lombarda di Bossi. Ma le sue canzoni restano sostanzialmente estranee a ogni spirito di parte, tanto che persino Roberto Maroni, presidente leghista della Regione Lombardia, nel giorno della sua scomparsa, si inchina alla sua bravura.
“A disen la cansun l’è nata a Napoli/ e verament gh’han minga tutt’i tort”, scrive D’Anzi nella sua classica Madunina. Pino Daniele è stato uno dei massimi continuatori della nostra tradizione in dialetto nazional-napoletano, ma anche uno dei più lontani dal folklorismo partenopista dei neomelodici. Celebriamolo come un umile e grande musicista italiano. Ma – per favore – lasciamo cadere per una volta il dubbio blasone di cantautore.