Siamo nella seconda settimana di marzo a Parigi, e ancora il covid-19 non ha interrotto del tutto le attività cittadine. Soggiorno all’Hotel La Louisianne, il luogo di ritrovo di Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Charlie Parker, Miles Davies, Cy Twombly, e molti altri: un originale tuffo nel passato proprio nel cuore del Sesto Arrondissement. Passo le mie giornate ripercorrendo i passi delle icone della letteratura e dell’arte. A quanto pare, le vicende di Frida Kahlo a Parigi nel 1939, di cui tratta l’ultimo libro di Marc Petitjean, The Heart. Frida Kahlo in Paris, mi ossessionano ovunque mi trovi. Passeggio lungo la Senna nei pressi del Louvre, ed ecco che mi ritrovo a fissare l’Hotel Regina Louvre, nel quale mi sono appena imbattuto, leggendo. Individuo la statua dorata di Giovanna D’Arco che piaceva moltissimo alla Kahlo – sembra che Frida si sentisse a lei affine – e immagino di assistere a una scena narrata nella smilza biografia nel mio zainetto: la Kahlo esce a precipizio dalla sua camera al sesto piano per balzare nell’auto di André Breton diretta verso l’ennesima cena in compagnia che l’avrebbe, ancora una volta, delusa.
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Penso a quella volta che la Kahlo, in risposta al suggerimento di usare un “bastone da passeggio”, dice al suo amante di non voler mettere in evidenza le proprie condizioni fisiche: “preferisco soffrire come una bestia da soma piuttosto che mi vedano come un’invalida”. Io pure ho evitato di portarmi una mazza in viaggio benché abbia un’invalidità parziale. Inoltre, il modo in cui Frida si fa beffe di Parigi in queste pagine è davvero squisito. Ripenso alle rimostranze infinite della Kahlo: “Non hai idea di quanto sia spocchiosa questa gente”. Ha alle spalle sofferenze di cuore: l’uomo della sua vita, Diego Rivera, le è stato infedele, con sua sorella Cristina, poi, e ora le sta pure chiedendo il divorzio. Lei si butta a capofitto in un lavoro commissionatole da New York – un dipinto che rappresenti il suicidio dell’attrice americana Dorothy Hale – e ha una relazione con il fotografo Nickolas Muray. Sembra avere il presentimento che Parigi la cambierà ma ancora non sa in che modo. Sebbene la sua cerchia di artisti includa personaggi quali Man Ray, Picasso, Dora Maar, Kandinsky, Duchamp e Breton, il più significativo degli ammiratori, sebbene tra i meno noti, nonché il miglior frutto del suo soggiorno, sarà Michel Petijean, che si dà il caso sia il padre dell’autore del libro.
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Al termine del viaggio, la lettura di The Heart ha avuto su di me un effetto paragonabile a quello della stessa Parigi. Un gioiello di libro, frizzante e conciso, una vera delizia dall’inizio alla fine, che lo si prenda come una saga ultra-generazionale di passioni e cuori spezzati, un’improbabile ma splendida narrazione dei rapporti tra padre e figlio, una classica love story tra l’artista e la sua musa, o un ammonimento sulla città più incensata della terra.
Ci rendiamo conto che il padre dell’autore ha a che vedere con il titolo, The Heart, almeno quanto il dipinto a cui si riferisce: il celebre autoritratto della Kahlo del 1937, un distillato di angoscia e smembramento emozionale. L’opera di Frida, offerta a Michel come dono d’addio, è restata appesa nella casa in cui Marc è cresciuto senza che lui avesse la più pallida idea di cosa celasse. Da uno scrittore messicano che lo ha contattato, scopre che il padre non era una semplice conoscenza della Kahlo ma che aveva avuto una relazione con lei durante “una delle fasi migliori della sua vita”. Immaginate cosa voglia dire rendersi conto solo a una certa età che il proprio padre ha avuto una breve ma intensa storia d’amore con Frida Kahlo!
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Il periodo parigino della Kahlo ha avuto un’importanza cruciale nella sua vita. Soltanto là è stata in grado di liberarsi dell’appellativo di “Mrs Diego Rivera”. Sebbene restia, Frida fa ora parte del selezionatissimo entourage di artisti surrealisti di Breton, e proprio per la sua marginalità gode di speciali attenzioni. Come conseguenza, la Kahlo, il cui legato è stato ripreso dalla critica e dalle artiste femministe, è stata spesso esaltata per lo spirito indipendente e iconoclasta. Qualità che sembrano essere maturate durante quei due mesi a Parigi, un periodo di cui si è scritto ben poco, nota Petitjean, ma che assume per lui un’importanza capitale, come sappiamo, nel tentativo di comprendere sia l’artista sia il proprio padre.
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Parte del miracolo operato da questo libro di memorie è che l’autore riesce a rendere la figura del padre accattivante quanto quella di Frida. “Ad essere sinceri, mi rendo conto adesso di aver saputo molto poco della vita di mio padre”, ammette, e un senso di mistero ci accompagna attraverso gli scabrosi intrecci narrativi.
È arduo definire con precisione chi fosse Michel Petitjean, persino per il suo stesso figlio, dato che Michel “non sembrava aspirare a una carriera ma desiderava piuttosto una vita movimentata in mezzo ad artisti, intellettuali e vari personaggi politici”. Infine, dopo aver seguito le sue varie aspirazioni, trascorse diversi anni in un campo di concentramento nazista per aver collaborato con la Resistenza. Ha avuto una vita senz’altro interessante ma, proprio come in queste pagine l’enorme fama di artista della Kahlo resta quasi per miracolo in secondo piano rispetto alla sua relazione con Michel, in The Heart ci interessa soltanto il suo ruolo di amante devoto e passionale.
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Ancora una volta siamo conquistati dal fascino e dall’irriverenza di Frida, brillante e insolente come sempre in tutti gli aneddoti. Considera indegni di lei i compromessi e le maniere di Breton e finisce per coinvolgersi sessualmente con la moglie, Jacqueline Lamba (a Breton è permesso di stare a guardare). Troviamo inoltre molto divertente lo sdegno della Kahlo per la cultura francese – in particolar modo per le cerchie di artisti – espresso a più riprese. “Preferirei di gran lunga starmene seduta sul selciato al mercato di Toluca a vendere tortillas, piuttosto di avere a che fare con quegli artisti spocchiosi di Parigi” (‘spocchiosi’ sembra essere l’appellativo favorito per i parigini!). Si direbbe davvero che i francesi la fraintendano; a un certo punto, il poeta Robert Desnos dice al padre di Petitjean: “la sua amica è graziosa, potrebbe essere uscita da un’esposizione del museo etnografico”. Ma noi siamo convinti che Petitjean “sia attratto dalla sua personalità e dalla sua cultura piuttosto che dal suo aspetto esotico, ‘etnico’, per così dire”. In altre circostanze, questo sembrerebbe dubbio, ma dato il carattere di Michel, ci crediamo. Entrambi i Petitjean ottengono la nostra piena adesione, tanto da non mettere in discussione la loro magnanimità da occidentali su certe questioni imbarazzanti. Mentre la Francia e i francesi sono sminuiti dall’autore, seppur francese, il Messico della Kahlo è esaltato come il fulcro dell’arte: “Il Messico non aveva alcun bisogno del surrealismo. In effetti, è vero l’opposto: il surrealismo contava sul contatto col Messico per rigenerarsi”. Nella logica di The Heart, sappiamo che lo spirito dell’arte può risiedere ovunque, che sia Città del Messico o New York City. Sembra destino che in Francia ogni cosa si riveli per la Kahlo comicamente non all’altezza, senza rimedio, fatta eccezione per l’amore.
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Petitjean dimentica talvolta di attenersi ai fatti, mentre espone con troppo fervore le proprie fantasie: “lei trascorre tutto il pomeriggio in camicia da notte alla finestra dal vetro appannato, tracciandovi forme col dito mentre canterella una nenia messicana. Volta a volta compaiono una casa, delle facce, alberi, e poi un animale. Li cancella man mano”. L’autore risulta assai più efficace quando tratta il suo soggetto da regista di documentari quale è, dubitando delle cose di cui non ha certezza: “Cerco di raffigurarmi la prima sera in cui gli innamorati entrarono nella camera di Marcel Duchamp… È stato mio padre a girare la maniglia e ad aprire la porta? Si tenevano per mano?”.
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The Heart è una sorprendente raccolta di frammenti biografici di gente famosa e una rassegna di pettegolezzi rivelatori sui maggiori esponenti del surrealismo. Il lettore si imbatte in un’improbabile serie di icone, da Lev Trotsky a Elsa Schiaparelli, a poche pagine di distanza, ma persino in simile compagnia i nostri innamorati rubano la scena.
Solo alla fine del libro ci facciamo un’idea di chi sia davvero l’autore. Pur sapendo che Marc Petitjean è cresciuto nella casa in cui si trovava l’enigmatico dipinto, non scopriamo in quale misura questo abbia influito su di lui e sulla sua carriera se non nelle ultime pagine: “Il dipinto di Frida mi aveva aperto una strada: se avessi deciso di farlo, avrei saputo come esprimere in piena libertà le cose che non potevo dire a parole attraverso forme, colori e metafore”.
Mentre attraversavo una Parigi ancora brulicante di gente, ma in procinto di fermarsi, per tornare a New York a fronteggiare una quarantena dagli esiti incerti – una condizione tuttora in atto dopo settimane – continuavo a pensare a Frida. È assai probabile che quello descritto nel libro di Petitjean sia stato l’ultimo periodo spensierato della vita di Frida, alla vigilia dell’inizio della Seconda guerra mondiale. Nei suoi ultimi anni la Kahlo, prima della morte all’età di quarantasette anni, non visse sotto il segno dell’arte e dell’amore ma della malattia, come Petitjean ci ricorda con discrezione. Nel volume invece ci esaltiamo nel pieno fulgore che solo una persona come Frida e coloro che l’hanno amata erano in grado di elargire.