Abbiamo visto “ Qualcuno da amare “ regia di Abbas Kiarostami.
Il regista iraniano Kiarostami è diventato noto al pubblico negli Anni Novanta con film come “ Close-up “, “ E la vita continua “, “ Sotto gli ulivi “, storie che vivono sulla linea impercettibile tra finzione e documentario, girate con timbro leggero e con uno sguardo attento e prezioso. Cinema fatto anche di Etica, dell’idea del coraggio e l’angoscia di sentirsi spaesati davanti al mondo e alle sue tragedie. Con “ Il sapore della ciliegia “, Palma d’Oro a Cannes nel 1997, e con “ Il vento ci porterà via “, Gran Premio Speciale della Giuria al Festival di Venezia del 1999 Kiarostami ha raggiunto il suo massimo splendore ed è diventato un ‘ divo ‘ internazionale; grazie anche a Godard – sempre molto parco di complimenti nei confronti dei colleghi – che aveva dichiarato “ Il cinema inizia con Griffith e finisce con Abbas Kiastorami “, mentre Martin Scorsese ha detto che Kiarostami rappresenta il livello più alto di un regista cinematografico. Roba da far girare la testa al più robusto degli uomini di Cinema. Poi la repressione in Iran e il divieto della proiezione dei suoi film per dodoci anni lo hanno allontanato dal suo Paese. Ma come capita a volte, i Maestri allontanandosi dalle proprie radici perdono lucidità, forza ed anche sapienza di racconto: ve lo potreste immaginere Fellini che andava a girare una storia in Giappone ? E quando Kiarostami risponde allla domanda: perché sia andato così lontano per fare un film ? dice “ Girare in Giappone è come girare in Iran: che gli attori parlino giapponese o persiano, devono esserci i sottotitoli. E mi piace il sushi ». Da quando non lavora più in Iran ( ha diretto in Iran solo “ Nel ” Buio in sala – Shirin ” e nel buio di una sala centoquattordici attrici iraniane assistono al poema persiano ” Khosrow e Shirin “, del XII° secolo ) ha girato in Italia due film deludenti “ Tickets “ un film in tre episodi firmato con Olmi e Loach e “ Copia conforme “ con la Binoche in Toscana, più un esercizio di stile che un gran film. Adesso a 73 anni si è recato in Giappone per dirigere “ Qualcuno da amare “, riprendendo le sue tematiche storiche su apparenza e realtà, solitudine, non consapevolezza di sé; e dirige un film con un’impostazione dialogica, con voci che dialogano in fuoro campo e l’inquadratura su altro, con tempi dilatati, quasi di stasi riflessiva che può in parte confondere se non annoiare lo spettatore meno attrezzato, e apprezzare meno del dovuto le psicologie ‘ interrotte ‘ dei tre protagonisti che sembrano vivere un equilibrio sopra la solitudine e la follia, naturalmente algida della cultura giapponese. E se un pregio si può riconoscere a questo film è che riesce a raccontare con credibilità i tempi e i valori della cultura del Sol Levante. Mostrare nuda l’ambiguità dei rapporti sociali e affettivi: c’è chi fa la prostituta solo per fuggire dalla realtà, chi usa la rimozione dell’esistente credendo in una storia d’amore che non esiste, chi si chiude al mondo attraverso la solitudine e la scrittura. Tutti personaggi statici e veri che sono in movimento solo nel movimento di in taxi e di un’automobile. Un film che narra la freddezza dei rapporti e la loro alienazione ma che vengono filmati a loro volta con freddezza analitica e quasi in “ campo lungo “ non riuscendo a creare emotività in chi osserva, tantomeno empatia. Lo stesso dolore dei protagonisti è osservato da lontano e non riesce a tradursi in emozione.
Akiko è una giovane studentessa universitaria che usa lo studio come paravento psicologico, si prostituisce da quando è arrivata a Tokio ma non lo fa strettamente per i soldi. Ha un fidanzato geloso che non vuole però veramente sapere di lei, fa il meccanico, la maltratta e la vuole sposare. Dopo una telefonata estenuante con il fidanzato e una conversazione con il suo anonimo e quasi paterno pappone, sale su un taxi e va dal nuovo cliente. Ma prima si fa portare in una piazza dove l’attende sua nonna vestita con gli abiti tradizionali. Ma la ragazza non ha il coraggio di fermarsi a parlare con lei e resta nel taxì. Giunge addormentata da un vecchio professore universitario in pensione che scrive saggi e fa traduzioni. Entrata in casa è sorpresa dai tanti libri e dalla cultura dell’uomo, si scambiano poche battute, rifiuta di cenare e mangiare una zuppa, si infila nel letto e si addormenta nuda. Al vecchio professore non resta che togliere la zuppa e restare da solo a bere del vino. La mattina dopo il professore decide di accompagnarla all’università in auto e poi di aspettarla. Ma all’università c’è il fidanzato geloso che l’aggredisce e poi, confondendo il professore per il nonno della sua ragazza, resta assieme a lui a parlare e ad aspettare Akiko. Il professore forse si sta affezionando alla ragazza mentre il fidanzato respinto vuole sposarla. Sarà una pietra che verrà lanciata nella casa del professore che farà entrare la realtà in una storia fatta di finzione, ipocrisia e di incomprensione. Finale aperto che non ci dirà a cosa è veramente servita quella pietra.
Un film che a noi è sembrato girare a vuoto ( un tentativo sbiadito del Cinema di Antonioni degli Anni Cinquanta ); conflitti, relazioni che non sembrano trovare una reale sbocco, dialoghi che non ci portano da nesuna parte, un po’ asfittici e un po’ privi di senso vero.
La scelta degli attori sembra volere rafforzare la tesi dell’improbabilità, l’anziano professore è veramente un anziano senza alcun fascino e senza apparente forza interiore Tadashi Okuno, comparsa e caratterista del cinema giapponese, Rin Takanashi interpreta Akiko, troppo assonnata e imbronciata per darci tutto il suo malessere. Probabilmente è un film che migliorerebbe se fosse in giapponese con i sottotitoli perché il doppiaggio in questo caso è fastidiosissimo.