«Non accettiamo più i lavori di giornalisti freelance che viaggino in luoghi dove noi non ci avventureremmo […] Se qualcuno si reca in Siria e al ritorno ci offre immagini o informazioni, non le useremo». Per Michèle Léridon, Global News Director dell’agenzia giornalistica France Press, uno dei colossi dell’informazione globale, l’uccisione e il rapimento di giornalisti in Siria e Iraq impongono di «riaffermare alcune regole di base» del giornalismo di guerra. E di ripensare l’equilibrio tra il dovere di informare, la necessità di garantire la sicurezza dei reporter, la preoccupazione per la dignità delle vittime. Affidata al sito della France Press il 17 settembre 2014, la presa di posizione di Léridon suona tardiva e un po’ tartufesca, ma rimane significativa. Perché proviene dall’interno di un’agenzia che per sua stessa natura alimenta la tendenza bulimica del sistema dell’informazione.
Che Léridon parli soprattutto di giornalisti freelance non deve sorprendere. C’è una ragione contingente: James Foley, il reporter statunitense sgozzato il 19 agosto 2014 da un militante dello Stato islamico, era un freelance, collaboratore abituale di France Press. E c’è una ragione strutturale: l’informazione è un settore capitalistico come gli altri, deve produrre profitti, occupare in modo parassitario sempre nuove “terre vergini”, sfruttarle e poi spostarsi altrove, costruire o rilanciare “califfi” sempre nuovi, più barbuti e sanguinari dei precedenti. I freelance soddisfano queste esigenze compulsive. Professionisti specializzati ma duttili, in forte competizione tra loro, flessibili/precari, affrontano quei rischi che i “protetti” non possono o non vogliono più assumersi. Valigia alla mano, mentre gli “inviati” si raccomandano con la segretaria di redazione sull’albergo in cui alloggiare, i freelance sono già sul campo. Nessuno li invia. Sul fronte di guerra, vanno per conto proprio.
È passato molto tempo infatti da quando le guerre erano dominio pressoché esclusivo di pochi inviati, ammirati dai lettori, coccolati dagli editori e spesso contesi a suon di denaro sonante: «Salpo oggi per Yokohama. Parto per Hearst. Avrei potuto andare per l’“Harper” o per il “Collier” oppure per il “New York Herald” – ma Hearst mi ha fatto l’offerta migliore». È il 7 gennaio 1904, Jack London scrive all’amico e poeta Cloudesley Johns. Quell’Hearst a cui si riferisce London – che l’anno precedente aveva pubblicato Il richiamo della foresta e Il popolo degli abissi, inchiesta esemplare nel quartiere operaio londinese di East End – non è altri che William Randolph Hearst, «magnate dell’editoria e della comunicazione americana nei primi anni del Novecento, che avrebbe fornito poi il modello per il megalomane Citizen Kane di Orson Wells», nota Cristiano Spila nell’introduzione a Jack London. Corrispondenze di guerra (Nova Delphi 2013). A ventotto anni Jack London è una firma riconosciuta. Il 7 gennaio 1904, accettando l’offerta del proprietario del “San Francisco Examiner”, si imbarca sul piroscafo ‘Siberia’ alla volta del Giappone, per poi raggiungere la Corea e seguire il conflitto tra Russia e Giappone. Più che per necessità economiche, parte per inseguire quell’intreccio inedito tra azione e scrittura, avventura e narrazione che solo la guerra può offrirgli. Come ricorda Clotilde Bertoni in Letteratura e giornalismo (Carocci 2009), tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento quell’intreccio avrebbe attratto sui fronti di guerra grandi nomi della letteratura, da Stephen Crane a John Steinbeck, da John Dos Passos a George Orwell, da André Malraux fino allo scrittore-reporter per antonomasia, Ernest Hemingway.
Nelle sue corrispondenze, Jack London lo ammette. È stato mosso da suggestioni letterarie e dal desiderio di un contatto con la realtà più incandescente, più vera: la guerra. «Mi ricordavo delle descrizioni di Stephen Crane sotto il fuoco a Cuba», scrive. «Avevo sentito – oddio, cos’è che non ho sentito! – di corrispondenti di ogni livello e condizione proprio nel bel mezzo di battaglie e schermaglie di ogni tipo, dove la vita era intensa e si vivevano momenti immortali». Cerca una vita intensa, momenti immortali e tragicamente esemplari, il conflitto e la violenza, Jack London. Ma rimane deluso: «sono venuto in guerra aspettando di provare fremiti. I miei soli fremiti sono stati quelli di indignazione e irritazione». È l’ammissione di una disillusione. Il crollo dell’ambiguo ideale romantico della “bellezza” della guerra, già demistificato cinquant’anni prima da Tolstoj con le storie poi raccolte ne I racconti di Sebastopoli (Garzanti 2014). Ma è anche un artificio letterario, di cui si sarebbe dimostrato maestro indiscusso proprio Hemingway. Quello di fluttuare tra autocompiacimento e autoironia, di enfatizzare e dissacrare allo stesso tempo la figura del reporter. Che diventa tanto più un “personaggio” credibile e vicino al lettore quanto più revoca la sua posizione di osservatore onnisciente, tanto più coraggioso quanto più ammette limiti, debolezze e passi falsi.
Nella sua prima corrispondenza, inviata il 3 febbraio 1904, Jack London riferisce di essere stato scambiato per una spia. Si trova a Nagasaki, dove aspetta di imbarcarsi per Chemulpo, in Corea. Scatta alcune foto ai facchini per strada. Finisce al comando militare giapponese. «Mi sono ritrovato in una selva di uniformi blu, tra spade e bottoni dorati […] All’inizio fu tutto molto comico – “ottimo”, ho pensato, “passare un po’ di tempo prima di partire col vaporetto”. Quando, però, sono stato portato in una stanza al piano superiore e le ore scorrevano, ho pensato che era una cosa seria».
L’artificio di giocare sul proprio status, di celebrarsi e allo stesso tempo denigrarsi, finirà con l’essere adottato da quasi tutti i corrispondenti di guerra consapevoli, mossi da ambizioni letterarie o dal desiderio di fare “giornalismo intenzionale” (la definizione è del polacco Kapuściński, ne Il cinico non è adatto a questo mestiere, nuova edizione e/o 2011, a cura di Maria Nadotti). Lo dimostra Michael Herr, l’autore di Dispacci (Bur 2008), un libro fondamentale, forse il più onesto, nell’ampia letteratura sulla guerra del Vietnam. «Potrei lasciarvi continuare a credere che eravamo tutti coraggiosi, spiritosi, affascinanti e vagamente tragici, che eravamo come un insuperabile commando di arditi, un formidabile squadrone, il Terribile Chi, amanti del pericolo», scrive Herr. «Potrei usare anch’io questa favola, ne verrebbe senz’altro un film più carino, ma tutto questo discorso su di noi, tanto come soggetti quanto come oggetti, va rivisto e corretto».
A quasi quarant’anni di distanza dalla pubblicazione di Dispacci, con l’emergere delle nuove guerre che coinvolgono i civili più che i soldati, accanto alla categoria dei reporter coraggiosi e arditi si è affermata e consolidata quella degli “empatici”: «Le persone cattive non possono essere dei bravi giornalisti. Se si è una buona persona si può tentare di capire gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi, le loro difficoltà, le loro tragedie. E diventare immediatamente, fin dal primo momento, parte del loro destino. È una qualità che in psicologia viene chiamata “empatia”», scrive Kapuściński.
Ma l’ingresso sulla scena degli empatici non ha cambiato le cose. L’invito di Michael Herr a rinunciare alla “favola” del reporter di guerra, chiarendone e correggendone compiti, strumenti e obiettivi è rimasto inevaso. Tranne rare eccezioni – quella di Kapuściński appunto – vecchi cinici coraggiosi e nuovi empatici sono spesso due espressioni della stessa, vecchia patologia del giornalismo di guerra: il feticismo del conflitto. L’idea che la violenza – la violenza fisica, non quella storica, politica, economica, sociale, ideologica, culturale – sia l’unica lente per raccontare un paese in guerra. I cinici e coraggiosi ne sono attratti: pasteggiano parlando di sangue incrostato e tibie umane morsicate da cani randagi, osservano con perizia da chirurghi braccia amputate e gambe saltate per aria. Gli empatici la denunciano: per loro le vittime di guerra non sono numeri, ma persone. Nome, cognome, età, relazioni famigliari, vicende passate e sogni futuri interrotti. Spetta a loro, ricostruire la storia di una vita, restituirgli dignità, conferirgli quell’integrità che la violenza insensata della guerra ha spezzato.
Per i cinici la violenza è un elemento inevitabile del mondo, per gli empatici una rottura dell’ordine naturale delle cose che può essere esorcizzata con la narrazione. Per entrambi, si dimostra un limite, una forma di miopia. Perché finiscono per vedere solo la violenza. Dimenticando che la guerra è storia e politica sedimentate. E scordando di interrogarsi sul voyeurismo predatorio di ogni forma di giornalismo, sul proprio ruolo, sulle proprie responsabilità. Michael Herr solleva interrogativi ancora urgenti e attuali, quando racconta le ragioni che lo condussero in Vietnam: «Ci andai con la convinzione, grossolana ma seria, che si deve essere capaci di guardare qualsiasi cosa, seria perché agii di conseguenza e partii, grossolana perché non sapevo, ci volle la guerra per insegnarmelo, che eri responsabile di tutto ciò che vedevi come di tutto ciò che facevi».
Anche per Oliviero Bergamini, autore di Specchi di guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi (Laterza 2009), il giornalista che ha inaugurato la storia dei corrispondenti di guerra è William H. Russell, inviato nel 1854 dal “Times” al seguito del corpo di spedizione inglese nella guerra di Crimea contro la Russia. La vita di Russell – nato a Dublino nel 1820, amico degli scrittori Charles Dickens e William Makepeace Thackeray – è stata raccontata da Alan Hankinson in Man of Wars: William Howard Russell of the Times of London (Heineman 1982), mentre le sue corrispondenze sono state raccolte da Nicholas Bentley in Russell’s Despatches from the Crimea 1854-1856 (Panther 1966).
Sulla storia del giornalismo di guerra, rimane utile I reporter di guerra: storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet, di Mimmo Candito (Baldini e Castoldi 2002). Alle domande fondamentali – “A cosa servono i corrispondenti di guerra? Cosa ci si aspetta da loro? Chi crede ancora in loro?” – cerca di rispondere invece Phillip Knightley nell’ormai classico The First Casualty: The War Correspondent as Hero and Myth-Maker from the Crimea to Iraq (versione aggiornata, Johns Hopkins University Press 2004).
Oltre agli studi storici e critici, è ampia la pubblicistica di giornalisti e scrittori su conflitti specifici. Sulla guerra in Vietnam, si può leggere Reporting Vietnam. American Journalism (due volumi, 1959/1969 e 1969/1975, a cura di Milton J. Bates, The Library of America 1998), l’ottimo Fire in the Lake. The Vietnamese and the Americans in Vietnam, della giornalista Frances Fitzgerald (Back Bay 1972), e il dossier su “Literature and the Vietnam War” apparso nell’estate del 2010 per la rivista “Dissent”.
Ci sono libri utili per comprendere anche i conflitti più recenti: sulla “guerra al terrorismo”, è fondamentale Le altissime torri. Come al-Qaeda giunse all’11 settembre, di Lawrence Wright (Adelphi 2007), insieme ad American Ground, di William Langewiesche (Adelphi 2003), autore che si è occupato della guerra irachena in Regole d’ingaggio (Adelphi 2007) e di nuovi e vecchi strumenti di guerra in Esecuzioni a distanza (Adelphi 2011). Finora, il testo più ambizioso e completo sul conflitto in Afghanistan è quello di Anand Gopal, No Good Men Among the Living: America, the Taliban and the War through Afghan Eyes (Metropolitan Books 2014), mentre tra i giornalisti “embedded” si distingue Sebastian Junger, autore di War (Sperling & Kupfer 2011).
Sul conflitto in corso in Siria, sono disponibili due libri recenti di giornaliste italiane, La guerra dentro, di Francesca Borri (Bompiani) e Come vuoi morire? Rapita nella Siria in guerra, di Susan Dabbous (Castelvecchi), scritti con onestà e impegno ma entrambi troppo schiacciati sull’attualità. Per recuperare il senso della guerra come combinazione di storia e politica, c’è Robert Fisk e il suo Cronache mediorientali. Il grande inviato di guerra inglese racconta cent’anni di invasioni, tragedie e tradimenti (Il Saggiatore, nuova edizione 2009).