A metà del libro, Parisian Lives: Samuel Beckett, Simone de Beauvoir and Me, A memoir (Atlantic Books, 2020) la biografa statunitense, Deirdre Bair, confessa il suo crimine. Per anni ha provato a mettere le mani sulle lettere che Samuel Beckett inviava a Thomas MacGreevy sicura di trovarci il bandolo della matassa, il motivo che aveva allontanato il drammaturgo irlandese dalla sua terra natia per condurlo in Francia. Con riluttanza, i nipoti di MacGreevy le permisero di leggere le lettere sotto rigide condizioni. In quella domenica invernale, non appena si sedette di fronte alla macchina da scrivere in casa loro, mentre udiva la famiglia del poeta pranzare nella stanza accanto, Bair sapeva di dover correre contro il tempo: le poche ore concessegli dalle sorelle, non le sarebbero mai bastate per trascrivere tutta la corrispondenza di cui necessitava. “Quel pomeriggio ho fatto l’unica scelta disonesta di tutta la mia carriera” ammette Bair. Con nonchalance, l’americana si infilò una piccola selezione di lettere nella borsetta per portarsele nella stanza d’hotel in cui alloggiava.
“Mentre lavora, il biografo”, scrive Janet Malcolm, “è come un ladro professionista: irrompe in una casa, fruga nei cassetti in cui crede ci possano essere soldi e preziosi, per poi allontanarsi trionfante con la refurtiva”. Il suo libro, The Silent Woman: Sylvia Plath & Ted Hughes (riedito da Granta nel 2020) accusa i lettori di biografie di essere colpevoli di “voyerismo e indiscrezione” almeno quanto gli autori stessi: entrambi, e insieme, sgattaiolano in punta di piedi lungo il corridoio per spiare dal buco della serratura. Infatti, le sostanziose borse di studio in letteratura biografica non sono altro che una fulgida patina di rispettabilità, che scontorna la curiosità più morbosa.
Il giorno successivo, Deidre Bair reinserì le lettere di MacGreevy nella collezione senza alcun segno di usura. Tuttavia, la sua ammissione è rivelatoria, poiché ci mostra come – da esperta reporter quale era – fosse pronta a tutto pur di scovare lo scoop. E uno scoop ha avuto. Quando, nel 1978, Samuel Beckett: A Biography vene pubblicato [in Italia è tradotto per Garzanti nel 1990, ndr], suscitò clamore e mandò in confusione molti accademici in doppiopetto. Gli studenti di Beckett si accalcarono per scrivere recensioni irrisorie che ne evidenziassero imprecisioni e lacune. Ciononostante, per quanto alcune di quelle critiche fossero lecite, il vero peccato di Deirdre Bair fu quello di essere una sconosciuta, e donna per giunta, che aveva scritto il libro su Beckett, che né professori né accademici avrebbe mai osato scrivere.
Nel 1970 Deirdre Bair aveva scelto di intrecciare la propria vita a quella di Beckett con la stessa leggerezza con cui avrebbe scelto cosa mangiare dal menu di un ristorante. Aveva passato i precedenti dieci anni a lavorare come reporter, mentre aiutava il marito a concludere un corso postlaurea e cresceva i loro due figli. Quando ebbe la possibilità di frequentare un corso annuale di letteratura presso la Columbia University, colse la palla al balzo, pensando che l’avrebbe aiutata nella sua carriera da giornalista. Scelse Beckett come oggetto di tesi solamente perché il suo nome era in cima all’ordinata lista di scrittori organizzata per ordine alfabetico, che lei stessa aveva stilato per l’occasione. Il suo tutor la ammonì: se avesse scelto di scrivere della vita di Beckett, come stava pianificando, non avrebbe mai ottenuto né un PhD, né un incarico accademico. “Non avrai una borsa di studio: è solo una biografia,” le disse.
Ma Bair “riconobbe il brivido che si prova quando si trova la storia giusta” e decise di contattare Beckett stesso per chiedergli il permesso di scrivere la sua biografia. “Noiosa e priva di interessi” le rispose una settimana più tardi riferendosi alla propria vita; “vi sono professori che ne sanno più di me” aggiunse poi. Infine, scarabocchiata, quasi l’avesse pensata in un secondo momento, una straordinaria frase senza alcun segno di cesura: “qualsiasi informazione biografica in mio possesso è a tua disposizione se verrai a Parigi ti incontrerò”.
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Deirdre sarebbe partita per Parigi nel novembre del ’71 e le prospettive non potevano essere più rosee: un cospicuo rimborso spese per il viaggio, un operoso agente letterario e la possibilità di convincere un editore. Ma tutto ciò non durò a lungo, ovviamente. Un amico newyorchese di Beckett, lo scrittore John Kobler, le rifilò due enormi bottiglie di whiskey Bushmill per il collega irlandese. Solo più tardi scoprì che a Beckett nemmeno piaceva il Bushmill, e che quindi aveva faticato invano per farle entrare nella valigia. Tuttavia, lo sgradito regalo era solo il presagio dei fraintendimenti e dei rischi nei quali Deirdre si sarebbe invischiata e che l’avrebbero inghiottita per i successivi sette anni.
“Non ti aiuterò – e non ti sarò d’intralcio”, le disse Becket al loro primo incontro. “La mia famiglia e i miei amici ti assisteranno; i miei nemici ti troveranno presto”. Bair, però, non si aspettava che amici e nemici di Beckett fossero tanto difficili da distinguere fra loro e, che nei sette anni occorsi per fare le opportune ricerche e ultimare il libro, il suo soggetto sarebbe stato fino a quel punto elusivo. Nonostante l’impareggiabile disponibilità che lo scrittore dimostrava, nel presentarle il suo cerchio di frequentazioni, e nel lasciarla libera di chiedere qualunque cosa volesse; Beckett spesso spariva da Parigi in modo alquanto misterioso, senza lasciare alcun recapito, durante le settimane in cui lei lo raggiungeva dall’America per proseguire il lavoro. Quando invece si palesava, Beckett imponeva rigide regole. Niente registrazioni, niente appunti. Bair doveva scriversi le domande in anticipo, memorizzarle attentamente e, dopo averlo incontrato, precipitarsi nella sua stanza d’albergo per buttare giù qualche disordinato appunto. “Quando intuiva ch’io stessi per scoprire qualcosa, s’irrigidiva”, rammenta Bair, “si arrovellava nei propri discorsi; li riempiva di commenti personali e si mostrava sprezzante”.
Deirdre sospettava che Beckett non la prendesse seriamente. Un giorno, divertito dalla situazione, con Leventhal – un amico dello scrittore – le rivelò di una volta in cui Beckett si era riferito a lei come “la donna dai capelli rigati” alludendo alle mèches che Deirdre si faceva dal parrucchiere. Le ricordò dell’ordinario sessismo di cui era vittima nei suoi giorni in redazione, quando si supponeva che una “ragazza reporter” dovesse scrivere di “cucina, vestiti, club di bridge e circoli sociali” piuttosto che di cronaca vera. Ma Bair non si era arresa allora e non si sarebbe certo arresa nemmeno in questa nuova fase della sua carriera. La sua determinazione venne ripagata. “La mia parola è la mia promessa”, le disse e lei gli credette. Bair aveva il sospetto che anche Beckett fosse curioso di vedere come lo avrebbe dipinto mentre era ancora vivo.
Le esperienze con la maggior parte degli amici di Beckett furono tutt’altro che felici. Bair si sorbì tutte le “derisorie maldicenze” che venivano fuori quando litigavano su chi appartenesse o meno al circolino degli eletti. Dovette comprare una marea di scotch a George Reavey a New York, in cambio di briciole biografiche sullo scrittore (“un incubo che andò avanti durante i sette anni di scrittura del libro”). In quasi ogni pagina di Parisian Lives, si può trovare una vena di ripicca o una traccia del rancore a lungo serbato da parte dell’autrice. “Ero l’unica in grado di riconoscere i ritratti che faceva di certi personaggi noti a Dublino”, scrisse di quando leggeva l’opera di Beckett, ma le memorie dei suoi soggiorni a Dublino per cercare la verità non erano affatto piacevoli. “Ho passato serate interminabili seduta sullo sgabello di un pub nel tentativo di tenermi alla larga da innumerevoli poeti, attori, sceneggiatori, giornalisti o professori irlandesi e ubriachi”. È un peccato che la generosità e la gentilezza di Seamus e Marie Heaney, e di altri che ne mostrarono nei suoi confronti, venga fuori solo lateralmente.
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Parisian Lives arde nella irreprensibile ira di Bair nei confronti dei comportamenti sessisti che l’hanno perseguitata mentre seguiva Beckett e negli anni successivi. Alla pubblicazione del libro nel 1978, la frustrazione provata dai critici statunitensi, nei confronti di una scrittrice in grado di affrontare un soggetto letterario così importante, venne fuori. Richard Elmann, sulla The New York Review of Books, si chiese come Beckett avesse potuto permettere a una totale sconosciuta di scrivere della sua vita. “La domanda è interessante quanto qualsiasi altro tema proposto nel libro, e la sua risposta non è difficile da intuire”. Le sue insinuazioni non erano più complesse di quelle articolate dal giornalista che chiese a Bair: “Quante volte è dovuta andare a letto con Beckett per avere questo scoop?”. I recensori britannici furono più corretti e alternarono elogi per il lavoro di Deirdre a critiche legittime sulla biografia. Inaspettatamente, Bair non menziona alcun critico irlandese, se non Brian Fallon, che nel The Irish Times scrisse in occasione della ristampa del ’81: “Le parti migliori sono probabilmente quelle che parlano della vita di Beckett in Francia, del suo impegno nella Resistenza (per il quale venne decorato) e quelle che descrivono le circostanze in cui è riuscito a scrivere e produrre Aspettando Godot, mettendo fine a decenni di ombre e difficoltà. Le conoscenze di Ms. Bair in merito alla letteratura irlandese degli anni ’30 e ’40 sono molto meno interessanti e costellate di seccanti scivoloni e abbagli. Per esempio, viene citata un’opera di Sean O’Casey chiamata I Sogni di Padre Ned, mentre il nome di battesimo di Con’ Cremin diventa Constantine invece di Cornelius; viene citato il fantomatico bando su Joyce in Irlanda etc.”.
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Aver scritto della vita di Beckett, prima e dopo la pubblicazione, è stato sfibrante per Deirdre Bair, ma fra i lividi e le ferite di battaglia, la biografa ricorda alcuni momenti edificanti. Dopo sette anni di duro lavoro, appena prima della messa in stampa del libro, le venne comunicato che doveva ottenere il benestare di Beckett per ogni singola citazione da lettere personali e manoscritti inediti. Esausta, gli scrisse per spiegare la situazione, e chiese a Beckett di apporre le proprie iniziali accanto a ogni citazione che avrebbe voluto inserire nel libro; si trattava di ventitré pagine di citazioni. Una settimana dopo giunse la risposta dell’irlandese. Aveva firmato ogni citazione eccetto una: il poema che aveva scritto da scolaro della Portora Royal School a dodici anni: “mostra meglio la tua diligenza nella ricerca, che la mia evoluzione come scrittore” le spiegò con sagacia. Dopo tutti gli ostacoli superati e le ostilità incontrate in quegli anni, capire che Beckett era davvero un uomo di parola, commosse profondamente Bair. “Nella mia carriera ho incontrato molte persone di parola”, scrive, “ma nessuno ha mai pareggiato l’integrità mostrata da Samuel Beckett. Per lui la parola era veramente una promessa”.
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Il successo di Samuel Beckett: A Biography fu la ricompensa di Bair. I lettori si ammassarono nelle librerie per averne una copia, le venne conferito il National Book Award nel ’81. Un editore le offrì un contratto per scrivere di chiunque avesse voluto, convinto che Deirdre potesse “tener testa a qualsiasi irlandese, compresa Virginia Woolf”. Lei giurò di aver chiuso con le biografie, ma poco dopo tornò sui suoi passi. Nel 1986 pubblicò Simone de Beauvoir: A Biography, e da allora ha scritto una mezza dozzina di altre biografie; tutte accolte ottimamente dalla critica. Carl Jung, Anaïs Nin, Saul Steinberg e Al Capone furono i suoi soggetti e anche la sua carriera accademica decollò. Tuttavia, come ci racconta nell’introduzione di Parisian Lives, dopo così tanti libri e così tanti anni, tutto ciò che interessava al pubblico erano comunque i due scrittori “di Parigi”, Beckett e de Beauvoir, che cordialmente si detestavano. Ovunque andasse e di chiunque Bair parlasse, tutti le chiedevano di loro due e sempre con la stessa domanda. “Ma com’erano veramente?”.
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Così, a quasi cinquant’anni dalla prima volta in cui guardato nei celesti “occhi da gabbiano” di Beckett nella hall di quell’hotel parigino, Deidre Bair ha risposto alla domanda che tiene svegli i ficcanaso, mettendosi al centro della scena. Nell’introduzione di Parisian Lives descrive il libro come “un curioso ibrido: si tratta di bio-memorie”, in cui parla di sé stessa come una biografa quando incontra Beckett e de Beauvoir. La sua vita è proiettata attraverso il prisma dei suoi soggetti più noti ed è quindi particolarmente significativa la sua morte – occorsa nel 2020, all’età di 84 anni – a stretto giro dalla nomina al Premio Pulitzer di questo suo ultimo libro. Parisian Lives, non doveva essere la sua ultima opera; infatti, Deirdre Bair stava già lavorando su un altro progetto, una biografia di T.S. Eliot, quando è deceduta. Tuttavia, così, questo libro chiude nel modo più preciso il ciclo della sua relazione “a vita” con Beckett e de Beauvoir, descrivendo il suo modo scomodo e trasgressivo di inseguire le vite degli altri.
In fin dei conti, Parisian Lives non parla di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato nella biografia, né vuole raccontare i crimini che si commettono nel nome di questo genere. Il vero soggetto è il prezzo che una donna ha dovuto pagare per avere successo nella vita professionale che si è scelta. Dopo le tante avversità incontrate nello scrivere di Samuel Beckett, Bair riporta le parole dell’artista franco-americana, Louise Bourgeois, che le hanno dato il coraggio per continuare a scrivere biografie: “Nell’arte, non c’è posto per una donna, fino a quando non avrà provato e riprovato che non si lascerà spazzare via”.
Ann Kennedy Smith
*L’articolo è stato pubblicato in origine su “Dublin Review of Books” come “The Hard Life”; la traduzione è di Giacomo Zamagni