«Quando, ogni lunedì mattina e ogni venerdì pomeriggio, ci mettono in riga come soldati, mi rifiuto di cantare l’inno nazionale piegando ostentatamente le ginocchia. Stringo le labbra mentre i miei compagni cantano a squarciagola: “Che la mia esistenza sia dedita alla nazione. Felice chi si dice turco!”. Rifiuto tutto ciò che mi ricorda l’uniforme. Sono i militari ad aver arrestato mio padre. Ed è lo Stato che ha sbattuto in prigione tutti quelli che amavo», scrive Pinar Selek nel memoir La maschera della verità (Fandango libri, 96 pagine, 13.50 euro), che irride la negazione del genocidio armeno.
Come si può raccontare che si è soli al mondo? Selek, sociologa e scrittrice, ha sempre vissuto difendendo mediante lo studio e la scrittura la ricchezza transculturale delle minoranze in Turchia: «Io, anche solo a sentire la parola “armeno”, ho paura. Per fortuna non esistono. Se esistessero ci divorerebbero tutti, stando al nostro professore di storia. Sarebbero tutti terroristi, e avrebbero sicuramente minacciato l’unità del paese. E ora farebbero di tutto per istigare i turchi mettendoli gli uni contro gli altri sostenendo che un genocidio c’è stato».
All’età di 9 anni il colpo di stato del 12 settembre 1980 le ha sottratto il padre, arrestato insieme a centinaia di migliaia di oppositori, che trascorse cinque anni in carcere. Nell’ambito delle sue ricerche sulla questione curda le è toccata la stessa sorte, poiché Selek realizzò alla fine degli anni Novanta una sessantina di interviste in Kurdistan, Francia e Germania. L’11 luglio 1998 è arrestata dalla polizia a Istanbul, accusata di complicità col PKK, e dopo il sequestro del materiale attinente alla ricerca, torturata affinché confessasse i nomi dei propri contatti. Mantenne, tutelò la segretezza delle fonti, e nella prigione Ümraniye venne a sapere dalla televisione dell’accusa di essere associata all’attentato terroristico dello Spice Bazaar, avvenuto un mese e mezzo prima. Il processo non è chiuso, malgrado le tre assoluzioni pronunciate. Selek è costretta di vivere in esilio dal 2009, ora in Francia.
Negli ultimi mesi è stata in prima fila nel chiedere la liberazione dell’amica scrittrice Asli Erdoğan, alla quale è stato ritirato fisicamente il passaporto, che a sua volta si era esposta pubblicamente per Selek. La prossima udienza del processo che vede imputata Erdoğan, insieme ad altre dieci persone, si terrà il 14 marzo. Uscita dal penitenziario femminile di Bakirköy, a Istanbul, dove era reclusa dallo scorso agosto, beneficia dal 29 dicembre del regime di libertà provvisoria.
«Nella mia vita ora c’è una grossa macchia nera e l’unico modo per affrontarla è la scrittura – dice Asli Erdoğan, intervenuta via Skype all’anteprima milanese di Tempo di libri –. Viviamo in un momento in cui bisogna chiedersi cosa significhino le parole reato, diritto, colpa, condanna, libertà, innocenza; tutte parole che in Turchia sono rimesse in discussione. Mi hanno pesato moltissimo l’incriminazione e la carcerazione del tutto ingiuste e infondate, fuori dal diritto, legate a una mia manifestazione di solidarietà e a motivi politici».
Erdoğan non crede che la nuova udienza sarà l’epilogo della vicenda giudiziaria. Dei capi d’imputazione contestati permane quello di propaganda terroristica. È sostanzialmente accusata per aver espresso la propria solidarietà al giornale filo-curdo Özgür Gündem, col quale in passato ha collaborato la stessa Selek.
Nel mese di marzo a Milano nella grande area verde del Monte Stella, dove è situato il giardino dei Giusti di tutto il mondo, verrà piantato un albero col nome di Selek. Nel giardino ogni anno vengono piantati nuovi alberi per onorare gli uomini e le donne che hanno aiutato le vittime delle persecuzioni, difeso i diritti umani ovunque fossero calpestati, testimoniato contro i tentativi di negare i crimini perpetrati.
Selek, è possibile comparare la sua complessa vicenda giudiziaria con quella che coinvolge Erdoğan?
«Non è la stessa cosa, ma ci sono dei punti in comune senza dubbi. Vogliono punire gli intellettuali che si impegnano nella dimensione pubblica, civile. Le punizioni sono varie e non riservate solamente alle personalità più esposte come me e Asli. Il processo penale a mio carico viene reiterato di assoluzione in assoluzione da 18 anni, ed è divenuto un caso internazionale solo dopo che ho lasciato la Turchia. Prima ero una delle tante e dei tanti perseguiti per la libera manifestazione del proprio pensiero. I libri di Asli sono tradotti in francese e italiano, dunque la si legge e conosce. Moltissime persone come noi sono in prigione, torturate o uccise e fuori dal paese nessuno sa il loro nome. In fondo siamo due piccoli punti noti in quadro repressivo purtroppo vasto».
In che modo il processo è stato protratto per diciotto anni?
«La mia esperienza è stata un po’ particolare e ancora non è finita, si protrae da tanto tempo. Il processo è difficile perché sono stata accusata di aver compiuto un attentato, sbattuta con questa incriminazione infamante in prima pagina dalla stampa. Dopo l’arresto mi hanno torturata, ho trascorso due anni e mezzo in prigione senza che la pubblica autorità ammettesse che era a causa del mio lavoro accademico, universitario di ricercatrice, ma adducevano altre ragioni in tutta evidenza fittizie. Il processo può andare così a lungo, perché perdura e si riproduce la medesima struttura di potere che lo anima. Risulto sempre assolta, tuttavia la necessità è di non archiviare il caso. Quando diventi veramente un simbolo come me, non lo possono permettere. L’essere conosciuta a livello mediatico ti protegge e al contempo assumi tuo malgrado il ruolo dell’icona, che influisce in modo negativo ai fini della risoluzione».
Lei scriveva per il giornale Özgür Gündem, perché quelle pagine, le cronache sono così temute?
«È un giornale che fornisce notizie sulla situazione dei curdi. Non bisogna mai dimenticare che la Turchia è in guerra, e su entrambe i fronti quotidianamente ci sono dei morti. È un contesto di violenza assoluta e fino a quando non c’è la pace con la volontà bilaterale di risoluzione del conflitto, questa repressione straordinaria appare normale in un contesto bellico. Senza la discussione, la circolazione delle idee non c’è alcuna possibilità di stabilità e convivenza pacifica. Fino a qualche anno fa coltivavamo questa speranza in Turchia, perché con la violenza nulla si risolve. Ora il paese sta sprofondando in una spirale mediorientale e non solo per i curdi, per i siriani e poi gli iracheni. In questo momento non sussistono le condizioni per poter affrontare nel dibattito pubblico la questione curda».
Che cosa ricorda del giorno nel quale l’arrestarono?
«È stato l’inizio di un incubo e della resistenza. Ciò che non dimenticherò mai è la tortura, colpa delle scariche elettriche che mi hanno inflitto. Appena arrestata hanno perpetrato queste pratiche insieme alle botte, in assenza della mia volontà di delazione delle fonti intervistate per le mie ricerche e pubblicazioni. Hanno atteso non più di mezz’ora prima di torturarmi a livello fisico e psicologico. Resistenza perché non immaginavo giungessero a quel punto. Credevo potessero imprigionarmi a lungo. In Turchia, dopo la mia infanzia, tutti i principali sociologi, scrittori coscienti hanno provato la solitudine del carcere. Mio padre vi ha trascorso cinque anni. Non ritenevo di poter essere mai etichettata come una terrorista e di subire quel tipo di violenza».
L’esilio è l’unica cura efficace contro l’oppressione?
«Non penso, dipende dalle esperienze individuali. Non c’è una ricetta unica, ciascuno può decidere solo insieme alla propria coscienza. Se si cercava la giustizia in Turchia, bisognava esiliarsi, o rassegnarsi alla prigione, o ancora morire. Io non sono voluta fuggire. Ho resistito a lungo fino al 2009 pur di non lasciare la Turchia, dopo essere uscita dalla prigione nel 2002. In questo periodo ho lottato insieme a Hrant Dink, agli altri militanti, affermando che occorreva restare in Turchia. Tuttavia davanti al rischio dell’ergastolo ho maturato l’idea di partire. Non credo alle frontiere, sono immaginarie, non credo al concetto di Stato-nazione. Sono femminista, antimilitarista, libertaria e sento di appartenere a movimenti transnazionali: le lotte sono universali».
Nel libro La maschera della verità ricorda come il suo professore di lettere a scuola affermasse che le parole terrorista e armeno avessero una radice comune. È cambiato qualcosa?
«Terrorista è chi utilizza la violenza per terrorizzare l’altro e incutere la paura allo scopo di imporre le proprie idee e politiche. Anche gli Stati lo fanno. Spesso si fa un uso improprio di questa parola per squalificare dal dibattito pubblico chi contesta senza commettere delitti. Il pericolo più grave che corriamo è la legittimazione della violenza da una parte e dall’altra del fronte».
Lo Stato turco potrebbe sopravvivere al riconoscimento dei drammi e violenze del passato novecentesco?
«Il riconoscimento dei crimini commessi nel passato non ha indebolito la Germania. Al contrario dà la forza per l’avvenire. I potenti necessitano del negazionismo quanto della paura per dominare. Hanno paura della giustizia e dei suoi riflessi sul potere. Il negazionismo è decisivo per comprendere la continuità del sistema repressivo, della struttura politica repressiva in Turchia. Niente di nuovo, tutti immaginano che sia cominciato ora con Recep Tayyip Erdoğan e con le sue mire neoimperiali. Sono stata torturata diciotto anni fa e in precedenza la stessa sorte è toccata a mio padre. Bisogna capire la continuità del nazionalismo turco, la struttura nazionalista dello Stato, basandosi sul genocidio degli armeni rimosso e poi sul massacro dei curdi, sull’esclusione dei greci. Ripeto il genocidio è fondamentale per interpretare l’odierna struttura politica».
La dimensione multiculturale negata della società turca è stata distrutta senza ritorno?
«Ritengo sia già distrutta e non si possa tornare indietro, tuttavia si può creare qualcosa di nuovo, nuove ricomposizioni, il passato però non torna».
Il movimento femminista turco ha toccato già tre secoli. Qual è la condizione attuale?
«È una storia lunga, ma in realtà il movimento femminista è emerso con forza in Turchia negli anni Ottanta. Ai tempi dell’Impero Ottomano esisteva un movimento profemminista soprattutto armeno e greco, che ha perso di consistenza e peso politico dopo il genocidio. Con il Kemalismo alle donne non è stato permesso di organizzarsi, esclusa la possibilità di creazione di formazioni politiche autonome in favore di una sorta di femminismo di Stato, un’eguaglianza formale che nulla aveva a che fare con la libertà. Molte donne si dichiaravano già salve, emancipate. Il movimento femminista ha dovuto lottare contro il nazionalismo, il militarismo per dire che il femminismo era un’altra storia, che includeva tutti i rapporti sociali, la sessualità. Il movimento è emerso battendosi contro le distorsioni proprie del nazionalismo. La questione chiave è che il movimento con le sue critiche ha aperto in Turchia la strada ad altri movimenti sociali, prendendo il posto della sinistra rivoluzionaria degli anni Ottanta. Ora c’è una regressione forte, ma il movimento è diffuso, impiantato ovunque e ha sviluppato un adattamento tattico, talvolta invisibile, che definirei un radicalismo pragmatico. Sono certa che resisteremo».
La sua famiglia ha sognato il cambiamento, pagando un prezzo alto. Crede ancora alla parola rivoluzione?
«Nel mio romanzo, già tradotto in tedesco e francese che probabilmente verrà pubblicato in Italia, parlo di una mezza speranza che rende più attivi e cito sempre Gramsci: “Bisogna unire il pessimismo dell’intelligenza all’ottimismo della volontà”».