A questa domanda Lazar Stojanovic (1944-2017) avrebbe senza dubbio ribattuto con un’altra domanda: “Ma c’è vita prima della morte?” Per lui la parola non era solo uno strumento di comunicazione a cui ci si doveva accostare con la dovuta attenzione e cura, ma un continuo terreno di esercizio per giocare, discutere, ricercare e superare i rigidi confini della vita quotidiana. Il suo modo sostanziale di affrontare la vita era fatto di movimento, di sperimentazione, di corsa senza mai stancarsi, in difesa della dignità e dei diritti di coloro che vogliono insistere nella ricerca, nel tentativo di raggiungere almeno “qualcosa” se non “tutto”, per uscire dall’immobilismo di una palude stagnante. Era un attivista contro la guerra e la follia, eterno oppositore dell’autoritarismo e del totalitarismo. Un pacifista disposto a rischiare, spesso vittima della repressione politica, difensore della libertà di parola e un artista nel senso più ampio della parola. Di se stesso una volta disse: “Sono per la libertà e per i diritti umani e, se vi va, sono uno di quegli anarchici che crede nel primato della libertà degli individui e non di una razza, di una classe o dell’umanità… La libertà della persona è un valore che, qualche che ne sia il prezzo, va sempre difesa: soprattutto perché la sua perdita distrugge irreparabilmente tutte le altre cose che contano”.
Il suo impegno si divideva tra cinema, teatro, critica, giornalismo, insegnamento, traduzioni e cura di pubblicazioni. Era uno dei più importanti intellettuali iugoslavi e serbi, cofondatore del settimanale belgradese “Vreme” (Tempi). Era un uomo di forte integrità etica e, come disse un suo amico, “senza discussioni un gentiluomo di una inflessibile dirittura morale, che, senza essere invadente, era chiaramente visibile.”
Alla fine degli anni sessanta Lazar fu l’aiuto-regista di Sasa Petrovic nei film “Ho incontrato anche zingari felici” e “Piove sul mio villaggio”. Il suo incontro con la repressione cominciò quand’era studente e redattore della rivista “Vidici” (Vista), che fu più volte censurata. Ma sarà ricordato, anche da chi non l’ha conosciuto di persona, soprattutto per il film “Plasticni Isus” (Gesù di plastica), realizzato nel 1971 come tesi di laurea dell’Accademia di Cinema di Belgrado, in collaborazione con Tomislav Gotovac di Zagabria. Il film presentava una chiarissima critica al culto della personalità e della propaganda bellica, e sosteneva la libertà di espressione in una situazione dominata da un potere autoritario. Fu immediatamente bollato come sovversivo, Lazar fu allontanato dal servizio militare (all’epoca obbligatorio) per scontare una condanna a tre anni di carcere. Quello fu l’unico film nella storia della Iugoslavia il cui regista subì una condanna al carcere. Molti anni dopo la pellicola fu tirata fuori dal bunker e presentata con questo avvertimento: “Plasticni Isus fu filmato nen 1971, arrestato nel 1972, incarcerato nel 1973 e rilasciato nel 1990.” Il film fu proiettato prima a Belgrado e a Zagabria, poi al festival di Montreal e in molte altre città in tutto il mondo. Nell’aprile 2016 fu presentato al MoMa di New York.
Lazar Stojanovic (1944-2017)
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Oltre a opere teatrali, Lazar Stojanovic realizzo numerosi documentari “Zdrav podmladak” (Prole sana), due film sull’eminente intellettuale iugoslavo Vane Ivanovic, “Priblizno Srbi” (Intorno ai Serbi), e poi tre documentari sui criminali di guerra, i capi serbo-bosniaci Ratko Mladic e Radovan Karadzic – “Uspon i pad generala Mladic» (Ascesa e caduta del generale Mladic) e «Zivot i prikljucenije generala Karadzic» (La vita e le avventure del generale Karadzic). Seguiti dal documentario “Škorpioni”. Questa opera fu dedicata all’omonima unità paramilitare serba, nel quale inserì filmati d’archivio sull’assassinio di sei mussulmani nel pressi di Trnovo, in Bosnia. Malgrado la complicazioni e i frequenti disagi che accompagnano qualsiasi oppositore di ogni sistema politico, Lazar amava le emozioni dell’azione e dell’impegno sociale. Ma era non meno disposto ad affrontare altre forme di vita. Era disponibile ad affrontare ogni diversità e novità ancora ignota per lui. Non si occupava esclusivamente di lavoro culturale. Una volta uscito dal carcere, privato del passaporto (che gli fu restituito solo nel 1977), non diventò assistente della sua Accademia, ma imbianchino a Belgrado. Quando gli fu nuovamente permesso di viaggiare, si trasferì in Inghilterra e lavorò in un bar di Hammersmith, Dopo di che viaggiò in Oriente. Nel 1978-79 si guadagnò da vivere vendendo pietre preziose in India e in Indocina, prese casa a Ceylon e nel Tibet. Poi negli Stati Uniti lavorò come agente immobiliare. Tra un viaggio e l’altro fece sempre ritorno a Belgrado, lavorando per qualche tempo nel Kossovo e continuando a esprimere le proprie opinioni senza remore e irritando i potenti, dovunque fossero al momento.
Ma di tanto in tanto fu preso dalla stanchezza. Alla fine del secolo scorso scrisse su “Republika” (una rivista di opposizione belgradese): “I dissidenti, che sono ancora un buon numero, possiedono ancora risorse morali e qualche energia. Può forse succedere, soprattutto se ci sarà una sfida di massa all’attuale regime, che alcuni dissidenti decidano di tradurre i sogni della loro giovinezza in una nuova missione politica. Solo che i cambiamenti sono minimi, si coprono di ruggine e le regole del gioco sono parecchio cambiate.” Sulla stessa rivista gli rispondevo: “Le probabilità erano sempre minime, la qualità del campo è sempre la stessa e le regole del gioco non sono tanto diverse. Se anche lo fossero, che cosa conterebbe? In ogni caso, io sono convinta che i dissidenti abbiano ancora ‘un po’ di energia’. Quelli con trascorsi meno pesanti di sicuro ne hanno di più. La questione è se vogliono investire quelle energie per realizzare disegni incompleti. Perché se non si fa questo, che altro resta?” In qualche modo, Lazar era d’accordo…
Uno dei più bei progetti sui quali lavorò come consulente è il film di Pawel Pawlikowski “Epiche serbe” del 1992 (secondo me il miglior film sui conflitti nella ex Iugoslavia). Senza inutili commenti e lasciando che i protagonisti (militari serbi e lo stesso Karadzic) si mostrassero com’erano veramente (o, come ha detto Lazar, “dai a loro una corda abbastanza lunga e si impiccheranno da soli”). Il film mostra con chiarezza cristallina il profilo di quelli che stavano sulle alture intorno a Sarajevo, scegliendo con calma le case su cui puntare le armi. Il film fu presentato in Olanda e durante la proiezione Lazar mi sussurrò con un tono emozionato e senza nascondere l’orgoglio: “Guarda questa scena: sono io.” La scena, ripresa con il teleobiettivo, mostrava le vie di Sarajevo sotto i bombardamenti, la gente che scappava in cerca di un riparo e, in primo piano, una donna che era alla disperata ricerca di un rifugio… e un uomo che la soccorreva… Era Lazar.
Su un piano più personale, posso tranquillamente affermare che Lazar era un affascinante (non a caso) ribelle (a ragione), sempre in cerca dei limiti di una vita sociale e personale, amante dell’avventura (al quale nulla di umano era estraneo), un maestro della parola e un ammiratore della fantasia. In una parola, un artista… Lazar Stojanovic ha davvero avuto più di una vita prima della morte…
Mira Oklobdzija
traduzione di Guido Lagomarsino