Nel Novecento, quello di Theodor Wiesengrund Adorno è stato per eccellenza il pensiero dell’aporia e dell’afasia, del paradosso e dell’ossimoro: il piétiner sur place di chi, chiusa ogni via di fuga, s’agita in una palude teorica sempre più asfittica, dove per muoversi occorre sottoporsi a un’inesausta «acrobazia cerebrale». La sua filosofia ha rappresentato come nessun’altra lo smarrimento di una borghesia intellettuale ebraica e cosmopolita che è rimasta orfana dell’autorità paterna e ha sentito letteralmente mancarsi la terra sotto i piedi. Adorno guarda a Marx, ma ne rifiuta la traduzione politica; sa che la cultura decadente è ormai inutilizzabile, eppure ogni altra prospettiva gli sembra condurre a rozze mistificazioni. Il suo è l’atteggiamento di chi, tra continui sensi di colpa, consuma le ultime riserve di un patrimonio che le future generazioni non potranno ereditare se non nella versione di un umanismo consolatorio e contraffatto.
Per dar corpo a questo pensiero apocalittico, Adorno ha allontanato da sé sia la tentazione di ritrarsi in un aristocraticismo sdegnoso (Nietzsche e Kierkegaard, due degli autori che meditò di più, non gli sono mai bastati) sia la tentazione di smussare la sua critica della cultura a uso di qualche prassi movimentista (poco prima di morire si scontrò con quei falsi anticonformismi del ’68 che alcuni suoi ex compagni di strada, come Marcuse, blandirono invece senza troppi scrupoli). Nella eterogenea palude di fatti e concetti in cui si è mosso dagli anni Trenta alla morte – vietandosi sempre di abbandonare gli uni a esclusivo favore degli altri – ha condotto una battaglia serrata contro nemici opposti e speculari: da un lato l’ontologia sacerdotale di Heidegger, dall’altro il marxismo lukacsiano; da un lato l’esistenzialismo, dall’altro il neopositivismo; da un lato le ideologie del vitalismo e dell’immediatezza, dall’altro il feticismo dei fondamenti primi.
Il cuore del discorso filosofico sviluppatosi intorno all’Istituto di ricerca sociale di Francoforte, del quale Adorno fu magna pars sia in Germania sia durante l’esilio americano, poggia su una «teoria critica della società» che si nutre di Marx e al tempo stesso rigetta alcuni punti decisivi della sua dottrina. Secondo i francofortesi, in pieno Novecento non si dà più nessuna classe rivoluzionaria, perché il «mondo amministrato» della società di massa è riuscito a omologare anche il proletariato, e i suoi media si sono rivelati così pervasivi da trasformare in struttura un’influenza ideologica da Marx ritenuta sovrastrutturale. Perciò i collaboratori principali dell’Istituto, in particolare Adorno e il direttore Horkheimer, hanno messo da parte l’economicismo del filosofo di Treviri per privilegiarne la critica della falsa coscienza, e hanno tolto alla dialettica storica ogni illusione di totalità.
In Adorno, il metodo coincide con la Dialettica negativa a cui si intitola il suo libro più importante, che nel 2016 compie mezzo secolo. Questa dialettica, a differenza di quella idealista di Hegel e di quella materialista di Marx, rifiuta il momento della sintesi, denuncia ogni surrettizia assimilazione del particolare all’universale, e scalza lo schema concettuale che accetta pacificamente il principio d’identità/differenza, introducendo nel cuore degli oggetti uno scarto definito come il «non-identico» (idea alla quale la successiva filosofia francese, con la sua insistenza capziosa su concetti come «différance» o «sintesi disgiuntiva», deve più di quanto non ammetta).
Adorno inocula nel sistema di Hegel, già rovesciato dal marxismo, il bacillo kierkegaardiano della singolarità irriducibile. La sua bestia nera è il motto hegeliano secondo cui il reale è razionale: principio d’identificazione del quale lo slogan movimentista che sostiene che «il personale è politico» offre una prosaica ma efficace traduzione pratica. Simili parole d’ordine, parificando la realtà e il concetto, l’individuo e la collettività, tendono a cancellare ogni scarto capace di minacciare l’equazione: e questa tendenza è il riflesso teorico della concreta sottomissione a quel che i francofortesi chiamano «il dominio».
A partire da qui, il materialismo non viene recepito da Adorno come una dottrina, bensì come una forma di consapevolezza del fatto che l’oggetto mantiene un primato ineliminabile sul soggetto, e una resistenza invincibile alla razionalità (anche dialettica): cioè come una forma di salvaguardia filosofica della effettiva asimmetria tra pensiero e fenomeno, che s’incontrano sempre e solo asintoticamente. Insomma: anche la dialettica negativa, per non farsi intollerante, deve ospitare in sé qualche residuo non dialettico. È necessario che, costituendo «insieme l’impronta dell’universale contesto di accecamento e la sua critica, si rivolti in un ultimo movimento anche contro se stessa».
Non a caso, Adorno elogia in Kant la figura del noumeno, dell’oggetto in sé inconoscibile, ossia proprio il punto di fuga teorico che le filosofie idealiste e dialettiche successive al criticismo hanno censurato come concetto vuoto. Il pensatore francofortese condivide questo giudizio, ma lo ribalta di segno. A suo avviso, infatti, l’assenza di contenuto è un sintomo del fiuto kantiano per le pretese totalizzanti della teoria, e un limite istintivo posto a queste pretese. Il noumeno si rivela quindi parente del non-identico: è il riconoscimento del fatto che il pensiero incontra davanti a sé una diversità ineliminabile, un oggetto che lo precede e un residuo che resiste alla sua marcia.
Al di là delle diverse valutazioni sui movimenti comunisti, sta qui la differenza cruciale col marxismo neohegeliano propugnato negli anni Venti da Korsch e da Lukács, i cui studi sul concetto di reificazione hanno offerto la prima base alle teorie dei francofortesi. Infatti quel marxismo – appoggiandosi, a partire dal ’29, al ritrovamento dei Manoscritti economico-filosofici, e ispirando in seguito gli esistenzialisti – tende a identificare il processo attraverso il quale l’uomo oggettiva se stesso e il mondo con l’alienazione tout court. Di contro, l’Adorno maturo mette l’accento sul Capitale, che offre molti meno appigli in questo senso: e lo fa appunto perché teme che la lotta contro l’alienazione moderna si muti in lotta contro l’alieno, lo straniero, il diverso.
Del resto, una simile tentazione è connaturata a ogni filosofia della storia che si pretenda autarchica. Il pensiero, da solo, non sopravvive: divora tutto e alla fine si autodivora, proprio come le dittature. Da questo incantesimo narcisista può liberarsi solo incontrando l’esterno, l’imprevisto – cioè frustrando la sua aspirazione tirannica. Come dire che se l’autarchia rende pazzi, l’apertura costa una rinuncia molto amara. Questa amarezza è splendidamente descritta nella Dialettica negativa là dove Adorno paragona «la delusione che la filosofia non si svegli dal suo sogno senza un qualche salto, per moto proprio; che essa a tal fine abbia bisogno di ciò che il suo bando tiene lontano, di un Altro e Nuovo» alla delusione dei bambini nel leggere la fiaba di Hauff sul Nano Nasone. In questa fiaba, il ragazzo trasformato in nano può liberarsi dall’incantesimo solo trovando un’erba di cui non sa il nome. Ma quest’erba è anche un ingrediente necessario al pasticcio souzeraine, che deve preparare per il duca dal quale è stato assunto come cuoco. Quando Nano Nasone trova l’erbetta e comprende la coincidenza, decide di riprendere le sue sembianze senza tornare dal duca: così che la riconquista dell’identità costa esattamente la rinuncia alla possibilità di preparare il pasticcio.
Il fatto che la libertà del pensiero coincida con l’arresto del suo desiderio d’onnipotenza ha precise ricadute anche sulla forma della scrittura filosofica. Nel secolo delle masse e del fascismo, ogni sistematicità assume agli occhi di Adorno un aspetto mostruoso e kitsch. Il pensiero del Novecento non può che farsi saggistico, frammentario, «micrologico». Deve partire dai dettagli, secondo l’esempio offerto dai Minima moralia; e anche quando vi si stacca, astraendo e universalizzando, è incaricato sempre di ritornarvi, di aprire crepe nella trama di una razionalità che altrimenti rimuove i casi singoli e i corpi concreti imbrigliandoli nelle categorie generali.
Questo è infatti il paradosso di ogni legge, morale o positiva: anche quando ha un alto contenuto etico, è la sua stessa natura astratta che, se da un lato arresta sul momento la violenza bruta, dall’altro induce al rimando sine die di ogni solidarietà immediata con il prossimo. Portata alle estreme conseguenze, una tale razionalità torna a farsi Mito, si risolve in sadismo: e la conquista in apparenza più alta dell’Occidente civile ritrasforma allora la Società in Natura. Così la Dialettica dell’illuminismo, stesa da Horkheimer e Adorno alla fine della guerra, descrive la strada che conduce dall’età dei lumi alla barbarie nazista. Ma la modernità non è che l’ultimo tratto di una lunga storia. Ben più antiche sono le radici di quella ragione strumentale che, nella sua ansia di produrre astrazioni e di usarle per controllare il mondo, ha ridotto gli istinti a una vita stupida o bestiale nel medesimo gesto con cui si sublimava fino all’insensibilità. Non a caso, l’esempio più indimenticabile del libro è quello del ragionatore Ulisse. Il re di Itaca, virtuoso del pensiero tattico, può ascoltare le sirene perché si fa legare, cioè si reprime — mentre l’equipaggio da lui dominato, coi tappi nelle orecchie, continua a eseguire il lavoro bruto. Allo stesso modo, Ulisse può salire sul letto di Circe perché davanti alle prime lusinghe censura il desiderio — mentre i compagni, a causa della loro impulsività, diventano maiali.
A questa scissione tra una razionalità repressiva e un’istintività animale, la Dialettica dell’illuminismo oppone il modello di una ricettività attiva capace di percepire creativamente, e di ragionare adattandosi all’oggetto. Lo schema non è nuovo: il tema del recupero di un rapporto artigianale col mondo circostante era nell’aria già tra le due guerre. Ma esiste una differenza decisiva tra il modo in cui lo declinano un Heidegger o un Brecht e il modo in cui lo abbozzano Horkheimer e Adorno. Perché i francofortesi non credono che un simile rapporto sia davvero a portata di mano: diffidano, cioè, di quella filosofia e di quell’arte che mimano una purezza “contadina” – dai contorni sacerdotali o cinesi poco importa – in un universo tecnologico dove si dà ormai solo come finzione. Soprattutto per Adorno, la ricettività attiva è appena un’utopia dalla cui riva simbolica criticare la razionalità presente — un’ipotesi euristica, non una forma di esistenza che possa manifestarsi in modo continuativo tra gli uomini del Novecento. E lo stesso discorso vale per tutti i concetti destinati a rappresentare un barlume di positività, barlume che la sua filosofia lascia lampeggiare per un attimo e subito seppellisce sotto cumuli di negazioni.
È indicativa, a questo proposito, la querelle che negli anni Trenta lo divise da Walter Benjamin. Per Adorno, le idee benjaminiane sulla riproducibilità dell’opera d’arte e sulle possibilità offerte dai nuovi media nascono da una inaccettabile miscela di «magia» e «positivismo». Il fatto è che Benjamin si aggrappa davvero, con voluta adialetticità, a due fondamenti eterogenei come la Tecnica e il Messianismo (un comunismo tutto antihegeliano e una visione quasi neoplatonica); mentre Adorno si nega ogni appiglio. E come osserva lo stesso Benjamin in un caso specifico, se la teoria non si appoggia a un «dominio superiore», l’ultima parola spetta giocoforza «al paradosso». Anche quando utilizza termini mutuati dall’amico, come «monade» o «costellazione», Adorno è infatti costretto a trasformarli in metafore mobili, a torcerli fino al rovesciamento. Il suo pensiero è nomade, non ha casa; e la sua figura, come afferma lui stesso con la lucidità implacabile cui sembra condannato, somiglia molto a quella di Münchhausen che tenta di tirarsi su per i capelli. Visto che «non si dà vita vera nella falsa», ogni tentativo di agire collettivamente o di mantenersi puri nell’isolamento va incontro allo scacco; e l’utopia di una liberazione da questo stato antinomico può essere rappresentata solo in negativo.
È questo il compito per eccellenza dell’arte, che nel pensiero di Adorno catalizza tutte le energie inutilizzabili a fini agitatori o meramente ascetici. La sua promessa di felicità «non significa semplicemente che la prassi fin qui esercitata preclude la felicità: significa che la felicità è al di là della prassi (…) La forza della negatività nell’opera d’arte dà la misura dell’abisso fra prassi e felicità». Per essere all’altezza del suo compito, l’arte contemporanea non può rispecchiare contenutisticamente quelle tragedie senza senso tragico che costituiscono il nucleo del Novecento, ma deve assorbirle nella propria tecnica formale; e così, grazie alla sua costitutiva doppiezza, contestarle mentre le riflette. È la natura monadica dell’opera che le consente di legarsi alla Storia nel momento stesso in cui si ripiega sulla sua logica interna. Come è detto all’inizio della Teoria estetica, l’arte «è per sé e non lo è, non coglie la propria autonomia se le manca ciò che le è eterogeneo». In particolare, all’arte novecentesca non restano che due possibilità: o recuperare forme neoclassiche ormai superate (e poco importa che siano messe al servizio di temi engagés); oppure, come vuole la dialettica adorniana, negarsi nell’istante in cui si manifesta. Un prezzo così alto viene stabilito da una diagnosi storica altrettanto impietosa. Secondo Adorno, dopo Auschwitz «tutta la cultura (…) compresa l’urgente critica a essa, è spazzatura». E se chi vuole conservarne la funzione diventa «collaborazionista», chi le si sottrae «incrementa direttamente quella barbarie che la cultura ha mostrato di essere».
Come si vede, l’unica strada aperta è il paradosso. I pochi esempi di questa via stretta e precaria, Adorno li trae soprattutto da musica e letteratura. Del linguaggio dei suoni è stato studioso finissimo – Thomas Mann lo volle come consulente durante la stesura del Doktor Faustus – e così coerente da sottoporre perfino la sua presunta immediatezza a una continua traduzione concettuale. In questo ambito, la rappresentazione più attendibile dello status paradossale dell’arte moderna gli sembra quella offerta dai compositori che hanno escluso l’armonia a favore della dissonanza dodecafonica (Schoenberg, Webern, Berg). Alle loro esperienze, in letteratura corrispondono le parabole di Kafka. Ma anche quest’arte, nel moto incessante della massificazione, fatalmente invecchia. Ed ecco allora che i frammenti di un’estetica inconciliata si assottigliano senza scampo: in musica nascondendosi nell’aleatorietà di John Cage, in letteratura andandosi a ficcare nei microromanzi afasici e nelle sinistre clownerie di Beckett.
Il rovesciamento negativo dell’hegelismo obbliga Adorno a vedere nel movimento moderno di spiritualizzazione dell’arte, contemporaneo a quello della più sofisticata alienazione umana, un vicolo cieco destinato a restringersi come un imbuto fino all’adimensionalità del punto. Dell’apnea non si può prevedere la fine: ma si tratta assai più di recuperare le ultime riserve di ossigeno, per procrastinare la caduta definitiva nel buco nero, che di attendere il momento della riemersione. Adorno osserva il crepuscolo della modernità, e non potendo concepire altra vicenda che la sua, costruisce una filosofia in cui la fine della storia iniziata col romanticismo coincide con la fine della storia tout court.
Ma qui, proprio usando le sue armi, possiamo ben imputargli una tentazione autoritaria: perché il rimando sine die di ogni azione pubblica e il divieto dell’armonia artistica o affettiva rischiano a loro volta di divenire ricattatori. Soprattutto nel passaggio tra teoria e pratica, tra estetica e critica, la censura di Adorno nei confronti di ogni istinto alla pienezza vitale prende accenti ambiguamente repressivi. Inoltre, dato che a differenza di Lukács l’autore della Dialettica negativa non può poggiare la sua nozione di sviluppo storico ed estetico sopra una «prospettiva» socialista, la sua insistenza su termini come «progressivo» e «regressivo» assume un carattere quasi liturgico. Lo ha colto bene Franco Fortini, ironizzando sul tipico stilema adorniano «l’arte che veramente viene a capo del nostro tempo». Scrive Fortini che dal punto di vista di un tale progressismo «determinati conflitti come determinate forme di espressione sarebbero regressivi perché non corrispondenti alle forme dei conflitti e alle forme di espressione recepite ed accettate come proprie delle società e culture più “avanzate”. Ma la radicale metaforicità della espressione artistica gioca, per i propri fini, con quelle e con queste».
Probabilmente è proprio il gesto con cui sovraccarica l’arte di significati, compensando così una realtà sociale che gli sembra destinata all’agonia o allo stallo, a rendere la critica di Adorno più intollerante e in qualche caso decisamente priva dei famosi residui adialettici. È un fatto che l’acrobata non può tenersi sul filo in eterno: e Tito Perlini ha giustamente osservato che una volta posta l’impossibilità dell’azione come un vero e proprio apriori, i tardi saggi di Parole chiave si concludono non di rado su una nota di sintomatica, corriva urbanità.
Tuttavia, questo rimuginatore implacabile ha il grande merito di averci offerto lui stesso le armi adatte a contestarlo, il vaccino utile a impedire che il suo pensiero si faccia fungibile strumento del «dominio». D’altra parte, gli anatemi lanciati contro ogni sedicente movimento liberatorio e ogni presunta resa alla barbarie di massa dipendono anche dal fatto che Adorno è incatenato alla nostalgia profonda per un mondo culturale un tempo privilegiato ma oramai scomparso. E agli occhi di un sopravvissuto non può non apparire straziante il fatto che la promessa di un futuro innalzamento dell’umanità intera, già implicita in quel mondo, anziché avverarsi venga liquidata per sempre.