Con l’esplosione del Coronavirus siamo assoggettati a un isolamento fisico ma disponiamo di mezzi di comunicazione in parole (telefono), immagini (i video su Whatsapp e sui social, Skype), testi (email) e disponiamo di radio e TV che ci mettono in comunicazione con gli altri e con il mondo; allo stadio attuale, in risposta alla segregazione, ci siamo aperti e siamo diventati più attenti e solidali gli uni con gli altri. La vita di coppia o di famiglia migliora, a parte le coppie infernali. Sono i solitari senza telefono né televisore, e soprattutto i non confinati, vale a dire i senzatetto, a essere le vittime assolute dell’isolamento, tanto più che sono dimenticati dal potere e dai media.
Per quanto mi riguarda, pur subendo l’isolamento fisico, mi sono sentito proiettato psichicamente in una comunicazione e una comunione permanenti. Non solo attraverso gli scambi sms, email, telefoni e videochiamate con le mie figlie, i miei familiari, le persone che amo, i miei amici, ma anche attraverso informazioni che non solo ricevo dalla TV ma che continuo a ricercare in numerosi documenti su internet, ovviamente medici ma anche riguardanti tutti gli aspetti della crisi. Mi sono sentito intensamente partecipe, non foss’altro che per lo stesso isolamento, al destino nazionale e al cataclisma planetario. Mi sono sentito più che mai proiettato nell’avventura incerta e sconosciuta della nostra specie. Ho sentito più forte che mai la comunità di destino di tutta l’umanità.
Attualmente siamo di fronte a una tripla crisi.
La crisi biologica di una pandemia che minaccia indistintamente le nostre vite e supera le capacità ospedaliere, soprattutto là dove le politiche neoliberiste non hanno mai smesso di ridurle.
La crisi economica, nata dalle misure di restrizione assunte contro la pandemia che rallentano o arrestano le attività produttive, di lavoro, di trasporto, non potrà che aggravarsi se l’isolamento diventasse durevole.
La crisi di civiltà: passiamo bruscamente da una civiltà della mobilità a un obbligo di immobilità. Vivevamo principalmente all’esterno, al lavoro, al ristorante, al cinema, agli incontri, alle feste, ed eccoci costretti alla sedentarietà e all’intimità. Consumavamo sotto l’influenza del consumismo, cioè la dipendenza da prodotti di qualità mediocre e virtù illusorie, l’incitamento all’apparentemente nuovo, alla ricerca del più invece che del meglio. L’isolamento potrebbe costituire un’opportunità di disintossicazione mentale e fisica che ci permetterebbe di selezionare ciò che è importante e rifiutare ciò che è frivolo, superfluo, illusorio. Ciò che importa è naturalmente l’amore, l’amicizia, la solidarietà, la fraternità, la fioritura dell’Io in un Noi.
Sotto questo profilo l’isolamento potrebbe suscitare una crisi esistenziale salutare in cui rifletteremmo sul senso delle nostre vite.
Queste crisi sono interdipendenti e si alimentano a vicenda. Più si aggrava una, più questa aggrava le altre. Se una diminuisce, essa diminuirà le altre. Così, finché l’epidemia non regredirà, le restrizioni saranno sempre più forti e l’isolamento sarà vissuto sempre di più come un impedimento (di lavorare, di fare sport, di andare alle riunioni e agli spettacoli, di curarsi la sciatica o i denti ecc.).
Più profondamente, questa crisi è antropologica: ci rivela il lato debole e vulnerabile della formidabile potenza umana, ci rivela al tempo stesso che l’unificazione tecnoeconomica del globo ha creato non solo un’interdipendenza generalizzata, ma anche una comunità di destino senza solidarietà. Questa crisi molteplice dovrebbe suscitare una crisi del pensiero politico e del pensiero in senso stretto. L’economia che fagocita la politica, l’ideologia neoliberista che fagocita gli aspetti economici, l’intelligenza del calcolo che fagocita l’intelligenza riflessiva, tutto ciò impedisce di concepire gli imperativi complessi che si impongono: combinare la mondializzazione (per tutto ciò che è cooperativo) e la demondializzazione (per salvare i territori desertificati, le autonomie di sussistenza e sanitarie delle nazioni); combinare sviluppo (che comporta quello, positivo, dell’individualismo) e coesione (che è solidarietà e comunità); combinare crescita e decrescita (determinando quel che deve crescere e quel che deve decrescere). La crescita porta in sé la vitalità economica, la decrescita porta in sé la salvezza ecologica e il disinquinamento generalizzato. L’associazione di ciò che sembra contraddittorio è qui logicamente necessaria.
Ancora una volta siamo in guerra contro un nemico esterno, ma questo nemico è spalleggiato da un nemico interno dell’homo sapiens/demens, che lo rende incessantemente cieco o delirante. Non vedo come si potrebbe esortare gli spiriti e le intelligenze ad affrontare la complessità dell’umano, della vita, della società, del mondo, senza una riforma dell’educazione e della formazione.
Non abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, abbiamo bisogno di un umanesimo rinvigorito e rigenerato.
L’umanesimo ha assunto due volti antinomici in Europa. Il primo è quello della quasi divinizzazione dell’umano, destinato a padroneggiare la natura. L’altro umanesimo è stato formulato da Montaigne in una frase: “Riconosco in ogni uomo un mio compatriota”. Bisogna abbandonare il primo e rigenerare il secondo.
Innanzitutto la definizione dell’umano non può limitarsi all’idea di individuo. L’umano si definisce con tre termini altrettanto inseparabili l’uno dall’altro di quelli della trinità: l’umano è al tempo stesso un individuo, una parte, un momento della specie umana, e una parte, un momento di una società. È al tempo stesso individuale, biologico, sociale.
L’umanesimo non potrebbe ormai ignorare il nostro legame ombelicale con la vita e il nostro legame ombelicale con l’universo. Non potrebbe dimenticare che la natura è in noi così come noi siamo nella natura.
Il fondamento intellettuale dell’umanesimo rigenerato è la ragione sensibile e complessa. Non bisogna seguire soltanto l’assioma “Non c’è ragione senza passione, non c’è passione senza ragione”, ma la nostra ragione deve sempre essere sensibile a tutto ciò che riguarda gli esseri umani.
L’umanesimo rigenerato si abbevera coscientemente alle fonti dell’etica, presenti in tutte le società umane, che sono la solidarietà e la responsabilità. La solidarietà suscita la responsabilità e la responsabilità suscita la solidarietà. Queste fonti restano presenti, ma in parte prosciugate e inaridite nella nostra civiltà per effetto dell’individualismo, della dominazione del profitto, della burocratizzazione generalizzata. L’umanesimo deve mostrare la necessità di rivitalizzare la solidarietà e la responsabilità.
L’umanesimo rigenerato è essenzialmente un umanesimo planetario. L’umanesimo di prima ignorava l’interdipendenza concreta fra tutti gli umani divenuta comunità di destino, creata dalla mondializzazione e che questa accresce continuamente.
Poiché l’umanità è minacciata da pericoli mortali (moltiplicazione delle armi nucleari, esplosione di fanatismi e moltiplicazione di guerre civili internazionalizzate, deterioramento accelerato della biosfera, crisi e deregolamentazioni di un’economia dominata da una speculazione finanziaria scatenata), a cui si aggiunge ormai la pandemia virale che aumenta questi pericoli, la vita della specie umana e, inseparabilmente, quella della biosfera, diviene una priorità.
Affinché l’umanità possa sopravvivere, essa deve effettuare una metamorfosi. Jaspers aveva detto poco tempo dopo la Seconda guerra mondiale: “Se l’umanità vuole continuare a vivere, deve cambiare”.
L’umanesimo, a mio avviso, non è soltanto la coscienza della solidarietà umana, ma anche il sentimento di trovarsi all’interno di un’avventura sconosciuta e incredibile.
In questa avventura sconosciuta ciascuno fa parte di un grande essere costituito da sette miliardi di umani, come una cellula fa parte di un corpo fra centinaia di miliardi di altre cellule.
Ciascuno partecipa a questo infinito, a questa incompiutezza, a questa realtà così profondamente intessuta di sogno, a questo essere fatto di dolore, di gioia e di incertezza che è in noi così come noi siamo in lui…
Ciascuno di noi fa parte di questa avventura inaudita, all’interno dell’avventura a sua volta stupefacente dell’universo. Reca in sé la sua ignoranza, il suo inesplorato, il suo mistero, la sua follia nella sua ragione, la sua incoscienza nella sua coscienza, e ciascuno porta in sé l’ignoranza, l’inesplorato, il mistero, la follia, la ragione dell’avventura più che mai incerta, più che mai terrificante, più che mai esaltante.
Ecco il testo che mi è arrivato ieri sera da Edgar Morin e che ho tradotto per doppiozero, lasciando inalterato il suo tono oracolare. Con lui ho scritto un dialogo per il libro Parlare di Isis ai bambini e un altro dialogo per la prefazione della mia traduzione de L’uomo e la morte. Di lui ho tradotto, oltre a quest’ultimo, altri quattro libri e adesso sto traducendo la sua opera spumeggiante e ciclopica (768 pagine) Les Souvenirs viennent à ma rencontre, che uscirà in novembre per Raffaello Cortina (Riccardo Mazzeo).