Quando in un’intervista dell’ottobre del 1978 chiesero a Leonardo Sciascia, che aveva da poco pubblicato L’affaire Moro, cosa pensasse del linguaggio delle Brigate Rosse, disse senza mezzi termini che si trattava di una «cosa proprio ossificata, senza vita, disanimata, una specie di burocrazia del fanatismo». Dopo aver sottolineato il singolare amore per le sigle dei brigatisti, come se fosse davvero possibile ridurre ogni forma di dominio, di attrito, di rapporto sociale a una sigla asettica, aggiunse di colpo: «Quelli che hanno scritto quei comunicati sono sicuramente gente che non ha mai letto un romanzo…»
In queste poche battute c’è tutto Sciascia. C’è la sua innata capacità di leggere i fatti attraverso dettagli apparentemente marginali, rovesciandoli come un calzino per afferrare un minimo di senso. C’è la volontà, costantemente assecondata, di analizzare il mondo attraverso la letteratura, e più precisamente attraverso un’idea volterriana di scrittura e di sguardo sulle cose storiche e politiche. E c’è infine il desiderio, parimenti assecondato lungo l’intero arco della propria esistenza, di non separare mai (crocianamente, avrebbe potuto dire lui stesso) quel che è poesia da quel che poesia non è, e quindi la critica letteraria dalla stessa critica del mondo.
Vengono in mente queste considerazioni leggendo i suoi interventi sparsi raccolti in un volume pubblicato da Adelphi con il titolo Fine del carabiniere a cavallo e con il sottotitolo Saggi letterari (1955-1989) che, arrivati a questo punto, può essere inteso nell’unica accezione sciascianamente possibile: al loro interno non si parla solo, o quanto meno non unicamente, di letteratura, bensì del mondo attraverso «quella» lente particolare.
Ciò è evidente fin dal saggio che dà il titolo alla raccolta. È uno scritto del 1955, che precede di un anno Le parrocchie di Regalpetra, pubblicato nei Libri del tempo Laterza di cui proprio quest’anno ricorre il sessantennale. In quel breve saggio che uscì su Il Caffè politico e letterario Sciascia rileggeva la storia della letteratura italiana attraverso la scomparsa della figura archetipica del carabiniere a cavallo, “questo splendido simbolo dell’ordine”, le cui cariche avevano segnato la prima metà del secolo, attraversando non poche opere letterarie oggi dimenticate (si pensi, ad esempio, a Il diavolo al Pontelungo di Riccardo Bacchelli).
Dall’elogio del carabiniere a cavallo si era passati – in pochi anni, notava Sciascia – alla sua estinzione metaforica, segnata in Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini dall’irrompere del Poliziotto con i baffi e del Poliziotto senza baffi, entrambi vergognosi della loro «puzza di sbirri». Si tratta di un dettaglio, come un dettaglio è in fondo quello sulla lingua dei brigatisti non avvezzi alla lettura di romanzi. Ma è un dettaglio grazie al quale viene illuminato un passaggio storico: la scomparsa del senso dell’ordine, del sempiterno richiamo all’ordine, proprio dell’Italietta che fu, e il sopraggiungere di qualcosa di nuovo.
C’è nel libro una galleria di ritratti di autori irregolari, fuori dagli schemi, lontani dalle chiese ufficiali, che costituiscono per lo scrittore di Racalmuto un piccola costellazione su cui meditare. Tra gli altri, Alberto Savinio, Vitaliano Brancati, Mario Soldati, Leo Longanesi e Giuseppe Antonio Borgese, che, lasciata l’Italia perché antifascista, produsse in seguito il ritratto più lucido del fascismo (Goliath, scritto da cima a fondo in inglese), dopo aver creato con Rubè il romanzo che racconta alla perfezione le inquietudini dell’Italia poco prima della Marcia su Roma.
Proprio di Borgese Sciascia scrive che fu, in ogni senso, un «eretico»: come «la vera storia del cristianesimo è la storia degli eretici, a proposito di Borgese, si può dire che la vera storia della cultura la fanno gli eretici di ogni eresia. Il che gli osservanti, gli ortodossi, i fideisti non capiscono e non approvano: sicché si può dire che più di ogni altro, in Italia, ad avere rispetto vero per Borgese fu Mussolini. Un paradosso: ma la storia italiana ne ha tanti.»
Sciascia legge i fenomeni culturali con gli stessi occhi disincantati e non irregimentati. Quando, ad esempio, lo accusarono di fare da battistrada ai nouveaux philosophes Bernard-Henri Lévy e André Glucksmann risponde (come scrive nel saggio La barbarie dal volto umano) che, pur non condividendo ogni cosa delle loro analisi, «nella cosiddetta “nuova filosofia” c’è almeno questo “argomento vero”: l’aver messo la mano sul segno della catena». Per catena intende il totalitarismo sovietico, il gulag e i silenzi che lo hanno avvolto. Ma soprattutto – nota – a passare la mano sul segno della catena sono sono proprio coloro i quali provengono dal Maggio francese, più direttamente e più coerentemente di tanti altri. In Marcuse, cinque anni dopo profetizza invece, attraverso la fine del successo editoriale del filosofo tedesco (i cui libri sono stati trasformati in slogan e luoghi comuni, molto prima essere compresi fino in fondo), l’avvento di quelli che sarebbero stati definiti come gli anni del riflusso.
L’analisi del dettaglio, in Sciascia, non si ferma certo qua. Gli basta leggere un sonetto del Belli sulla Roma papalina, per concludere che basta osservare come venisse allora regolata l’impunità dei delatori per comprendere l ambiguità del pentitismo successivo. Nel 1987, quando il flagello dell’Aids sembra ricordare la paura della lebbra, «scomparsa dal mondo occidentale quasi due secoli addietro», e generare una simile volontà di bandire ed escludere gli untori dal consesso civile, si chiede su l’Espresso: «Quale rappresentazione daranno dell’Aids gli scrittori e gli artisti del nostro tempo?»
Sono passati quasi trent’anni da quella domanda. Sciascia morì solo due anni dopo, nel novembre del 1989, pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino. Non ha fatto in tempo a vedere la successiva riunificazione, dell’est e dell’ovest, all’interno dell’Unione europea. Era però convinto, come scrive in un saggio su Stendhal e Napoleone raccolto nel volume, che l’unità europea non dovesse avere nulla di «santo», ma cominciare dal diritto, e cioè «quanto di più laico ci sia nel nel patrimonio della storia degli uomini».
Questo pezzo è uscito su Pagina 99, che ringraziamo.