Raccontare il teatro di Peter Handke: farlo dopo anni di polvere che si è andata accumulando sui testi custoditi oramai solo nelle biblioteche. È stato questo il proposito di La terra sonora. Il teatro di Peter Handke, una rassegna organizzata a Roma e durata oltre un anno. La tappa conclusiva di questo lungo percorso si è tenuta la scorsa settimana, fino 23 novembre, e ha coinvolto un bell’insieme di soggetti diversi.
Valentina Valentini e Francesco Fiorentino hanno curato la rassegna, mentre Daria Deflorian si è occupata di coordinare le diverse maestranze coinvolte. Tra i pregi del progetto c’è quello di avere abbracciato, oltre a luoghi storici della Capitale come Dominio Pubblico/Teatro Argot, anche spazi che non sono prettamente teatrali, come il Forum Austriaco di Cultura e il Goethe Institut. Una intensa settimana di mise en espace, letture, radiodrammi (in collaborazione con Tutto esaurito! di Rai Radio3) hanno regalato al pubblico un originale spaccato della produzione di Peter Handke.
La terra sonora rincorre una volontà che il gruppo di artisti di Scuolaroma esprime spesso nelle sue scelte artistiche, ossia quella di una trasmissione del contemporaneo, non solo nell’ambito della danza, ma anche in quello della drammaturgia. E in questo frangente è avvenuto l’incontro con Valentina Valentini che nella testa aveva un progetto su Handke. La messa in moto di questa macchina ha dato il via all’organizzazione di diversi laboratori che si sono succeduti nel tempo. Ha previsto anche il coinvolgimento di una rete di studenti e dottorandi dell’Università di Roma Tre che ha iniziato a lavorare in workshop di traduzione di testi mai arrivati in Italia (workshop coordinati da Francesco Fiorentino e Valentina Miglio). Di fatti, questa rassegna ha portato nel nostro paese quattro opere di Handke che si spera possano presto essere pubblicate e dunque possano durare nel tempo.
Avvicinarsi all’universo di Peter Handke certo non è cosa facile e non aiuta l’oblio che è calato sulla sua persona dopo il clamore degli esordi all’inizio degli anni Sessanta. Vive fuori Parigi, ha abbandonato da tempo la sua terra di origine, l’Austria, scrive solo a matita e anche provare un contatto epistolare può risultare una lunghissima trafila (ma non sempre è detto, si legga Luigi Zoja; sulla produzione saggistica di Handke, in particolare la più recente, si può leggere invece Luigi Grazioli). Nonostante questo, gli spaccati che Handke riesce a disegnare non tanto della collettività quanto, nello specifico, dell’uomo stesso sono disarmanti. Un esempio per tutti: lo spettacolo Autodiffamazione di e con Lea Barletti e Werner Waas (quest’ultimo grande conoscitore dell’autore austriaco e di tutto il suo portato drammaturgico, nonché traduttore).
Lo spettacolo, che era stato proposto già nel 2013 all’interno di Short Theatre, si compone di una scena molto scarna, essenziale, dove sono posizionate sue sedie. Sopra di queste, un abito da donna e un vestito da uomo. In scena compaiono due attori, un uomo e una donna, nudi, quasi un Adamo ed Eva, solo con scarpe (lei) e un cappello (lui). Guardano gli spettatori e lo fanno con una tale intensità che scompare qualsiasi tipo di imbarazzo che la nudità potrebbe far scaturire. Il loro sguardo tocca ogni singola persona nel pubblico, ma non è uno sguardo che indaga, è uno sguardo che incontra. Si vestono. Ed è come se rientrassero in un clima che è quello delle convenzioni sociali, delle regole.
Si sviluppa da questo momento un lungo alternarsi di frasi tutte declinate con il soggetto “io/ich”. Si parte da lontano, dalle azioni di bambino, da quelle dettate dall’istinto, quelle che non abbiamo potuto controllare. Come in un gioco, si arriva alle azioni nelle quali abbiamo la forza di decidere, di dirigere il nostro agire, di essere noi i padroni di quello che viviamo. Siamo di fronte a luoghi comuni e a un numero infinito di regole che ci troviamo a rispettare perché è quello che ci insegnano. Attraverso la parola tutti quei gesti enunciati acquistano una forza che va al di là dell’azione stessa: raggiungono uno spessore che li isola dal discorso e li illumina di una luce differente. Non abbiamo forse tutti noi oltrepassato la linea gialla aspettando un treno? Non abbiamo forse gettato una carta a terra invece che nei cestini? Non abbiamo forse infranto regole di convivenza così da risultare sgradevoli?
La terra sonora ha permesso anche la ripresa radiofonica di un vecchio spettacolo della compagnia Accademia degli Artefatti che nel 2006 aveva portato in scena Insulti al pubblico. Un testo teatrale, tra i più famosi di Handke, che nel 1966, alla sua uscita, aveva scatenato una marea di polemiche e furente indignazione tra gli spettatori allibiti per il trattamento che stavano subendo. Questo spettacolo di Fabrizio Arcuri aveva girato pochissimo: indice anche di come Handke fosse rimasto nel dimenticatoio della drammaturgia contemporanea.
Perché una cucina? è invece uno dei quattro testi di recentissima traduzione ed è stato affidato alla lettura di Federica Santoro, Luca Tilli e Dario Salvagnini. È una delle produzioni di Handke degli anni Duemila così come lo è Untertagblues: ein Stationendrama/Blues della metropolitana affidato alla regia di Veronica Cruciani. Si tratta del delirio di un uomo che sta attraversando la città in metropolitana: le sue parole sono di offesa e maledizione verso la condizione dell’uomo. Nel suo inveire non c’è appiglio così come non c’è luce dentro a un tunnel.
Immer noch Sturm/Ancora tempesta, un romanzo teatrale scritto da Handke nel 2010, guarda al passato familiare dell’autore austriaco. Lo fa riprendendo dai suoi sogni alcune immagini e sistemandole poi grazie alla scrittura. Ancora tempesta è suddiviso in tre episodi letti rispettivamente da Antonio Tagliarini, Daniele Timpano/Elvira Frosini e da Lisa Ferlazzo Natoli. Handke si immagina di incontrare quelli che sono stati i suoi antenati e intreccia con loro un dialogo: è una operazione di recupero e di memoria, non troppo in senso storico, quanto più nell’andarsi a ricercare attraverso chi lo ha preceduto.
I bei giorni di Aranjuez, Foto Manuela Giusto I bei giorni di Aranjuez, Foto Manuela Giusto
A chiudere la serie di testi ancora inediti in Italia c’è I bei giorni di Aranjuez, tradotto dalla versione francese da Attilio Scarpellini e interpretato dallo stesso Scarpellini assieme a Daria Deflorian. Un tavolo, due personaggi seduti ai lati, un po’ di distanza tra di loro, un giardino. Due voci, un uomo e una donna: è un dialogo estivo sull’amore, all’apparenza. La natura si insinua in una drammaturgia delicata, in un ascolto attento dell’intorno. Il paesaggio si inserisce tra i due; via via diventa ancora più presente con suoni forti e stridenti. “Partitura sottile” è stata definita dalla critica francese: è il culmine della trasfigurazione del linguaggio dove le parole prendono strade inimmaginabili che durante l’ascolto ci estraniano dalla realtà, ma che allo stesso tempo sembrano in qualche modo restituirci a essa.
Si potrebbe dire che proprio questo è il centro del teatro: mescolare la realtà che sta fuori alla realtà interiore con la quale l’uomo convive, offrire l’occasione di uno spaesamento, tessere trame che non avremmo immaginato. È una scrittura, quella di Handke, che riesce ad avere un potere deflagrante, anche quando il linguaggio è pacato e docile. Un merito che è valso all’autore austriaco il premio Ibsen 2014 per essere riuscito, in cinquanta anni a “ridefinire la letteratura drammatica più spesso, più sorprendentemente e più radicalmente di ogni altro poeta vivente”.
Grazie in particolare a Daria Deflorian per la lunga chiacchierata