Come si sia svolta e che cosa abbia significato la guerra di Spagna, conclusasi nel modo più tragico per l’intervento decisivo dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani, è relativamente poco conosciuto in Italia e del tutto ignorato nei programmi scolastici: come accade, del resto, per qualcosa che avvenne e ci riguarda ancor più da vicino, e cioè la Resistenza italiana durante la Seconda guerra mondiale.
Rievocata generalmente a livello di curiosità, specialmente negli ambienti che si interessano alla fotografia, è la questione, diventata un’annosa querelle, sulla foto di Robert Capa del Miliziano che muore. Muore o non muore? È caduto veramente, perdendo la vita in quel combattimento, o è stato il fotografo a fargli recitare, talento insuperabile, una finta morte? Eppure, ormai da molti anni, tutta la vicenda è stata chiarita. Richard Whelan l’ha raccontata nella sua attendibile biografia di Capa, con tanto di nome e cognome del soldato caduto, Federico Borrell Garcia, detto Taino, di 24 anni, della columna anarquica di Alcoy (Alicante), ucciso sulla collina de Las Malaguenas, a Cerro Muriano, vicino a Cordoba, il 5 settembre 1936.
«En el combate de Cerro Muriano contra la columna de Varela (generale franchista) los de Alcoy, situados en La Malaguenas, intervinieron de lleno en la lucha (5-6 septiembre) y allì muriò el valeroso joven libertario Federico Borrell ‘Taino’ defendiendo una bateria de Artilleria», scrive Francisco Moreno Gomez in La Guerra Civil en Cordoba (1936-1939). La colonna di Alcoy che combatte era comandata dall’alfiere Melquiades Valiente e, come jefe de Milicias, da Enrique Vario Nicomedes.
Per il numero speciale di Diario (la rivista diretta da Enrico Deaglio), dal titolo Volver (2006), sorta di omaggio alla Repubblica spagnola nell’anniversario della guerra civile, condussi personalmente un’indagine a Cerro Muriano, nell’impressionante scenario di una miniera abbandonata che fu il luogo della battaglia, e ad Alcoy, dove nessuno dubita che il miliziano caduto fosse l’alcoyano Taino. Di questo non avevo mai dubitato, anche prima di andare a controllare, perché pensavo che le varie illazioni fossero fantasie bizantine, se non basse insinuazioni franchiste.
La mia ricerca, quindi, non s’incentrava affatto sui negativi in possesso della Magnum, non molto facili da consultare, ma sulle indagini spagnole relative all’identità del miliziano e a quanto aveva scritto Franz Borkenau nel suo libro The Spanish Cockpit. Questo autore, sociologo austriaco antifascista e testimone ineludibile sulla questione, viaggiò quel giorno in auto, racconta, con due giornalisti francesi di «Vu» (uno di essi era Robert Capa), con i quali si ritrovo praticamente assediato dai regulares, gli agguerriti soldati marocchini del generale Varela.
Giunti con mezzi di trasporto diversi, c’erano quel giorno anche altri giornalisti, tutti convocati dall’ufficio stampa repubblicano, per assistere a una nuova offensiva volta a riconquistare Cordoba. Fra essi c’era anche Hans Namuth, fotografo tedesco, in quel tempo ben più famoso di Robert Capa. Non mi azzardo a scrivere che ci fosse anche Gerda Taro, che potrebbe essere stata l’altra giornalista di «Vu». Nella sua biografia della grande fotografa, Irme Schaber non ne parla.
Invece dell’annunciata offensiva, i corrispondenti stranieri trovarono una situazione di sbando.
Borkenau parla di gruppi di miliziani anarchici in fuga, quasi a confermare il motto di Malraux: «Gli anarchici sanno battersi, ma non combattere». Per fortuna sopraggiunse la columna di Alcoy, città di antiche tradizioni rivoluzionarie. Fu nel successivo combattimento che il miliziano perse la vita. Come seppero ad Alcoy che il miliziano caduto era un loro concittadino? A spiegarmelo è stato Ricard Bano, un insegnante di Alcoy appassionato di storia locale.
Occorre sapere che la famosa fotografia non era mai stata vista in Spagna, al tempo di Franco, in quanta ritenuta strumento di propaganda sovversiva. Sembra che non si trovi neanche l’atto di morte che io stesso cercai invano nell’archivio di Salamanca e in quello di Avila. Del tutto normale, perché contavano solo, al tempo di Franco, i morti por Dios y por la Patria. Gli altri finivano nelle fosse comuni, quasi sempre fuori dai cimiteri.
Così, quando Ricard Bano seppe che la foto era stata scattata a Cerro Muriano, si ricordò che proprio lì avevano combattuto i suoi concittadini. Mostrò la fotografia a Mario Brotons Jorda, l’ultimo sopravvissuto della gloriosa columna. Brotons Jorda aveva quattordici anni il giorno della battaglia. Guardando la fotografia non riconobbe il suo amico ‘Taino’, ma affermò che si trattava con certezza di uno dei suoi compagni, perché le giberne, chiaramente evidenti nella fotografia, erano quelle che un artigiano di Alcoy fabbricava in esclusiva per i miliziani locali. Fatta circolare nelle famiglie degli ex combattenti, i parenti di Federico Borrell Garcia riconobbero senza esitazione il loro congiunto. Era un operaio tessile e aveva una novia con cui si sarebbe sposato al ritorno dalla guerra.
Mario Brotons Jorda, il giovanissimo miliziano sopravvissuto, è morto alcuni anni fa, dopo aver scritto un libro di memorie sulla guerra fratricida che insanguinò la Spagna. Anche se Richard Whelan ha accreditato senza ombra di dubbio questa tesi, puntualmente, ogni anno, su varie testate del mondo, ricompaiono articoli che mettono in dubbio la stessa identità del soldato, che sarebbe morto a Espejo, in un’altra battaglia, non lontano da Cerro Muriano.
A chiudere in modo direi definitivo l’annoso dibattito sulla verità della foto di Capa è intervenuto quest’anno un fatto straordinario. Dalla sera del 22 ottobre, anniversario della nascita di Capa, si può ascoltare, grazie alle tecnologie contemporanee, un’intervista a Robert Capa realizzata nel 1947, proprio sulla foto del miliziano. La sua voce racconta che mentre si trovava con i combattenti di Alcoy dentro una specie di trincea, fotografò gli assalti dei miliziani a una mitragliatrice franchista. Al quarto assalto alzò il braccio e scattò alla cieca.
La magistrale immagine del miliziano che cade non è quindi la finzione sublime realizzata da un preteso regista, ma uno scatto regalato dal caso al coraggioso fotografo. Questa magnifica trasmissione, che suscita una vera commozione in tutti coloro che amano Capa e vanifica tante illazioni, la dobbiamo agli amici di New York di Robert Capa, che da sempre hanno creduto nell’autenticità della discussa icona di guerra.
Ferdinando Scianna e Mario Dondero
Ferdinando Scianna
La voce di Capa spiega il miliziano
Il 22 ottobre di quest’anno Robert Capa avrebbe compiuto 100 anni. Era quindi inevitabile che la ricorrenza suscitasse sul più celebre fotografo di guerra del ventesimo secolo mostre e celebrazioni. Anche in Italia ce ne sono state, e una è in corso a Udine, a Villa Manin, Robert Capa, la realtà di fronte, arricchita da proiezioni di documentari e da incontri utili per conoscere meglio la prodigiosa vicenda professionale ed esistenziale dell’uomo mito del fotogiornalismo moderno. Altrettanto inevitabile era che l‘occasione dell’anniversario rinfocolasse la polemica violenta che da oltre trent’anni infuria intorno all’autenticità della celeberrima fotografia di Capa del miliziano anarchico colto nel momento della sua morte, sulla collina di Cerro Muriano, nei pressi di Cordoba. Quella fotografia è diventata l’icona della guerra civile spagnola.
Credo che sia stato a metà degli anni settanta che ho scritto il primo dei troppo numerosi articoli su questa polemica. Fu anche l’occasione della nascita di un’amicizia, cercai infatti Romeo Martinez , personaggio straordinario della contemporanea storia della fotografia, che era responsabile delle immagini della rivista Vu dove, il 23 settembre del 1936, venne pubblicata per la prima volta quella immagine.
Il giornalista inglese Philip Knightley, che per primo innescò la polemica, sostenne di avere visto la stampa per contatto di quel negativo e che vi si vedeva lo stesso miliziano della foto di nuovo in piedi qualche fotogramma dopo, il che dimostrava la messinscena.
Martinez mi disse che allora, soprattutto di quei rulli che arrivavano dal fronte ancora da sviluppare, non si facevano quasi mai le stampe per contatto, e in ogni caso di quel negativo non c’era più traccia: era andato perduto, o si trovava nella valigia in cui Capa aveva messo in fretta a furia tutto quello che aveva potuto racimolare di sue foto prima di affidarla a un amico nei giorni convulsi in cui l’arrivo delle truppe tedesche lo aveva costretto a imbarcarsi per gli Stati Uniti. Come aveva fatto Knightley a vedere la mai esistita stampa per contatto?
Fu quella la prima volta che sentii parlare della celeberrima valigia, spedita tempo dopo a Capa e scomparsa nel nulla.
Non ho alcuna intenzione né voglia di scrivere un ennesimo articolo per ripercorrere tutta la vicenda e i colpi di scena che l’hanno accompagnata.
Chi si vuole deliziare della vicenda faccia un giro su Internet e verificherà come su questa faccenda si siano scatenate tutte le mitomanie e i moralismi immaginabili. Ci si è persino messo qualche storico serio a scoprire l’acqua calda che ci sono documenti fotografici apparentemente veri ma ideologicamente falsi. Io personalmente, con molti altri, soprattutto fotografi, credo all’autenticità di quella immagine. Mi pare che le ricerche che hanno portato addirittura all’identificazione del povero miliziano anarchico, il giovane Federico Borrell, siano sufficientemente convincenti. E potrei farla lunga per spiegarne le ragioni. Ammetto però che la prova definitiva e inconfutabile, la cosiddetta pistola fumante, per dire che sia vera o falsa la foto, finora non c’è.
Ma ancora di più dei demolizionisti di professione mi irritano i tanti che dicono: ma che importa che la foto sia vera o falsa? La cosa importante è che sia diventata un’icona del ventesimo secolo. Ecco, questi vogliono demolire l’idea di fondo che io ho della fotografia, e difendere questa idea mi preme di più della difesa dell’immagine di Robert Capa.
Ma la ragione per cui ho pensato valesse la pena riprendere il dossier Capa è l’incredibile ritrovamento, diffuso qualche settimana fa, di una lunga, finora ignota intervista radiofonica fatta da Capa nell’ottobre del 1947. Beh, io ho provato una grande emozione nel sentire la sua voce. Capa parla anche di quella fatidica fotografia in questa intervista ed ecco un pezzetto di quello che dice : “E io mi trovavo là, in trincea, con circa 20 milicianos e quei 20 milicianos avevano 20 vecchi fucili e dall’altra parte della collina, di fronte a noi, c’era la mitragliatrice di Franco.
I miei milicianos sparavano nella direzione della mitragliatrice per cinque minuti, poi si fermavano e dicevano: “Vàmonos”, e uscivano da quella trincea e iniziavano a attaccare la mitragliatrice. È abbastanza ovvio che la mitragliatrice li falciasse….. La cosa si ripeté circa tre o quattro volte. Così alla quarta volta ho come messo la mia macchina fotografica sopra la testa pur non vedendo e ho scattato quella fotografia mentre loro uscivano dalla trincea. Non vidi mai le mie fotografie là, ma le inviai con molte altre immagini che avevo fatto in Spagna. Mi fermai in Spagna tre mesi e quando tornai ero diventato un fotografo molto famoso perché la macchina fotografica che avevo sopra la mia testa ritrasse un uomo nel momento esatto in cui venne colpito.”
Che altro, incredibile tassello, nella storia fin troppo romanzesca di quest’uomo. Endre Ernő Friedmann , giovane ebreo ungherese, comunista, in fuga dalla dittatura di Horty, approda a Berlino e comincia a fare fotografie. I nazisti arrivano al potere. Nuova fuga, a Parigi. Va a fotografare in Spagna, con la sua fidanzata Gerda Taro, che gli suggerisce di darsi un nome più facile e meno ebreo. Sceglie Robert Capa, per amore di Frank Capra. Gerda muore in Spagna, schiacciata da un cingolato. Lui diventa un famoso fotografo di guerra. Definizione che detesta. Arrivo dei tedeschi a Parigi. Nuova fuga in America. La valigia con le sue foto si perde nel nulla. Documenta tutta la seconda guerra mondiale. Si fa paracadutare in Sicilia, sbarca ad Omaha in Normandia. Fonda con quattro amici l’agenzia Magnum, che diventa mitica anche lei. Conosce Ingrid Bergman. Grande storia d’amore. Va ad Hollywood. Huston gli suggerisce di scrivere un’autobiografia per farne un film. Per caso accetta di andare in Indocina per Life e il 25 maggio 1954 salta su una mina. Colpo di scena, oltre quarant’anni dopo viene ritrovata in Messico la valigia perduta. Viene aperta, ci sono molte cose, anche di Gerda Taro e di Seymour, ma non il negativo della controversa foto del miliziano. Gli scettici, naturalmente, non ci credono. Adesso salta fuori la sua voce in questa emozionante intervista. Che sceneggiatura!