Ciò che perennemente scorre costringe a una moralità – Robert Walser
Se è vero che tutti i libri importanti sono nient’altro che manuali di orientamento, vere e proprie mappe nelle quali si entra per così dire, imparando senza quasi saperlo a districarsi nelle cose che ci succedono in vita, sono rari tuttavia quelli che si presentano come tali, puntando e indirizzandoci direttamente a una specie di metodo di apprendimento. Lo Jacob von Gunten si può leggere in questo modo, è godibile fino in fondo solo se viene ‘agito’, per così dire. A prima vista è il libro più inutile del mondo, a veder bene è invece utilizzabile per avvicinare diverse modalità cognitive, per un rapporto col mondo più pieno e godibile e meno scioccamente intrusivo e faticoso. Per tendere a far sì che quello che vogliamo coincida con quello che ci succede insomma.
Scritto nel 1908 quando Walser era ospite a Berlino di suo fratello, il famoso pittore Karl, rappresenta l’ultimo tentativo di avere, se non successo, almeno una certa considerazione. Il successo non arrivò e lui, sebbene subito amato da Kafka, Benjamin, Musil ed Hesse, avvertito il fallimento intraprese un’altra via che lo portò a tornare in Svizzera, ad accettare quello che Elias Canetti chiama il convento moderno, vale a dire il ricovero in strutture psichiatriche dove passò gli ultimi 27 anni, per morire poi nella neve il giorno di Natale del 1956, come aveva previsto e descritto più volte.
Un libro estremo dunque a cui aveva affidato la sua fortuna e invece significò la presa di coscienza della definitiva incompatibilità con la “pettegola consorteria letteraria”, ma che comunque rimase il suo più caro, come confesserà molti anni dopo a Carl Selig, definendolo solo “un po’ temerario”. La pretesa temerarietà va cercata certo nel suo mostrarsi bravamente fuori moda, con l’usuale improntitudine che è la vera e propria cifra espressiva dello scrittore il quale, qui come sempre, simula la timidezza e pratica la sfacciataggine. Ma soprattutto direi nell’ottica che propone, del tutto insolubile all’inizio del secolo che vedrà il trionfo di ideologie razionaliste di intervento e controllo, all’esterno come all’interno, della definitiva presa di potere di quello che è stato chiamato ‘imperialismo della ragione’. Non poteva, non doveva piacere, forse l’autore stesso se ne rese conto.
È un libro che si pone tuttora come universale, un libro attivo, che va alla radice e propone un cambiamento di rotta alla visione che abbiamo del mondo, giacché ovviamente “tutto dipende dal modo di guardare le cose”. Cambiamento o scaravoltamento che non può avvenire se non in seguito a un addestramento, a esercizi o espedienti che ci permettano di prendere in giro le nostre pretese di controllo su qualcosa che è pienamente vivibile solo se a quel controllo si impara a rinunciare. Ecco così l’addestramento, traverso le strambe vicende nell’Istituto Benjamenta, dove si studia “qualcosa di affatto diverso” che porta a diventare “un bello zero tondo tondo”. Quello che ci si presenta come Tagebuch, un diario di cui conserva l’aspetto formale, è di fatto un manuale densissimo, perfino troppo. Walser lo sa bene e lo dice anche, ma evidentemente non può fare altrimenti.
L’inizio è folgorante e programmatico, veniamo a sapere che con questo metodo si impara ben poco, “non conduce a nulla”, di sicuro non si impara il successo, piuttosto a disimparare i gravami che la civiltà ha accumulato sulla nostra percezione e la consapevolezza: “L’educazione che ci viene data consiste nel costringerci a fare precisa conoscenza con la costituzione della nostra particolare anima, del nostro personale corpo”. Quello che si propone è prima di tutto un apprendimento non compulsivo, tardo all’apparenza ma dal sapore molto antico, un apprendimento goccia a goccia, rituale, liturgico, con relativa indipendenza dal comprendonio che è quasi sostituito dal ripetere a memoria, con l’importante massima del “poco ma a fondo”, e sempre la stessa cosa. Un metodo che arriva tardi alle cose, anzi si potrebbe dire con un po’ di presunzione che sono le cose a un certo punto ad arrivare già assimilate: “Ci impadroniamo prima di una cosa, poi di un’altra, e una volta che ce ne siamo impadroniti quasi quasi è essa che ci possiede”, perché “niente è più salutare dell’adeguarsi a un ‘poco’ solido e sicuro”. L’intenzione è insomma quella di un’estrema semplificazione in quello che è comune a tutti.
Una vera e propria gamma di esercizi, con addirittura una parte teorica e una pratica che suggeriscono posture, fino all’allenamento del respiro, al fine di acquisire una particolare qualità dell’attenzione: “Sto attento, e così la vita diventa bella, perché se non si è costretti a stare attenti, si può dire che non ci sia neanche vita”. È un atteggiamento della mente che è necessario imparare o forse reimparare, una qualità del pensiero che attraverso l’attenzione può permettersi di non aspettarsi nulla, visto che la reazione sarà comunque adeguata. Chi non impara a disidentificarsi da quello che gli passa per la testa, chi “si trattiene coi suoi pensierucci per lo più in tutt’altri luoghi che non nel regno e nel giardino dell’attenzione”, non ha alcuna possibilità di essere non solo efficace ma neppure elegante, e nessuno più di Walser può affermare che “conformarsi è più elegante, assai più elegante che non il pensare”. L’esercizio principale quindi ruota attorno all’assunto che “uno che si applica a non pensare, fa qualche cosa, ebbene proprio quella cosa è più necessaria”.
Certo l’intento plausibile o dichiarato è di non avere davanti un obiettivo da raggiungere, quale esso sia (“vietato guardare lontano inutilmente”), però questo mirare non intenzionale produce un uso della mente che ha sapore naturale, “estremamente manovrabile, pieghevole, duttile”. Ciò che qui viene detto naturale o originario non ha a che fare con un ritorno allo stato primigenio, ma l’accenno alla primordialità serve soltanto a sviluppare un’abilità, “una specie di dono divino”, un potere che, con tutta evidenza, ci appartiene da sempre. Uno degli aspetti più evidenti del potere che si sviluppa è la capacità di abbracciare simultaneamente punti di vista differenti, anche opposti, con il riconoscimento che gli opposti non sono contrari, ma polari o interdipendenti, e che vi è qualcosa che può venire alla luce da una consapevolezza più piena di quella tracciata dalla linearità logica.
Esperienza culmine di questo processo è il sogno estatico di Jacob, quando la maestra lo porta negli appartamenti interni, dove si abitua ai pensieri come apparizioni, ad “amare la necessità, ad averne cura”, per ammorbidire il “rigore inesorabile”. È così che si impara che per essere un po’ liberi non ci si può innamorare nemmeno della verità o della libertà, visto quanto esse sono condizioni provvisorie, piacevolmente instabili, impermanenti nelle quali “bisogna sempre muoversi”, bisogna danzare, per “entrare da valorosi nell’inevitabile”.
A qualcuno non sfuggirà che l’ubbidienza alla regola qui somiglia troppo a quella che spesso è stata tradotta come Via, ma che verrebbe meglio semplicemente come metodo. E non dovrebbe sfuggire inoltre la completa e direi stupefacente aderenza del metodo-Benjamenta con i dettami di alcune filosofie orientali, pragmatiche e operative, in particolare della taoista cinese.
Ora nessuno sa, e non credo faccia parte della vasta letteratura critica, se e quanto Robert Walser abbia letto i libri della tradizione filosofica taoista. E del resto importa poco, visto l’assunto principale di tale filosofia, per il quale l’unica cosa veramente importante a cui deve tendere un taoista è non sapere di esserlo, o almeno dimenticarsene o ricordarselo molto poco, e, nel caso più imperfetto e subordinato, non parlarne. Del resto qui, “quando un allievo dell’Istituto Benjamenta non sa di fare il suo dovere, è allora che lo fa. Mettiamo invece che lo sappia, in quel caso tutta la sua grazia e la sua bravura spariscono e commette un qualunque errore”. È vero che al taoismo fa cenno sempre Canetti, sostenendo che Walser è “taoista per natura, non ha bisogno di diventarlo come Kafka”, ma la sua intuizione resterà comunque senza seguito, e sul taoismo di Kafka poi ci sarebbe molto da dire.
Eppure tutta l’opera dello scrittore bernese, se osservata da questo particolare punto di vista, altro non è che un coerente e perfino meticoloso dispiegamento di indicazioni e descrizioni al riguardo. Anzi si può dire che lo testimonia parola per parola, esercitandolo attivamente in tutta la sua scrittura anche posteriore, nell’andamento ondivago dei pensieri narrativi scritti nella condizione in cui si raggiunge il risultato senza volerlo, nelle parole che sembrano cancellarsi via via e ci restituiscono una sorta di vertigine non violenta, in quella specie di brezza spontanea che sembra bucare le pagine, e comunque sempre nella laica, semplice e squisita fiducia o meglio certezza che “Dio va con chi è libero dai pensieri”.