“Parigi era per me luogo di misteri. Uno sfondo perfetto: l’hotel Drout, i boulevards, la Pagode, i passages, la stazione della metropolitana, la piccola soffitta di rue des Saints-Peres, il Cafè de Flore, la bella dama vestita di bianco”.
Filippo Tuena, Il volo dell’occasione
Il crocevia di Saint Germain è la frontiera tra due mondi, tra due tempi, tra due illusioni. Il punto di contatto di una realtà magica e sospesa, tra passato e presente, “reale” e “fantastico”, destino e abitudine. Il lapis Niger, l’aleph, l’origine e il termine di ogni cosa. L’inizio e la fine di un immateriale labirinto. In questo scorcio parigino si inscena, infatti, una macabra e curiosa tragedia, che accade tra le pieghe della quotidianità più grigia e dell’abitudine più compassata con la stessa precisione di un vecchio orologio a pendolo o con la stessa monotonia di un carillon consumato.
Una tragedia, misteriosa, ciclica, abitudinaria, onirica che viene inscenata ogni giorno come uno spettacolo teatrale, a cui (quasi) tutta Parigi assiste inconsapevolmente. È la storia di Renant, un grigio musicista con eleganza da rigattiere, che, esausto del suo amore non ricambiato per la “sua” Blanche (una donna troppo bella, troppo giovane e troppo avida di piaceri e ricchezze per i suoi miseri ritmi), decide di ucciderla insieme al suo abbiente ed esotico amante turco Altay. Renant progetta di liberarsi del suo rivale, della sua beneamata compagna, della sua insapore esistenza in maniera desueta utilizzando un antico orologio come arma del delitto e la corda del suo logoro contrabbasso come cappio. Un progetto che metterà in scena mettendo la parola fine sulla sua triste vicenda.
Sennonché, a poche ore dalla sua attuazione questo macabro rituale ricomincerà da capo come in una scala di Penrose senza fine o inizio. I personaggi ritorneranno il giorno dopo al loro posto, come se non fosse ancora successo niente, alla ricerca di un dettaglio fatale che poi li accompagnerà verso la loro fine: una corda di contrabasso, un incontro “inaspettato”, un portasigarette d’argento, un maledetto orologio del 1948. Finché questo copione finirà e poi ricomincerà come ogni volta per l’inganno consueto.
È un dramma perpetuo e assurdo, che ogni volta termina per poi ricominciare seguendo una ferrea e inspiegabile ciclicità, quello in cui si imbatte il protagonista-narratore de “Il volo dell’occasione” di Filippo Tuena, recentemente ripubblicato da TerraRossa edizioni a trent’anni dalla sua prima apparizione (e mai termine fu più adatto per una storia come questa) nel 1994.
Protagonista di questa vicenda è uno scrittore, alter ego del suo autore, che passa le sue giornate, ipotizzando libri e studiando dettagli e scene di vita comune che per puro caso si imbatte in questa commedia spettrale e nei suoi protagonisti. Il narratore, infatti, finisce per partecipare alla rituale messa in scena del dramma di Renant, Altay e Blanche, e pensando di risolverlo, finisce per diventarne l’inconsapevole testimone e cronista. Più volte cercherà di intervenire, di risolvere o fermare questo dramma, ma ogni suo tentativo più che impedire l’esecuzione di quella performance, ne correggerà e completerà lo svolgimento. Finirà anche lui per diventare un personaggio di questa finzione, che man mano che inizierà a raccontare, scoprirà, vivrà e costruirà. Portando il lettore in una discesa in un mondo di attese e paradossi.
Rilke e il suo doppio
Ne emerge un romanzo di fantasmi, di spettri, di ombre dai tratti borgesiani sullo sfondo di una Parigi in cui il tempo è uscito dai suoi cardini, a metà tra Dark e Midnight in Paris, i racconti di Poe e i romanzi di Philip K Dick. Un romance più che un novel, come direbbe Nathaniel Hawthorne, in cui il lettore non è solo un passivo spettatore ma un coautore, un coprotagonista silenzioso che insieme al narratore costruisce e scopre il romanzo mentre lo vive. Scoprendo un mistero che mentre viene rivelato inizia a dissolversi in un evanescente gioco di inseguimenti e visioni. La Parigi di Tuena sembra, infatti, un recinto magico in cui la realtà si inscena come in un grande teatro incantato dove i personaggi sono attori di un copione ciclico e invisibile, mossi come burattini da un destino che gli regala l’illusione di fare ciò che vogliono, ma non di volere ciò che vogliono. Destini su cui insistono le suggestioni e le impronte dei romanzi di James e delle fantasmagorie di Poe, la magia vaga e indefinita delle poesie e dei racconti di Borges, lo spleen di Baudelaire e il tempo ritrovato (e perduto soprattutto…), oltre che alcune allusioni shakespeariane. Mostrando un gusto art decò e liberty che si anima di suggestioni felliniane fatte di illusionisti, sogni, fantasmi, misteri.
“Il volo dell’occasione”, poi si presenta come un romanzo che sembra uscito dall’immaginazione melodrammatica e sorniona di Henry James, a metà tra le fantasie europee di The Ambassadors e il mondo fantasmatico e misterioso, gotico e onirico del Giro di vite. Un gotico “metafisico” tra atmosfere dechirichiane e immagini laytoniane dove luoghi, talismani e amuleti sembrano custodire un incombente senso di fatalità e calamità. Allo stesso tempo però l’opera di Tuena si presenta, anche come un apologo sul tempo e sulla scrittura oltre che un laboratorio delle tematiche e delle tecniche delle opere future del suo autore.
Il protagonista è, infatti, sia un narratore che un’allegoria del narratore che conduce simbolicamente, ma anche tecnicamente, il lettore nel retroscena del romanzo, nel momento in cui si forma, si compone, si rivela. La ricerca dei personaggi è in fondo una sua creazione, la descrizione della realtà una sua evocazione, la loro ricerca è la ricerca del suo demiurgo, che in maniera implicita ci pone di fronte alla genesi della sua scrittura. Tanto che, quando la ricerca termina, essa non si risolve, ma si dissolve nel suo mistero.
Ma alla riflessione sul tempo, nascosta dietro un racconto di fantasmi, si alterna unisce una struttura narrativa che realizza un romanzo fatto di apparizioni, attese, riflessi e transiti. Tuena, infatti, col suo stile raffinato e sornione, suggestivo e plastico, ma anche intrigante, mostra al lettore una Parigi stregata, fatta di dettagli liberty, tra Govoni e Woody Allen, in cui una Francia distillata da tante letture, da tanti dettagli e da tante visioni compone un giallo metafisico, sul tempo, sull’eterno, sulle passioni.
L’opera non è però pedantemente un romanzo a tesi, ma una vera storia di ombre e di mistero, dove al posto dell’occulto c’è la forza soprannaturale del tempo, e dietro alla ricerca giallistica della risoluzione del crimine c’è una vera indagine, che però si rivela, metafisica, immaginativa, esistenziale. In cui alle divagazioni sull’impotenza umana davanti al destino delle cose, si alterna il sentore gotico (più americano che europeo) della muffa dei fantasmi, e del terrore dell’invisibile, dell’incombenza di fili tirati da altri (o da altro…).
“Il volo dell’occasione” si presenta quindi, in un modo tutto suo, anche come una sorta di propedeutica all’opera di Filippo Tuena, alla sua narrativa, al suo stile, alle sue tematiche. Pur apparendo come un testo così distante da opere “mature” come “Le Galanti”, “Le variazioni Reinach” e “La voce della Sibilla”, questo libro può essere colto come un romanzo-laboratorio, in cui tutti i temi e gli stilemi, le tecniche e le atmosfere che rendono personalissimo lo stile e il mondo di Tuena possono essere colti nel loro più originario momento di esordio. Il ruolo del narratore, non solo come mero espositore ma come commentatore, coprotagonista, operatore mediato in questo caso dalla narrazione in prima persona che poi si ritroverà in “Ultimo parallelo”; l’attenzione alla dimensione onirica della realtà come trampolino per il sogno e l’altrove, che poi animerà “In cerca di Pan”; la riflessione sulla letteratura il suo ruolo e i suoi meccanismi come chiave del testo, centrale in “La voce della sibilla”. Tutti elementi che proprio in questo testo fanno il loro primo esordio.
Leggere “Il volo dell’occasione” vuol dire, in sintesi, avventurarsi in un racconto sulla perdita, sul mistero, sulla malinconia, sulla non ripetibilità del tempo. Che lascia il lettore divertito e stregato, incupito e perplesso, mentre si chiude l’ultimo sipario su Blanche, Altay, Renant, su Parigi, con il proprio consumato silenzio, e il buio avvolge la scena, mentre anche l’ultima occasione si consuma.
“Cos’è che mi rende triste?
L’occasione.
L’occasione che s’allontana.
E il tempo che mi porta via. Poco alla volta, attimo dopo attimo, giorno dopo giorno”.