Seduto su un letto disfatto dall’incongrua struttura di bambù, in una stanza traboccante di panni, carte, libri, quadri, cianfrusaglie, il poeta Sandro Penna legge ad alta voce, in un tono cantilenante in cui è ancora sensibile l’accento umbro: “La vita… è ricordarsi di un risveglio triste in un treno all’alba…”. La camera stringe sul suo corpo: Penna si ferma, sfoglia le pagine dell’edizione Garzanti che tiene in mano, si distrae, commenta, fa battute, si schernisce (“sono cose un po’ romantiche”, dice). L’immagine inquadra ora il suo volto in primo piano: sceglie un’altra poesia, la recita con voce cadenzata (“io leggo i versi proprio come sono scritti”), poi smette, si lamenta dei suoi malanni, parla al telefono, chiede di fermarsi, tace.
È una sequenza memorabile di Umano non umano, un lungometraggio girato da Mario Schifano tra 1968 e ’69 (16 e 35mm, 95’), che forma insieme a Satellite (1968) e Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani (1969) una compatta trilogia, unica nel panorama dell’underground italiano, in cui l’artista estendeva al mezzo cinematografico la sua indagine sulle trasformazioni dell’immaginario nell’epoca dei media e della società di massa.
Il film, che fu presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel settembre ’69, esattamente cinquanta anni fa, mescola documentario e fiction: scene di vita urbana contemporanea – un picchetto di scioperanti, un livido party altoborghese, cortei di piazza –, si alternano a immagini di attualità riprese direttamente da uno schermo televisivo in bianconero – si riconoscono frammenti della guerra in Vietnam, della rivoluzione culturale cinese, dell’occupazione sovietica di Praga nella primavera ’68 –, e a scene di desolata vita coniugale di diretta ispirazione teatrale. Alcuni segmenti contengono cammei di celebrità del rock (Mick Jagger e Keith Richards), di artisti e scrittori contemporanei, da Alberto Moravia ripreso sulla spiaggia di Sabaudia, a Jean-Luc Godard (il cui stile idiosincratico è uno dei modelli di questo film e in genere del cinema di Schifano), a Carmelo Bene e Franco Angeli, che realizza, con un gesto che ibrida performance e land art, una grande falce-e-martello bianca sul fianco di una collina.
In Umano non umano Schifano sembra aspirare insomma a fornire un fermo immagine del mondo contemporaneo, un’istantanea scattata a una certa distanza, a metà strada tra il piano ravvicinato di Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani e lo “sguardo dal di fuori” di Satellite. Come scrissero Adriano Aprà e Piero Spila, nel film “la realtà percepita non è più caotica né astratta ma selezionata e soprattutto, selezionabile. Il caos delle apparenze si è composto: l’autore-creatore ha separato la luce dalle tenebre, la terra dalle acque. Emergono nuclei di realtà omogenei e autonomi. La tensione del film al cerchio, all’armonia, porta alla giustapposizione di blocchi di realtà il più possibile diversi tra loro, e tali da esaurire un campo ideale di possibilità. Lo spettatore è posto di fronte a questo cerchio come a un muro uniformemente scandito dalle immagini televisive. Nessun percorso definito che lo aiuti ad orientarsi, nessuna evoluzione e consequenzialità che stabiliscano per lui una dialettica di prima-dopo, o di interno-esterno (come in Satellite e Trapianto): il loro ritmo è quello di un cosmico presente continuo” (da Trilogia per un massacro, in “Cinema e film”, n. 9, 1969)
Il “non umano”, secondo la traccia fornita dal titolo di ispirazione nietzschiana, vale a dire, nella prospettiva di Schifano, la società consumista, il quotidiano violento, spettacolare e mercificato, la guerra e l’imperialismo occidentale, si contrappone nel film all’“umano” delle pulsioni, del desiderio, della ribellione, delle lotte operaie, osservate da un punto posto a “distanza siderale”, come scrivevano ancora Aprà e Spila, da cui le cose si presentano “con i loro contorni precisi, decisi, depurate di ogni accidentalità, punti di riferimento sicuri, sprigionanti tutta e sola energia vitale”. Questi “blocchi di realtà”, osservati con una fissità impassibile che richiama lo stile dei film di Andy Warhol, non prevedono evoluzione, prima-e-dopo, sbocco emotivo o scioglimento narrativo.
La successione di quadri statici, i parallelismi insistiti, quasi da teatro didattico, il procedere per progressiva accumulazione, convergono verso un centro di gravità, il corpo, come agente insieme erotico e politico esplorato nelle sue manifestazioni pubbliche e private, nel suo potere sessuale, nella sua apoteosi narcisista, come epicentro di un movimento di emancipazione individuale e collettiva, come vittima di violenza. Un corpo estetico, anche, che si manifesta nel montaggio ritmico di frammenti di una realtà non più circoscrivibile alla misura del quadro e della pittura (“Oggi la pittura sembra finita” è la prima, significativa battuta del film, pronunciata in voice over dallo storico d’arte Maurizio Calvesi) perché dimostratasi definitivamente indocile, contraddittoria, refrattaria ai tentativi di imporle una forma, una finalità. Tanto più significativa risulta allora l’ultima sequenza del film, una grande manifestazione sindacale in Piazza San Giovanni a Roma dove un gruppo di operai porta in corteo lo striscione del loro stabilimento, un nome che deve aver colpito Schifano come un’apparizione inattesa, un’epifania: “Apollon” (a questa stessa vicenda Ugo Gregoretti dedicò un suo documentario, Apollon: una fabbrica occupata, uno dei più noti esempi di cinema militante degli anni Sessanta italiani).
Sandro Penna è ripreso nella casa in cui abitava ormai da tre decenni e dove rimarrà sino alla morte nel gennaio del 1977 – quattro stanze al numero 28 di via della Mola dei Fiorentini, al quarto piano, interno 7, in un angolo della Roma rinascimentale prossimo al Tevere – una casa-tana dall’indescrivibile disordine in cui Elio Pecora ritrovò dopo la morte del poeta un tesoro di manoscritti inediti, lettere, appunti, scartafacci e registrazioni su nastro. La cinepresa di Schifano penetra senza esitazioni in questo interiéur così particolare, dove Penna, ha scritto Renato Minore in un suo vecchio articolo, “veste gli stracci di una nobiltà poetica da barattare con niente e con nessuno”. La prima inquadratura – a camera fissa, come le successive – rivela la stanza dove aveva vissuto la madre di Sandro, ora traboccante di tele addossate le una alle altre o appese alla rinfusa, di cornici ammucchiate sul letto, scenario fantasmatico e angusto in cui il poeta interpreta simultaneamente i ruoli del disincantato spettatore dei capricci del gusto e del rapido mutare delle maniere, dello scaltro mercante (“la gente che viene da me, insomma, non è molto per l’avanguardia, compra più che altro roba molto figurativa, spesso brutta”, confessa) e dell’amico e tempestivo sostenitore degli artisti a lui vicini in quegli anni Sessanta, da Tano Festa (“Guarda, adesso dipinge così, una pittura che potrebbe anche essere commerciale”, dice sollevando un suo quadro) a Francesco Lo Savio allo stesso Schifano.
Nella sequenza, accompagnata dall’elegiaco terzo movimento de Le Tombeau de Couperin di Maurice Ravel e dall’eco onnipresente del battito cardiaco, Schifano detourna il formato delle interviste ad artisti e scrittori in onda nella televisione italiana di quegli anni (il geriatrico, roco e irresistibile Ungaretti, il burbero e ironico De Chirico), dove la voce fuori campo dell’intervistatore, autoritaria o melliflua, sottoponeva il malcapitato al rituale della lettura o della pennellata “in esclusiva” per i telespettatori. In Umano non umano questa presenza è tuttavia annullata: ne resta solo traccia negli ammiccamenti di Penna, nel “tu” familiare con cui il poeta si rivolge all’interlocutore fuori campo, nel gioco degli sguardi, nei sorrisi.
La pantomima del candore, della svagatezza, dell’affabile reclusione inscenata di fronte alla cinepresa, i vezzi, la sua faccia rugosa di vecchio bambino, i grandi occhi malinconici, i capelli impomatati e probabilmente tinti, ci mettono di fronte, con la forza di una testimonianza oculare, l’eccezionale estraneità di Penna, alla sua singolare protesta contro tutto e tutti, ingannevole e testarda strategia di salvezza dal male per tramite paradossale di un’ossessione (la “pederastia”), che Garboli definì “una forma di resistenza alla propria oscurità e modernità”. In altre parole, ci mostrano la sua persuasione, per quanto ingannevole, di poter contare su un accesso diretto, innocente alle cose, su una percezione corporea totalizzante, origine e meta di quella felicità naturale in cui il poeta si riconosceva “prigioniero” e che si traduceva nella forma più solare e numinosa dell’eros, della sempre fugace soddisfazione del desiderio. È da questo corpo desiderante, “intriso di una strana / gioia di vivere anche nel dolore”, che sgorga come un “fiore senza gambo” una poesia fuori dal tempo e fuori dalla storia, abbagliata dalla pienezza sensuale di un mondo sempre identico a sé e sempre fuggente.
Nel maggio del 1975 esce Scritti corsari, il libro in cui Pier Paolo Pasolini raccoglie i suoi articoli usciti sul “Corriere della Sera” tra il 1973 e il ’75 e gli scritti critici, perlopiù recensioni, comparsi nello stesso periodo sul settimanale “Tempo”. Il primo di questi brevi saggi, una recensione al libro di Sandro Penna Un po’ di febbre pubblicato da Garzanti nel 1973, rivela la visione dell’Italia che Pasolini ha maturato negli anni che conducono alle prove estreme di Salò e Petrolio. Inizia con un attacco diventato celebre: “Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo!”. Quella dello scrittore è la descrizione potentemente nostalgica di un corpo luminoso, delle sue forme, del suo paesaggio, dei suoi abitanti, dei loro caratteri e comportamenti, e un accorato compianto per il drastico cambiamento che quel corpo ha subìto. Sono i ragazzi, gli stessi amati dal poeta che sta recensendo, i veri protagonisti del ragionamento di Pasolini, sono loro la chiave della trasformazione, il metro sul quale misurare l’ampiezza della perdita, i ragazzi nei quali brillava “una intensità e una umile volontà di vita […], un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo”. Così erano i giovani uomini che vivevano un tempo in quella “Arcadia cristiana” che era l’Italia, l’“umile Italia” anzi, e la sua antica civiltà di borghi, campagne, città, cantata ad esempio ne Le ceneri di Gramsci (1957), l’Italia come tradizione poetica e figurativa di sapore inequivocabilmente longhiano – da Giotto e Masaccio al manierismo, da Caravaggio a Morandi –, come corpo da amare e al tempo stesso come fattore di identificazione estetica e civile, sfidato e forse sommerso dal frastuono della modernità, ma non ancora spento.
In quell’Italia vagheggiata e già scomparsa, il corpo efebico dei ragazzi e il corpo del paesaggio – lo ha notato Marco Belpoliti in un suo intenso saggio sul “doppio corpo” di Pasolini – diventano nella scrittura pasoliniana un’unica cosa, insieme un vincolo di autenticità, un ideale estetico e l’innesco di una insaziabile tensione erotica: “la naturale sensualità, che restava miracolosamente sana malgrado la repressione, faceva sì che essi fossero semplicemente pronti a ogni avventura, senza perdere neanche un poco della loro rettitudine e della loro innocenza. Anche i ladri e i delinquenti avevano una qualità meravigliosa: non erano mai volgari”. Il riferimento sono qui gli scenari di Accattone (1961), ingombri di rovine o chiusi dalle file compatte dei palazzoni: un paesaggio di borgate, povera gente, ladruncoli e coatti, di cui Pasolini espone, idealizzando in entrambi i casi, insieme la fisicità intensa e il candore morale.
Nel 1975 tutto questo è ormai solo un’eco spettrale: come avrebbe scritto Pasolini in un altro articolo per il “Corriere della Sera” poco prima di essere ucciso, “tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione […] Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo ‘corpo’ neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato se stessi in Accattone […] Ecco perché dicevo che Accattone, visto come un reperto sociologico, non può che essere un fenomeno tragico”. E tragiche sono infatti per Pasolini le conseguenze di una “mutazione antropologica” – la definizione è celebre – che avrebbe strappato l’Italia dal suo millenario assetto contadino e paleoindustriale per proiettarla nel mondo omologato della tecnica, del consumo, dell’edonismo, un mondo, avrebbe scritto, in cui erano scomparse le lucciole – una metafora, da molti in seguito mal compresa, in cui la memoria struggente della civiltà contadina si fonde all’immagine palpitante e sempre inafferrabile dei ragazzi di vita. Ora invece, scrive, tutto è laido, pervaso da un mostruoso senso di colpa. I ragazzi sono divenuti “brutti, pallidi, nevrotici”, la stupidità li ha catturati, sono presuntuosi, ghignanti.
In Un po’ di febbre Sandro Penna rievocava proprio quel paese e quei ragazzi, così come erano almeno fino a pochi anni prima, prima della scomparsa delle lucciole. Penna è il cantore del tempo perduto, del tempo dolce in cui i corpi dei ragazzi erano ancora belli e leggiadri come in una poesia. Di lui scrive ancora Pasolini in tono confidenziale:
Niente lo distrae da quella meravigliosa avventura che si ripete ogni giorno: svegliarsi, andare fuori, prendere a caso un tram, camminare a piedi là dove vive il popolo, fitto e chiassoso nelle piazze, disperso e intento ai suoi quotidiani lavori nelle lontane periferie lungo i campi”.
Lì, nei campi, ci sono quei ragazzi che entrambi desiderano per i loro corpi, per il sorriso che Penna celebra nei suoi versi leggeri e intensi, ma anche per l’abitudine a un’obbedienza, a un malinteso “rispetto”, ormai semplicemente impensabili in una società postclassista livellata dai consumi e dai nuovi stili di vita, un’epoca in cui il sentimentalismo idealizzante e l’intimo decadentismo di Pasolini non possono certo avere più spazio. La recensione pubblicata in Scritti corsari è così il perfetto pendant, simmetrico e rovesciato, di un altro articolo famoso, sempre apparso sul quotidiano milanese e dedicato ai “capelloni”. Là erano i ragazzi con i capelli lunghi, falsi e imbruttiti, qui sono i ragazzi dalle belle nuche. Due mondi o meglio, due corpi che si fronteggiano, secondo una dialettica centrale nell’ultimo periodo della vita di Pasolini e che ha il suo apogeo luttuoso e terribile nello spaccio sadico e voyeuristico dei giovani corpi femminili e maschili nell’ultima scena di Salò.
Alla poesia di Penna Pasolini aveva dedicato una lunga fedeltà critica, leggendolo e commentandolo già sui giornali studenteschi, nei fogli delle associazioni fasciste bolognesi, nelle rivistine realizzate con gli amici negli anni Quaranta, in piena guerra. Se su “Architrave” e “il Setaccio” il giovane Pier Paolo apprezzava la purezza, la diversità dei versi di Penna, più tardi, negli anni Cinquanta, dopo l’arrivo a Roma, l’incontro con il poeta farà nascere anche una complicità attecchita sulla comune matrice omosessuale: Sandro diventa un compagno di scorribande lungo le rive del Tevere, le marrane e i viali, sui barconi, nelle strade della Città Eterna. E questo nonostante la radicale differenza tra il suo eros, “femminile, androgino, da discreto mistero umbro”, come osservò Cesare Garboli, e quello virile, sadomasochista, “da flagellazione caravaggesca”, di Pasolini, già ben percepibile nei suoi primi racconti romani e nelle pagine inventive di Ragazzi di vita.
Ma è nel passaggio tra metà e fine anni Sessanta che lo scrittore sente che Penna è diventato per lui qualcosa di più di un poeta prediletto e di un compagno di avventure. Egli rappresenta, in quel momento di svolta per l’intera società italiana, una sorta di esempio assoluto di autenticità, anzi di “vitalità incorrotta, premorale e infantile”, come l’ha definita Matteo Marchesini su doppiozero, mitica e irraggiungibile. I ragazzi dei versi di Sandro, maestro di francescana letizia omosessuale, sono persi per sempre: il mondo intero sembra crollare intorno a Pasolini, al quale non resta che la disperata vitalità del proprio stesso corpo, quella forza che gli aveva fatto già dire in un’intervista: «amo la vita così ferocemente, così disperatamente, che non me ne può venire bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza:… e io divoro, divoro, divoro… Come andrà a finire, non lo so». Simili e profondamente diversi, Penna e Pasolini diventano gli emblemi viventi di un passaggio verso una realtà differente, su cui si proiettano i segni della tellurica trasformazione in atto nel paese.
In una lettera a Penna, scritta nel febbraio del 1970 e diventata con alcuni ritocchi un “segnalibro” per la seconda edizione delle Poesie uscita quello stesso anno, Pasolini vedeva sommarsi nella personalità del poeta santità e buffoneria, qualità che lo avevano spinto a cercare godimento e salvezza “in cose considerate da tutti futili, remote, incomprensibili, infantili e sconvenienti”. E questa santità anarchica “riguarda più la sua poesia vissuta che la sua poesia scritta”: è la prima infatti a “contare veramente, per chi […] riesce a intravedere in essa ciò che vale al di fuori di ogni valore: la santità del nulla.” Ed è in fondo proprio la forza di una poesia vissuta come “illimitatezza sentimentale” il tesoro ritrovato nel film di Schifano, testimonianza di una aspirazione totalizzante a una vita al di sopra delle distinzioni sociali, della dignità, del decoro persino, come ha scritto Elio Pecora, in cui affermare la strana regalità dell’artista-Penna, sovrano malinconico e martire del proprio intransigente universo.