L’avventura artistico-letteraria di Alba de Céspedes è segnata da un cosmopolitismo in anticipo sui tempi e da una fiera militanza. Non c’è modo qui di ripercorrere le tappe salienti del suo processo di formazione ma è opportuno ricordare almeno la sua doppia radice, metà cubana e metà italiana, la tensione costante verso un senso vivo della libertà e della giustizia, la precoce esperienza di madre e di donna separata, che la costringe a guadagnare per vivere fino in fondo la sua indipendenza. Sarà la scrittura a darle il lasciapassare per un’esistenza autonoma e responsabile, a cui si abbinerà presto l’esercizio pubblico dell’intelligenza attraverso i canali della stampa periodica (paradigmatica in tal senso la direzione della rivista «Mercurio» in quanto atto di resistenza culturale).

L’incontro con il cinema è precoce e duraturo, nonostante la prudenza iniziale («quello che voi chiamate il mio ingresso nel cinema altro non sarà che un rapido passaggio. M’allontano vigliaccamente come si fugge da una donna bella per tema di restarne prigionieri» – Ho paura del cinematografo, «Film», 12 dicembre 1942), e viene scandito da una suggestiva ambivalenza tra vita e forma, produzione e ricezione, generi e volti. Se l’attività di sceneggiatrice, già accreditata dalle feconde analisi di Lucia Cardone, resta forse il capitolo più interessante dei suoi scambi intermediali, le note a margine affidate a periodici o a rotocalchi offrono un ritratto mosso dello sguardo della scrittrice, capace di sostare ai bordi dello schermo e di lasciarsi conquistare dai sogni vellutati della commedia americana o dai palpitanti corpi del neorealismo.

I grandi temi che attraversano la scrittura romanzesca di de Céspedes tornano, anche se con sfumature diverse, negli articoli dedicati al cinema, a testimoniare una profonda circolarità di idee e simboli dentro il macrotesto dell’autrice. La dialettica fra interno ed esterno ad esempio, cioè una delle strategie del racconto di de Céspedes, diviene presto metafora del suo rapporto con la sala, intesa come luogo di «dolci estasi», distante dal clamore della città.

Il pezzo che qui presentiamo si apre proprio con l’indicazione di una precisa consuetudine («Mi piace andare al cinema di pomeriggio»), che anticipa il vero motivo d’interesse del brano, ovvero la descrizione di un ‘modo’ spettatoriale deciso e consapevole, votato a un principio di evasione e incanto. A rendere possibile questa fuga nel regno della “favola” è Katharine (Caterina) Hepburn, ricordata di recente da Emanuela Martini per Film Tv nell’anniversario della sua scomparsa, protagonista di delicate screwball comedy in cui appare – secondo l’attenta lettura di Mariapaola Pierini – «sofisticata, eccentrica, risoluta ma romantica […] capace di sapersi destreggiare con i tempi “matematici” della commedia» (Hepburn-Grant: una coppia brillante, in Cary Grant. L’attore, il mito, a cura di G. Alonge e G. Carluccio, Marsilio, 2006). Il «tempo artificiale» di Holiday di Cukor (Incantesimo per la distribuzione italiana, 1938) accende la fantasia di de Céspedes, che sceglie di guardare all’effetto di presenza di Hepburn, alle traiettorie della sua performance; la sua penna sembra ricalcare le morbide superfici degli abiti dell’attrice, anche se poi è il suo passo a incarnare lo spirito del testo («Attoniti la sentiamo camminarci addosso col suo passo irreale»). L’immagine-guida del film per la scrittrice è «la stanza dei giochi», uno spazio separato – di evidente matrice woolfiana – che richiama e accoglie l’inclinazione prima della protagonista, quel «favoleggiare» che resta probabilmente il lemma chiave dell’articolo. La radice stessa del rapporto di de Céspedes col cinema sembra ispirarsi allora al principio coltivato da questa «poetica ragazza» nel chiuso della sua stanza: il grande schermo, prima dell’ingresso nel vortice della produzione al fianco di Blasetti, è una sorta di mondo di mezzo («mezzo infantile mezzo nevrastenico») entro cui avvolgersi, per ritrovare il distacco e l’armonia giocosa dell’infanzia. (Stefania Rimini)

 

 

Caterina Hepburn presentata da Alba de Céspedes

 

Mi piace andare al cinema di pomeriggio perché la sala è colma di ombra soffice, un’isola d’ombra nella città ancora tutta chiara e viva. Contro le porte ovattate i rumori di fuori si frangono, si spengono addirittura. Lì dentro si respira in un clima di benessere, perduti in una dolce estasi. Mi piace, seduta al buio, ascoltare la musica, appesa al filo di una delicata vicenda d’amore. Perciò non amo il film di massa, le fanfare, le battaglie cruente. E ancora meno mi piacciono le commedie americane, dove si vedono entrare liberamente nello schermo come in casa propria, volgari “yankees” che sparano colpi di rivoltella, percorrono in automobile la città di cartone rincorsi dalla sirena della motocicletta inseguitrice, strapazzano dattilografe procaci e stupidelle. Mi pare così che la sala oscura non mantenga la sua promessa, che improvvisamente lasci entrare lì dentro tutto quanto mi disturbava fuori. Amo invece, seduta al buio, vedere entrare nello schermo la magica figura di Caterina Hepburn. Mi sembra che al suo apparire ogni cosa si trasformi, che lei soltanto sappia raccontare la favola che mi interessa: ella porta sullo schermo, e ce lo mostra e ce lo svolge come una sciarpa di seta, il miracolo del suo mondo interno, quello che appare nei grandi occhi trasognati. Attorno a lei, in ogni trama, vivono personaggi che non la comprendono. È la ragazza sposata di Primo amore, è la sorella ribelle di Incantesimo, è la collega ambigua di Palcoscenico. In ogni film ci narra come, al suo nascere, la cicogna che la portava verso chissà quali meravigliosi destini se la sia lasciata sfuggire dal becco ed ella sia caduta per caso nella famiglia meno adatta a riceverla.

 

Ma lei non se ne preoccupa; immediatamente, dovunque, alza la sua tenda come gli zingari. Si fabbrica un mondo di cartone, di stracci, si mette addosso un vestituccio di percalle. E poi si muove, e cammina. Allora, miracolosamente, quanto è attorno, rispecchiando la sua grazia, appare di colpo grazioso anch’esso. L’abitino di cotone diviene di preziosissima seta, lo scenario miserabile s’annobilisce. Basta che lei percorra due volte lo schermo con quel suo armonioso modo di camminare. Si diffonde attorno una luce che ha sorgente in lei, nelle sue movenze. Poi, in primo piano il viso nervosissimo, gli occhi. Poche decine di metri di pellicola. E tutti gli spettatori entrano al suo seguito nella favola. Allora ella può compiere qualunque cosa, farci qualunque gioco di prestigio. Di nulla ci meraviglieremo. Attoniti la sentiamo camminarci addosso col suo passo irreale. Tutti ne siam affascinati. Tutti no, forse. Non a tutti è aperta la porta della meravigliosa stanza di giochi che abbiamo visto in Incantesimo. Caterina Hepburn non è mai stata tanto stupefacente come in quel film e in quelle scene. Arditamente, quasi istruendoci con una parabola, ci svela il suo segreto. Il suo mondo è come una stanza chiusa in una ricca villa di gente borghese. Lì si vive un tempo artificiale, mezzo infantile mezzo nevrastenico, dove i nostri ideali di adolescenza paiono ancora raggiungibili, dove c’è la fiamma accesa invece del termosifone, dove ci sono il piano ed il violino invece della radio, dove abitano i grotteschi pupazzi e le principesse immaginarie e gli animali di pezza che popolavano i boschi della nostra fantasia. Poca gente entra nella stanza chiusa della poetica ragazza d’Incantesimo.

 

V’entra il fratello quando è ubriaco, cioè anormale, debole, che facilmente si lascia condurre ad agire come lei vuole. Vi entrano i due vecchietti ingenui, rimasti chiusi in una loro giovinezza idilliaca e gentile, che il chiasso della pantagruelica festa di fuori intimidisce e sgomenta. Per loro la ragazza, nella finzione scenica, ritrova il vecchio teatrino dei burattini e muove i fili dei fantocci; recita, insomma, nella commedia, una commedia sua. E così, mi sembra, manifesta il suo gioco. Per i pochi iniziati, Caterina vive nel film il suo film, apre sotto il mondo dell’autore e del regista il suo mondo, si rivela, si inventa, si lascia andare a favoleggiare. Pochi, dalla platea, possono salire nella sua stanza chiusa. Con quelli corrono invisibili, misteriosissimi cenni d’intesa. Gli altri trovano che ha la bocca larga, le narici da gatto, che, insomma, è proprio bruttina. Io, quando sento dire questo, annuisco, approvo, dico che sì, è molto più bella Mae West, diamine. E dentro di me, zitta zitta, mi rallegro del privilegio. Sono coloro ai quali Caterina Hepburn ha chiuso in faccia la stanza dei sogni.

 

 

L’ho vista, in carne ed ossa, a Washington. Annunci e manifesti delle sue recite dappertutto. Uomini-sandwich, vestiti di rosso, fermi agli angoli delle strade, portavano sulle spalle il sorriso di lei, felino, e indifferenti, pelavano con le nere mani una banana. Un teatrone: di quei teatri americani così vasti che, sembra, le parole debbono faticare a raggiungerti e ti arrivano già un po’ appassite e stanche. Io ero sola, perduta nella gran folla. E attorno la gente rideva divertita in anticipo, emozionata da fanciullesca aspettativa. Tre ometti andavano attorno vendendo coca cola e gomma da masticare. Poco mancava che me ne andassi, se no distruggo tutto, pensavo, le risate di questi bravi americani manderanno in aria la stanza dei sogni come se dentro vi esplodesse una bomba; “lei” parlerà col naso e con frasi fatte, che voce avrà? Dio mio, forse non sarà più neppure così bella. Tuttavia, intimorita da questa gran folla, restavo; bisognava scomodare troppa gente per uscire. E poi, meglio finirla con questi ideali da cinematografo; al teatro non resisterà, il teatro è un’altra cosa. Mentre mi dibattevo in queste incertezze, si fece buio, silenzio, il sipario s’aprì.

 

Che commedia fosse, neppure rammento con precisione; si trattava di una famiglia che sembrava rubata al cinematografo. Tutti sportivi; sport, niente altro che sport. L’animatrice di questo gruppo, la più indemoniata, il pepe della famiglia, era colei che ancora non era entrata in scena, l’interprete; Caterina, senza dubbio. Fu a quel momento che venni più fortemente tentata di uscire. Tutti guardavano attenti, divertiti, a bocca aperta. Adesso dico “prego, prego” mi faccio largo ed esco.

Ma già, in un lieve volo, Caterina era entrata in scena. Vestiva in foggia quasi mascolina, da sport. Ma le scarpe grevi non potevano appesantire il suo magico passo. Essa era la stessa dello schermo. Solamente mi parve, forse per la vastità della sala, un po’ più spenta e fragile. Forse le costava maggior sforzo affrontare la platea come persona viva che come ombra. Diceva con la dolce voce cose piuttosto sciocche e però non sembravano tali; già dal suo apparire ogni cosa attorno a lei aveva incominciato la trasformazione. Anche i bravi ragazzi che la circondavano, senza panciotto e col cappello in testa, divennero improvvisamente simpatici. E tuttavia ella si muoveva in un’aria sua, particolare, che la divideva dai suoi stessi compagni, simile a certe immagini di santi che hanno intorno una fitta cornice di nuvolette.

Avvinta dal fascino dell’attrice, la grande mandibola aveva smesso di masticare; e lei, idealmente liberata dai suoi vestiti sportivi, già si muoveva in uno di quei suoi scenari ideali che facilmente riesce a fare accettare per veri.

Era, al solito, una ragazza sposata e infelice; fingeva di essere d’accordo con gli altri per mantenersi il “job”, l’impiego. Ma, dentro, era diversa. Spiegò questo in un modo suo specialissimo che mi fece battere il cuore per l’emozione di averla ritrovata. Epperò per un certo gioco di parole il pubblico non capì la mestizia della sua ironia. La grande mandibola scoppiò in una fragorosa risata. Allora Caterina, con uno di quei suoi atteggiamenti inimitabili, si accasciò in una poltrona bassa e mormorò: – Nessuno mi capisce.

Questa frase mi parve fuori del testo, un suo intervento personale: mi sembrò di vederla improvvisamente vestita di lungo, seduta accanto al fuoco nella stanza dei sogni in Incantesimo. Alta era la stanza, irraggiungibile. – Nessuno mi capisce – ripeté. E fu come se con quelle sue parole ella avesse gettato giù dal palcoscenico una scaletta di seta. Lesta e invisibile, agilmente mi vi arrampicai e la raggiunsi sorridendo nel mondo della sua favola.

 

(Dalla rubrica “Gli scrittori e il cinematografo”, in «Film», II, 49, 9 dicembre 1939).

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