Proverò a ragionare da scrittore, ma anche da persona che ogni giorno ha a che fare con l’editoria non solo libraria, visto che lavoro da anni per una casa editrice indipendente, e contribuisco a gestire un blog letterario, e un mese ogni tre o quattro conduco una trasmissione radiofonica.
Il problema da cui partirei è che a un certo punto, per forza di cose – dopo che sei stato pubblicato, o indipendentemente dal fatto di essere pubblicato, per il semplice fatto di lavorare in una casa editrice per esempio – si entra nell’agone pubblico, e si ha a che fare con degli interlocutori più o meno istituzionali, si chiamino case editrici, giornali, festival, radio, televisioni, oppure anche quello strano interlocutore che è il pubblico dei lettori. Ecco, la domanda è: come avere a che fare con questi interlocutori senza rimanerne schiacciati, e cioè cercando di evitare (questo è un pericolo costante, un pericolo da cui non si è mai definitivamente liberi) che un auspicato strumento di emancipazione, vale a dire la cultura, diventi invece uno strumento prima di alienazione, poi di omologazione, se non addirittura una specie di bozzolo in cui tu, senza rendertene conto, entri con il coltello tra i denti pensando di essere un eversivo, o almeno una nota stonata rispetto al concerto che si sente risuonare tutt’intorno, per venirne fuori invece come un reazionario?
Temo che la cultura – una sorta di oppio della classe media – stia ricominciando a svolgere il ruolo che aveva nel Seicento manzoniano: da una parte uno strumento di dominio, di prevaricazione, e dall’altra la costellazione sotto cui va in scena una sorta di sottomissione involontaria. Con una differenza: pensate a Renzo Tramaglino che va dall’Azzeccagarbugli. Il personaggio manzoniano non possiede gli strumenti linguistici necessari a comprendere (o contrastare) chi amministra il potere e la giustizia. Il Renzo Tramaglino di oggi, al contrario, non è un analfabeta, e tuttavia rischia di esserlo ugualmente: molto spesso è un non-lettore che legge libri. Ha fatto le scuole superiori, ha frequentato l’università, guarda i talk-show politici, guarda “Report”, legge qualche quotidiano, addirittura legge qualche libro, di conseguenza è convinto di avere un’opinione su tutto; parla con disinvoltura dei meccanismi del potere senza rendersi conto che spesso è parlato dal potere che ritiene erroneamente altro da sé. È insomma convinto di sapere come va il mondo, dove va la politica, come funziona la giustizia, come vengono mossi i fili che reggono il paese. In più, questo strano personaggio non si limita a restarsene a casa in pantofole. Esce, ad esempio frequenta i festival, e infatti il gran successo dei festival letterari negli ultimi anni un po’ di sospetto dovrebbe destarlo: la gente, il ceto medio riflessivo, va non di rado a questi raduni per non avere il complesso della cultura. Perché, pensateci: è mai successo qualcosa di clamoroso o disturbante o memorabile (qualcosa in grado di spostare il baricentro del discorso pubblico, o di disancorarsi da una logica di vetrina) durante uno di questi festival letterari? Insomma, il non-lettore che legge libri è spesso un progressista che usa la cultura come rassicurazione. Non è, vale a dire, un progressista per una reale vocazione politica; asseconda piuttosto il desiderio di indossare un abito sociale reputato addirittura elegante.
Sto ovviamente parlando del progressismo dei consumi culturali e gastronomici, non delle lotte politiche o della rabbia per le disuguaglianze sociali. Da questo punto di vista, la letteratura e la cultura gli serve – rischia di servirci – per marcare il territorio, per crearsi una nicchia, per chiudersi in una specie di fortino, un bunker di identificazione a prova di bomba, per darsi una cittadinanza rispettabile. “Leggo libri quindi faccio parte della Repubblica delle Lettere”.
Da questo punto di vista ho trovato illuminante un brano dell’ultimo libro di Aldo Busi, Vacche amiche: “non esiste l’autofiction degli scrittori veri”, scrive Busi a un certo punto, “esiste solo l’autofiction dei non lettori; mentre i lettori non lettori vogliono trovare in un libro o uno specchio alle loro paturnie o non vedono niente, lo scrittore vero non si immedesima nel suo io più di quanto non si immedesimerebbe in un lavello, che sia sporco o pulito; uno scrittore vero non è mai autobiografico, nemmeno quando lo è; un non lettore lo è sempre, un non lettore è sempre autobiografico, e sovrappone la sua biografia all’autobiografia dello scrittore che se è vero non c’è”.
Quindi questo è il dramma: l’autofiction del non lettore. Uno scrittore e un lettore di questo tipo dovrebbero entrare in conflitto, per forza di cose. Perché se lo scrittore si allinea a questo lettore – allinearsi al non-lettore che siamo diventati anziché entrarci in conflitto – la conseguenza è che i due si stringono in un abbraccio mortale.
Veniamo ai libri. Il problema non sono tanto i singoli libri, quanto il discorso attorno ai libri, il discorso attorno ai film, il discorso mainstream, cioè il discorso pubblicitario. Di buoni libri se ne continuano a leggere, si continuano a fare buoni film, penso solo a Paul Thomas Anderson che ha girato ultimamente un film meraviglioso, Vizio di forma – un film mai entrato nel discorso mainstream, e non ha vinto neanche mezzo Oscar. O, per venire in Italia, basti pensare al bellissimo L’Intervallo di Leonardo Di Costanzo. Bene: ma chi l’ha visto? Il sistema distributivo, promozionale, produttivo, di libri e film, spesso è la negazione di quello che dice di voler essere e sostenere; o meglio, spesso lo sostiene, ma come un vampiro sosterrebbe la sua vittima.
Non sempre le cose sono tutte bianche o tutte nere. Le case editrici, per esempio, risultano interessanti da questo punto di vista perché non sono luoghi monolitici, sono posti dove si possono fare delle cose ottime prestando magari contemporaneamente il fianco alla logica discutibile di cui dicevo prima. Lo stesso editore che in maniera coraggiosa può pubblicare un libro bello e difficile, è lo stesso che magari manda in stampa delle fascette allucinanti. C’è un blog che si chiama Fascetta nera, dove vengono messe on line tutte le fascette più ingannevoli. Ingannevoli fino alla comicità. Qualcuna me la sono segnata: “Cinque edizioni in una settimana”. Come si fanno cinque edizioni in una settimana? “Centomila copie in una settimana”. Impossibile anche questo.
Le alternative, se la situazione è questa, sono due, per chi vuole scrivere e per chi vuole confrontarsi con l’editoria, per chi vuole avere a che fare con questo mondo. O starne fuori in maniera sprezzante (che è comunque un modo per intrattenervi un rapporto), oppure provare a viverci, in un contesto del genere. Io non sono per starne fuori del tutto in maniera sprezzante, perché lì spesso si nascondono altre insidie. C’è un narcisismo anche nel dire “no” a qualunque cosa a priori. Questo non vuol dire che bisogna sporcarsi le mani, però si può stare nelle cose anche come occasionali rompicoglioni. Perché starne fuori del tutto può significare tendersi l’ennesima trappola, c’è un bovarismo dei romanzi d’appendice ma ci può pure essere un bovarismo dove al posto dei romanzi d’appendice c’è il mito di Salinger. C’è una fascinazione, nel non mettersi mai in gioco. Se provi a metterti in gioco, quello è il banco di prova della difesa della tua libertà. Che cos’è la libertà? Riprendo il Busi di Vacche amiche: “La libertà non è un diritto, è un sapere costante nel tempo; una capacità di resistenza alla tentazione di asservirsi, una curiosità per le lande più esplorate del cervello umano a contatto con il mondo. La libertà non è una convinzione interiore o un ornamento mentale: è una lotta sociale dalle ferite inguardabili che non si chiudono mai; non è un esistenzialismo decadente, è una ideologia che presuppone una disciplina durissima e un’esistenza marziale soprattutto in tempi di pace, poiché per essa la pace è sempre apparente”.
Un romanzo che racconta molto bene tutta questa faccenda – il rischio di entrare da eversivi e uscire dal bozzolo piegati o rintronati o distrutti – è La vita agra di Luciano Bianciardi. Bianciardi arriva a Milano da provinciale, perché vuole far saltare in aria la Montecatini, e poi appunto ahimè inizia a lavorare per l’editoria.
Insomma, io non santificherei le case editrici e non le demonizzerei. Il mondo dell’editoria dipende anche dalla forma che tu hai e che gli opponi: se è abbastanza solida, può darsi che quell’atto di vampirizzazione non vada a segno.
Per i giornali la faccenda mi sembra un po’ più critica. Vi ricordate Pietro Ottone che chiama Pier Paolo Pasolini sul “Corriere della Sera” per avere un’opinione opposta a quella della linea editoriale del giornale? Ecco, dimenticatevi quella cosa perché oggi non è possibile. Se io, lavorando ogni tanto con i giornali, cioè pubblicando ogni tanto pezzi sui giornali, volessi scrivere tutto quello che voglio, non potrei mai farlo rapportandomi a un unico giornale. Perché se scrivo un pezzo su “Repubblica” non potrei mai scrivere un pezzo critico nei confronti di Baricco o di Scalfari, se scrivo un pezzo sul “manifesto” difficilmente potrei essere polemico con Landini o con il Gruppo 63, se scrivo un pezzo sul “Sole 24 Ore” non potrei scrivere un pezzo contro la Confindustria, se scrivo un pezzo su “Il Giornale” non potrei scrivere un pezzo contro il feltrismo, e così via. E se tu vuoi essere contemporaneamente critico (o magari in occasioni differenti) con Feltri, Baricco, Scalfari, la Confindustria, Landini e il Gruppo63, come fai? Ruoti. E accetti anche di non lavorare, tanto comunque sia non è che rinunci alla sopravvivenza; anche da questo punto di vista secondo me si può essere abbastanza avvertiti: nessun giornale oggi ti dà da campare, vivaddio. Certo, sarebbe diverso se tu entrassi in un giornale anziché lavorarci occasionalmente, ma se entri in un giornale è un po’ come entrare nel ventre della balena… pochi ne escono vivi.
Se non sei fatto strutturalmente per entrare nel meccanismo allora devi stare attento a non farti fregare, e quando puoi a forzare le maglie, perché anche lì, nel momento in cui tu riesci a creare una frizione, è difficile che questa frizione la si possa creare nello stesso posto per più di quattro-cinque volte di seguito; ma quando la crei si spalanca non tanto un territorio di libertà, ma un territorio di esperienza, improvvisa, bellissima. Per farlo oggi, credo sia necessario trarre da sé il meglio dello spirito levantino e il meglio dello spirito luterano. Essere di saldi principi, ma anche abbastanza leggeri per non farsi catturare nella rete.
Due parole per le librerie. Pensate a che cosa sono diventate certe librerie. Le librerie di catena finalmente sono in crisi; era ora che le librerie di catena fossero in crisi. Ricordo un articolo molto divertente di Stefano Benni di una quindicina di anni fa. Benni raccontava le bestialità dei lettori che entravano in libreria e non sapevano bene come orientarsi. Il lettore diceva al commesso: “Scusi, mi darebbe per cortesia Il processo di Kafka? Però non so chi è l’autore.”
Oggi rischia di accadere il contrario. Se vai in certe librerie e chiedi: “Scusi, mi dà Il processo di Kafka”, la hostess o lo steward che ti viene destinato, rischia di girarsi verso il computer e domandare: “Sì, un attimo: mi dice però chi è l’autore per cortesia?” Questo meccanismo qui a un certo punto è andato in corto: molte librerie di catena sono in crisi ed è quanto mai necessario pensare a un modello che sia rispettoso verso chi compra i libri ma anche verso chi li vende.
Infine, la Rete: non è che offra meno insidie, anche se forse offre più opportunità. Parliamo pure della cultura 2.0: credo che qui sia necessario fare un discorso marxiano. Anche da questo punto di vista ha ancora molto senso parlare di struttura e sovrastruttura. Io mi ricordo – questa cosa la dico spesso – che nel 1998 feci un corso di editoria: internet e la rivoluzione informatica stavano arrivando, una docente ci venne a fare lezione, e ci parlò dei nuovi strumenti di lavoro e comunicazione. Esordì dicendo: “Cari ragazzi, voi sarete la prima generazione di redattori, di editor, di editori, che lavorerà con il computer, in digitale. Noi finora facevamo la fotocomposizione, e invece adesso c’è Quark XPress, questo programma che impagina tutto, impagina i libri, impagina i manifesti pubblicitari. Noi ad esempio, utilizzandolo, risparmiamo un terzo del tempo. E poi c’è quest’altro nuovo strumento, che si chiama e-mail – all’epoca era appena arrivata – e questo nuovo programma, che si chiama Word, grazie al quale gli autori non ci mandano più il malloppone che noi dobbiamo ribattere: ci mandano il dischetto, ci mandano la mail, e noi impaginiamo direttamente il file risparmiando un altro terzo del tempo. Ecco. Voi lavorerete in questo mondo qua”.
Noi studenti eravamo tutti eccitati.
Senonché, l’unica persona intelligente del gruppo – che non ero io, era una ragazza che leggeva William Gibson – obiettò: “Posso chiederle una cosa?”
“Prego”, fece la docente.
“Ma vi pagano un terzo di più?”
“No.”
“Ma lavorate un terzo di meno?”
“No. Anzi, forse lavoriamo anche di…”
“E allora il vantaggio dove sta, mi scusi? Secondo me vi stanno fottendo.”
La ragazza aveva fatto un ragionamento marxiano, senza rendersene conto o forse rendendosene conto più di noi: “Cari miei, state attenti, qui sta aumentando la produttività, però voi né guadagnate di più e né lavorate di meno”.
Quella era una buona sintesi del passaggio di secolo. Il Ventunesimo secolo è iniziato in maniera veramente diversa da come ci aspettavamo. Le disuguaglianze sono aumentate in maniera paurosa, la forbice tra ricchi e poveri ha ripreso ad allargarsi secondo dinamiche ottocentesche. Vittorio Valletta guadagnava quaranta volte un operaio della Fiat; per Sergio Marchionne il rapporto è di 500 a 1. E la rivoluzione informatica non ha migliorato le cose da questo punto di vista. Anzi.
Vi ho fatto questa che è un po’ una galleria degli orrori, in crescendo, per progressivi strati di alienazione rispetto alla cultura (non posso non pensare a Calvino quando diceva che il primo livello di alienazione è sintetizzabile con la frase “sono al lavoro e vorrei essere al mare”, il secondo “sono al mare e vorrei essere al lavoro”, il terzo “sono al mare e vorrei essere al mare”) però mi piacerebbe finire ribaltando almeno una parte del discorso.
Tutte queste cose qui, tutti questi meccanismi discutibili, sono l’ostacolo rispetto a cui bisogna fare frizione per ricreare intorno alla letteratura (e al fantasma della cultura in generale) una comunità. Perché a che serve poi alla fine la letteratura? Non credo che serva a intervenire nell’hic et nunc per risolvere i problemi del mondo. Scrivi un romanzo per sconfiggere la camorra, scrivi un romanzo per distruggere la mafia, scrivi un romanzo per fare dimettere un ministro o rovesciare il governo… Può anche succedere, che un romanzo cambi le cose in tal senso, per carità, ma non è questo – mentre lo scrivi, almeno io mentre lo scrivo – il suo fine immediato. Basti pensare a qual è stato uno dei paesi culturalmente e artisticamente più progrediti fra le due guerre; avevano tra i migliori scrittori, tra i migliori filosofi, tra i migliori artisti, tra i migliori musicisti… era la Germania di Weimar.
Ma non è che La montagna incantata di Thomas Mann impedisce, semplicemente perché viene scritto, l’ascesa del Terzo Reich. Cito non a caso La montagna incantata perché lì c’è un vero e proprio prototipo di “camicia bruna”, il gesuita Naphta opposto all’italiano Settembrini. Non è che Mann scongiura la catastrofe. Non è che Ungaretti o Trakl scrivono le loro poesie e queste poesie sono così belle da impedire lo scoppio di un altro conflitto sanguinoso; non è che Céline scrive Viaggio al termine della notte e poi non scoppia la Seconda guerra mondiale. Per non parlare di Paul Celan. Ecco, Celan non evita la catastrofe, e neanche la redime. In questa incapacità, la minore ambizione della letteratura: La montagna incantata non impedisce l’ascesa del Terzo Reich. E però – qui invece vengo a un’ambizione superiore – è anche grazie alla Montagna incantata, è anche grazie ai racconti di Kafka, è anche grazie alle poesie di Paul Celan, ebreo che scrive con la lingua dei suoi persecutori, è anche grazie a queste cose qui che possiamo riconoscerci ancora una volta come esseri umani nonostante i veri e propri disastri della specie – diciamola in maniera etologica – che ci lasciamo dietro per il fatto di essere come siamo, cioè appunto dei legni storti. A questo serve la letteratura: a far scattare un riconoscimento, e anche a dare una testimonianza. Anche a testimoniare per chi non può farlo.
Questo ragionamento, la testimonianza per chi non può darla, si ritrova a mio parere su una vetta vertiginosa e quasi irraggiungibile nel Primo Levi di I sommersi e i salvati, dove l’autore a un certo punto dice una cosa pazzesca. Lui dice: “Chi sono i veri testimoni di Auschwitz? Non sono io”. E tu lettore dici: “Cavolo, non sei tu che sei sfuggito ad Auschwitz? E chi è?” E lui continua: “Non sono io ma i musulmani” – li chiama così, ma non hanno nulla a che fare con la religione – vale a dire quelli davanti a cui si sono richiuse le porte delle camere a gas, quelli che non sono tornati, o quelli che sono tornati muti, cioè sono tornati talmente disumanizzati – Agamben fa un discorso interessante su questa faccenda –, talmente violentati da non poter più proferire una parola, da non poter più testimoniare ciò che hanno vissuto in prima persona.
Ecco dunque una testimonianza di secondo grado: testimoniare per chi non può più farlo. E tutto questo però – ritorno all’inizio del mio discorso – è possibile soltanto se c’è o una comunità o l’idea di una comunità; almeno l’idea di una comunità. Se non c’è neanche l’idea di una comunità, tu questa testimonianza non la puoi proprio neanche immaginare. Quindi il nostro compito è quello di creare una comunità, o mantenerla viva. Magari non per forza una macrocomunità… venti persone sono già una comunità.
E una comunità di questo tipo, tutto sommato, non si può creare, o mantenere viva, se non avendo un banco di prova sempre a disposizione, scendendo nell’agone, mettendosi in gioco giorno dopo giorno.

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