Georg Büchner morì a Zurigo nel febbraio del 1937 a soli 24 anni, lasciando come traccia della sua breve esistenza un paio di testi teatrali – di cui uno incompiuto – ed un racconto. Opere che avrebbero segnato indelebilmente il teatro mondiale, nonostante le prime rappresentazioni avvennero a settant’anni dalla morte dell’autore, ovvero nel nuovo secolo, il Novecento.
Se il «Woyzeck» è diventato nel tempo un banco di prova irrinunciabile per molti registi, grazie anche al fascino che il non-finito ha esercitato sul Novecento, assai maggior reverenza ha suscitato il testo che Büchner dedicò alla Rivoluzione Francese, Dantons Tod, «Morte di Danton». Dramma corale dalla struttura imponente, la «Morte di Danton» è un fiume che travolge lo spettatore così come la Rivoluzione travolse, deviandolo, il corso della Storia. Ma è anche l’opera di un giovane rivoluzionario in fuga dalla polizia dell’Assia, che avverte con grande lucidità tanto il richiamo della spinta rivoluzionaria quanto la tragedia delle sue degenerazioni che, a Parigi, sfociarono nel regime del Terrore.
Mario Martone ha portato in scena «Morte di Danton» al Teatro Stabile di Torino e in questi giorni la produzione approda al Piccolo di Milano. Per dare corpo e sangue allo scontro tra la “virtù” di Maximilien de Robespierre e il “vizio” di Georges Jacques Danton, ha chiamato due attori diversissimi tra loro ma entrambi di grande intensità: Giuseppe Battiston e Paolo Pierobon. Ma la compagnia, di ben trenta attori, vanta anche molti altri artisti di grande spessore, da Iaia Forte a Paolo Graziosi, da Irene Petris a Massimiliano Speziani, da Roberto Zibetti a Denis Fasolo, solo per citarne alcuni. Ne esce fuori uno spettacolo di grande impatto, che ha rifiutato la tentazione di attualizzare il testo per lavorare sulla sua grandiosità di dramma storico, una dimensione del teatro che oggi a prima vista può sembrare anacronistica.
Per reggere questo carico Mario Martone, con Büchner, sposta l’accento dal titanismo della Rivoluzione al tragico del lato umano. E a guidarlo in questa scelta c’è la figura di un altro poeta morto in quello stesso 1837, solo qualche mese più tardi: Giacomo Leopardi.
Come sei arrivato a questo testo di Büchner, che fu scritto nel 1835? C’entra il tuo percorso nell’Ottocento, un secolo che hai indagato in film come “Noi credevamo” e “Il giovane favoloso”?
«Morte di Danton» è un testo che ho sempre amato. Nel 1988 ho messo in scena un Woyzeck non molto fortunato a cui però ero molto legato. Difficilmente torno due volte sullo stesso autore, ma succede questa volta con Büchner. È un testo che ogni regista conosce e sa quanto è difficile, quante sono le ragioni di fascinazione e quante di difficoltà nel metterlo in scena in modo integrale. Doveva maturare il tempo, da diversi punti di vista. Intanto quello produttivo: il mio rapporto col Teatro Stabile di Torino, che è diventato Teatro Nazionale, ha fatto sì che potessimo affrontare un allestimento con trenta attori, che non è una cosa semplice dal punto di vista dei costi. Ma soprattutto doveva maturare il tempo sul piano espressivo. Questa maturazione è avvenuta attraverso il lungo viaggio che è iniziato con Leopardi. Per me è una figura centrale. Anche in «Noi credevamo», che è un film sull’Ottocento dove non c’è nulla di direttamente legato a Leopardi, comunque il poeta di Recanati è sempre presente sullo sfondo. Poi sono venuti lo spettacolo sulle «Operette morali» e il film «Il giovane favoloso».
Büchner è per molte ragioni vicino a Leopardi. Basti pensare che «La ginestra» è del 1836, un anno dopo la scrittura de «Morte di Danton». Ma soprattutto erano due figure, due anime completamente fuori dalla cultura dei loro paesi di quel tempo. Leopardi era una specie di marziano per la cultura italiana dell’Ottocento; mentre la fortuna teatrale di Büchner avverrà addirittura nel Novecento, decenni dopo la sua morte. I suoi capolavori rimasero sommersi per anni. Non è un caso, perché in fondo quello che univa questi due giovani era una sensibilità che non si arrendeva alla spinta idealista del tempo, pur sentendo entrambi una forte spinta rivoluzionaria.
Questa è la contraddizione lacerante eppure bellissima che c’è tanto in Leopardi quanto in Büchner. Leopardi, ad esempio, non era affatto pessimista come si diceva, ma viveva la contraddizione della consapevolezza del fatto che “tutto è nulla” – ed evitava quindi di farsi qualunque illusione sulle “magnifiche sorti e progressive” – ma proprio per questo l’unica forza che all’uomo resta è la forza delle illusioni e la solidarietà tra gli esseri umani. Questa idea è molto vicina a Büchner. Danton non rinnega mai la Rivoluzione. «Morte di Danton» è un testo tragico sulla Rivoluzione, dove la storia mostra tutta la sua impossibilità di arrivare a un vero cambiamento – e per questo diventa emblematica di tutte le spinte progressive. Ma allo stesso tempo si avverte tutta la forza rivoluzionaria di Büchner, la sua fede, la sua febbre. Una febbre che accomuna Büchner a Leopardi, che per me è stato come un viatico per arrivare a questo testo.
Büchner era giovanissimo quando ha scritto questo testo: appena 22 anni. Anche molti rivoluzionari erano giovanissimi. Hai tenuto presente questo aspetto nel tuo lavoro?
Quando leggi «Morte di Danton» un po’ ti spaventi della sua complessità, dell’impalcatura di dramma storico che lo sostiene, fatto di tanti ambienti e di tanti discorsi. Immaginandone la messa in scena ti fa temere una pesantezza difficile da controllare. E poi c’è un altro aspetto, che di solito viene ritenuto un limite: il fatto che Büchner dà tutto per scontato. Lo spettatore dovrebbe sapere tutto della Rivoluzione francese per capire le sfumature. Ma in realtà è successo il contrario, perché cominciando a lavorare al testo la “giovinezza” di cui tu parli, che è in fondo la carica vitale, esce in modo prorompente. Proprio perché il testo ti proietta direttamente nell’azione, anche se tu non sai nulla sei immediatamente dentro la vita, dentro qualcosa di vitale.
Mi piace dire che questa, per me, è una regia “nouvelle vougue” nel rapporto con gli attori. Perché nel lavoro di messa in scena c’è stata una grande fluidità che nasceva proprio da questo aspetto. D’altronde quella di «Morte di Danton» è una vicenda che si svolge in pochissimo tempo e Büchner ci fa precipitare direttamente nel vortice dei fatti: le accuse, l’incriminazione, il processo farsa, l’esecuzione. Tutto si avvicenda in modo rapido e incalzante. E certo c’entra anche la giovinezza dell’autore.
«Morte di Danton» non ha avuto molte messe in scena in Italia. Quelle che ci sono state si sono concentrate sulla dialettica tra la “virtù” rivoluzionaria di Robespierre e il “vizio” incarnato dagli indulgenti di Danton. Ma tu nelle note di regia hai voluto sottolineare un aspetto che accomuna queste due figure contrapposte e i loro sodali: la fragilità. Per quale motivo?
Si tratta del lato umano, che sta dentro, accanto, a quello ideologico. È chiaro che tutto si gioca nello scontro tra il “vizio” e la virtù” – termini che nella complessità della vicenda assumono significati e sfumature a loro volta estremamente stratificati. Di questi tempi, ad esempio, non possiamo che definirci “viziosi” di fronte a virtù sbandierate con violenza. Tante sono le implicazioni morali, filosofiche e poetiche del testo di Büchner, che aveva come riferimento il teatro di Shakespeare. «Morte di Danton» è un testo profondamente shakespeariano, che dà allo spettatore la vertigine di trovarsi davanti ad un teatro di quelle dimensioni che però tratta parla di una pagina di storia molto vicina a noi. In questo senso è una stranissima macchina del tempo.
Però quello che a me ha colpito e su cui ho provato a lavorare è il rapporto tra i personaggi. Ad esempio: Danton e i suoi amici. Oppure Desmoulins e Robespierre, che erano compagni di scuola. L’Incorruttibile era stato addirittura padrino di battesimo del figlio di Desmoulins. Gli stessi Danton e Robespierre erano compagni di rivoluzione. Insomma, si tratta di mandare a morte degli amici. Questo aspetto, l’aspetto umano che esplode soprattutto nei tre personaggi femminili, mi affascinava molto. «Morte di Danton» è un testo molto maschile, ma quei personaggi minori femminili – Julie, Lucile, Marion – trascinano sul palco la vita, il corpo, l’umano che vengono sovrastati e schiacciati dagli ideali e dalle derive della Rivoluzione. È davvero un testo molto articolato e non lo si può ridurre in nessun modo. Anche per questo non l’ho voluto attualizzare. Perché non serve: sono parole che si fondano su un certo tempo, legate a una certa società, a un contesto, a un momento storico. Ma soprattutto è ampia la loro portata. A volte “attualizzare”, ricondurre al nostro tempo, significa ridurre, perfino appiattire. Invece quello che deve succedere con questo testo è sentirlo risuonare.
Credi che l’integralismo rivoluzionario creerà nello spettatore un cortocircuito con gli integralismi che viviamo oggi? Certo, noi siamo alle prese più che altro con intransigenze religiose mentre la Rivoluzione puntava alla palingenesi sociale. Però anche la granitica “virtù” di Robespierre era mossa da un profondo sentimento religioso – che sfociò nel tentativo di arginare la scristianizzazione attraverso il culto dell’Essere Supremo – tanto che il leader giacobino fu definito dal girondino Condorcet “un prete”.
È inevitabile. Non fosse altro perché si parla di teste tagliate, ma anche perché in almeno due punti si canta a piena voce la marsigliese. Proprio come i testi di Shakespeare, che io definisco la “scatola nera” dell’umanità. Quando affronti un testo di Shakespeare tante cose di te stesso e della tua epoca risuonano, in una maniera prismatica. Ecco, questa caratteristica vale anche per Büchner. È impossibile non sentire il colpo che danno determinate parole – ad esempio il monologo di Saint-Just, parole terribili da ascoltare oggi. Ma sono all’interno di un edificio molto complesso.
Basta pensare all’aspetto della politica: non bisogna dimenticare che la Rivoluzione francese fonda il nostro tempo e la nostra politica. È l’invenzione di una repubblica moderna, è il luogo e il tempo in cui si stabiliscono dei diritti, è il momento in cui una serie di ingiustizie vengono affrontate. Si tratta di un momento generativo che appartiene a quell’epoca ma il cui riverbero giunge fino a noi.
Poi, ovviamente, c’è anche il bagno di sangue. Ultimamente la rilettura della Rivoluzione francese è sempre più negativa, parallelamente al nostro progressivo allontanarci dalle ideologie. Eppure credo che sia imprescindibile guardare alla complessità di quella vicenda, evitando la tentazione di semplificare.
La complessità è un aspetto ineludibile. L’altro è la fragilità. Mi sembra commovente che queste persone, in un modo o in un altro, abbiano provato con grande forza a cambiare le cose e che tutto questo, però, sia finito in tragedia. Questo ci dice molto della fragilità degli esseri umani di fronte alla loro posizione su questa terra e nel tempo in cui vivono. Da qui, naturalmente, si torna a Leopardi.
Complessità e fragilità sono gli aspetti più belli. E ho avuto la fortuna di avere con me una compagnia di attori straordinari con cui ho potuto lavorare su temi capitali come questi.
Danton, rispetto alla sua possibile condanna, dice più volte “non oseranno”. È un personaggio che accetta il proprio destino o che ne resta schiacciato?
La cosa più sorprendente è vedere Danton rifiutarsi di battersi quando i suoi amici lo stimolando a farlo preventivamente, perché temevano quello che di fatto sarebbe successo. Lui sceglie di non battersi e dice: “A questo punto preferisco essere ghigliottinato che ghigliottinare”. Poi, con una mossa estremamente teatrale, durante il processo Danton riappare come un leone, con una forza trascinante che all’inizio del dramma non vediamo. Quando è ormai troppo tardi, lo vediamo combattere e avere la capacità di travolgere tutto con le parole. Questo costringerà i suoi nemici a chiudere il processo con una farsa, condita di falsi testimoni e giudici corrotti. Tuttavia la forza di Danton esce fuori in modo prorompente. Questo è un gesto incredibile da parte di Büchner, che aveva solo ventidue anni ma sapeva maneggiare il suo personaggio con un senso teatrale così potente, in grado di portarlo dalla situazione di distacco iniziale alla grinta finale, in cui noi vediamo tutta la portata del suo spirito e del suo pensiero.
Secondo te è la Rivoluzione che, come Saturno, divora i suoi figli oppure è l’integralismo che divora le rivoluzioni?
Ogni rivoluzione segue questo destino. Evidentemente c’è qualcosa di fatale che porta a questo. Certo, le rivoluzioni sono atti estremi in cui gli esseri umani, per una ragione o per l’altra, si spingono verso confini dove in fondo tutto quello che è sensato consiglia di non spingersi. Su quei confini si consuma l’impossibilità. L’integralismo è parte di questa storia. È un idealismo esasperato, è una malattia del pensiero, una specie di assolutismo. Ma questo assolutismo non appartiene solo alle rivoluzioni. Esiste l’assolutismo religioso, ad esempio, e tanti altri assolutismi che sono stati generatori di tragedie e di violenze.
Sicuramente le rivoluzioni sono un punto limite. C’è qualcosa che si consuma lì. Tutto si brucia, e si consuma proprio nel punto in cui l’essere umano comprende che non c’è un modo per gli uomini di venir meno a se stessi, alla propria realtà. La realtà è ciò che rimane, ciò che è – come Leopardi insegna. Senza infingimenti, senza cioè raccontarsi menzogne. L’unica possibilità che abbiamo, di fronte ad essa, è la solidarietà tra gli esseri umani. E questo ci spiega perché l’amicizia ha un’importanza capitale in autori come Leopardi e Büchner.