J’ai (…) toujours sur ma table un énorme tas d’Horreuren souffrance que voudrais rafistoler avant d’en finir. Tu me vois toujours impossible parce que tu vois que je suis né tout petit dans une ambiance de cauchemar, et de misère et puis il y a eu la guerre, et puis tant d’autres effroyables épreuves et l’Habitude hélas bien explicable d’escompter toujours le pire, et puis cet espèce d’acharnement à refuser les dons d’une vie que je hais.
L. F. Céline, lettera a Lucienne Delforge del 26 agosto 1935[1]
Un inedito (e i seimila fogli ritrovati in un baule di manoscritti trafugato nel 1944 di cui si favoleggiava da tempo, fanno presagire che siamo solo all’inizio) di Louis-Ferdinand Céline a sessant’anni dalla morte dell’autore è qualcosa di più di un semplice evento editoriale o letterario. Non si tratta infatti di una serie di stralci assemblati in volume, né di idee allo stato embrionale presto abbandonate: Guerre, pubblicato da Gallimard l’anno scorso e ora tradotto per Adelphi da un encomiabile Ottavio Fatica, è un’opera leggibile da cima a fondo e ambientata nello stesso arco temporale del Voyage, un tutto coerente in cui le singole scene di susseguono quasi senza soluzione di continuità.
In un certo senso, scrivere oggi qualcosa (qualunque cosa: dall’intervento in un consesso di esperti ad un post pubblico su una bacheca virtuale) a proposito di Céline è operazione se possibile ancora più rischiosa, e questo per via di una fastidiosa ma infondo prevedibile eterogenesi dei fini. Se infatti ci si “limita”, in maniera anche brillante, a certificare l’indubitabile e ormai consolidato posto che il Nostro occupa nella storia della letteratura non solo europea, si rischia di contribuire ad una sorta di esausta féerie pour une autre fois che da un lato trasforma Céline un pezzo da “museo” e lo chiude in una teca, sterilizzato e incapace di graffiare, lacerare, mordere, ne fa insomma un altro manufatto fungibile della società dei consumi, mentre dall’altro lo incorona suo malgrado come il santino di crinolina di una “salutare scorrettezza” tanto rumorosa quanto innocua, di una crudeltà caricaturale e strumentalizzata, alfiere decontestualizzato di battaglie che non lo riguardano, spolpato in brandelli di testo rimasticati e buoni per ogni occasione polemica, per distribuire rivoltanti patentini di “libero” (leggi: liberato dal) pensiero.
La grandezza (enorme, nel caso ci fosse ancora bisogno di ricordarlo[2]) dello scrittore francese va ovviamente ricercata altrove. Innanzitutto, l’essere umano Louis Ferdinad Auguste Destouches e lo scrittore/opera Louis-Ferdinand Céline sono la prova, tremenda e abbagliante, di come biografia e carte inchiostrate di un grande scrittore siano ad un tempo inestricabilmente legate e insieme incomparabilmente distanti, e di quanto questo ossimoro (figura tanto cara allo stesso Céline) abbia generato per la critica un “non luogo a procedere”, costringendo gli esegeti a doversi inventare nuovi cunicoli sotterranei, ad escogitare sofisticati congegni ermeneutici per rendere conto dell’universo céliniano, realtà iperrealistica e fantasmagorica, invischiata nella vita per desiderio di morte, lirica nel fango e sbracata nell’empireo, lingua nuova per bestemmiare le “belle lettere”, sadica fino allo sberleffo espressionista che subito si ribalta in pianto tragico e furia auto-denigratoria.
È la lezione baudelairiana della contraddizione permanente, della grandezza sublime del luogo comune che Céline ha metabolizzato e fatto propria[3]. Il suo “stile” è diventato una sorta di iperoggetto mortoniano della critica letteraria, vale a dire (cito direttamente dall’enciclopedia Treccani): «Oggetto o evento le cui enormi dimensioni spaziali e temporali, congiunte alla pluralità di forme con cui si manifesta, lo rendono non direttamente esperibile come unicità concreta». Se alle dimensioni spazio-temporali si sostituisce la pregnanza letteraria e la straordinaria mobilità della prosa céliniana, il paragone regge. Volendo tuttavia azzardare un’ipotesi, il senso di sgomento che si prova davanti ad una pagina di Céline, è spiegabile soltanto con una suggestione che permea il testo dall’inizio alla fine, come il rimbombo infernale che fin dalle prime pagine di Guerra assorda il narratore, sottoufficiale colpito di striscio dallo scoppio di una granata.
L’incedere delle frasi céliniane, la ridda delle immagini e delle invenzioni lessicali, la sua dilagante violenza verbale, mantengono inalterata una maestà cristallina che nasce dal dolore, dall’indignazione, oppure dalla raggelante risata del saggio che si sa insieme sempre vittima e sempre carnefice. Persino quando descrivono o fanno parlare la più bassa sozzeria, lo squallore della vita umana con le sue piccole e grandi crudeltà, permane nel tono un’aura di maestà, di rigore innato e metodologico pur nella pirocinesi del caos, di dominio assoluto o di resistenza ad oltranza. In diverse opere céliniane (e anche in Guerra) viene menzionata più volte una specie di favola cavalleresca di pugno dello stesso Céline, La volonté du Roi Krogold (ora finalmente ritrovata insieme agli altri inediti perduti) che bene prosegue la tradizione del comique absolu tracciata ancora una volta da Baudelaire.
Dall’altro lato della medaglia, invece, la prosa céliniana mostra tutte le miserie, gli stracci variopinti di ogni “stile” letterario che cerca con tutti i mezzi di avvicinarsi all’oggetto che vorrebbe rappresentare (il mondo, la guerra, la condizione umana, la società di un dato periodo storico…) senza mai poterlo afferrare davvero, riducendosi al massimo grado a rappresentare lo strazio del proprio sforzo disumano. Una tale, estrema, dichiarazione di poetica si trova riassunta all’inizio di Guerra maniera straordinaria, sempre sulla scorta di quel brusio assordante (reale e metaforico) che lo tormenterà per tutta la vita:
Per pensare, anche un minimo, mi ci dovevo mettere a spizzichi e bocconi come quando due si parlano al binario di una stazione quando passa un treno. Un pezzetto alla volta di pensiero ben fatto, uno via l’altro. È un esercizio che stanca vi assicuro. Adesso sono allenato. Vent’anni, uno impara. Ho l’anima più dura, come un bicipite. Non ci credo più alle scorciatoie. Ho imparato a fare musica, sonno, perdono e, come vedete, anche bella letteratura, con piccoli tocchi di orrore strappati al rumore che non finirà mai più. Lasciamo perdere. (p. 27)
Questa potremmo dire sfibrante esercizio di “limpidezza della e nella catastrofe” che è poi la sublime bestemmia céliniana, in realtà non “volteggia sull’orlo del precipizio” ma è invece tutt’uno con lo strapiombo, è il piano inclinato. La prosa céliniana non si presenta insomma come un’indiscriminata e testimoniale “orgia di realtà” (l’espressione, usata in senso spregiativo, è di Tommaso Landolfi[4]), ma diventa “iper-realistica” proprio perché non si limita alla fotografia, al documentario magari a tesi, ma fa precipitare il proprio bersaglio là-bas, dove non ha più difese. Così, se dovessimo chiederci di cosa “tratta” Guerra, non abbiamo che da scorrerne le pagine per trovare la più esauriente delle risposte:
Passati tanti anni è una faticaccia ricordarsi le cose precise come stavano. (…) Bisogna stare attenti. È fetente il passato, si scioglie nella fantasticheria. (…) Se ne torna bighellonando tutto imbellettato di pianti e pentimenti. Siamo seri. Allora tocca chiedere prontamente aiuto al cazzo, per non perdere la bussola (…). Farselo rizzare di brutto ma non cedere al raspone. No. Tutta la forza risale al cervello, come dicono. È fottuto il passato, si arrende, è un attimo, con tutti i suoi colori, i suoi neri, i suoi chiari, i gesti precisi della gente, ricordi còlti di sorpresa. È una carogna il passato, sempre ubriaco di smemoratezza, un vero marpione che ha sputato su tutte le tue vecchie storie, già sistemate, cioè accatastate, schifose, al rantolante termine dei giorni, nella bara tutta tua, morto ipocrita. Ma dopotutto sono cazzi miei, direte voi. Ecco come in realtà si sono aggiustate, o piuttosto scassate, le cose una volta che mi hanno rianimato, che sono tornato in ospedale. (pp. 102-103)
Guerra è dunque, in prima istanza, il tentativo di strappare l’Orrore (del primo conflitto mondiale e della propria esperienza personale) non soltanto dall’oblio a cui lo condanna il tempo, ma dalla mistificazione. Il tempo, ben più meschino di quanto lo ritragga la tradizione, non “dimentica” come un semplice smemorato, ma, complici gli uomini, rimesta nel passato e lo manipola, lo distorce, ne restituisce una versione adulterata e spesso per malafede. Cercare invece di “scassare le cose” di “cogliere di sorpresa” le inveterate bugie del passato e rivelarle per ciò che sono davvero, con l’aiuto del “cervello”, ma anche del “cazzo” (leggi: istinti basilari e brutali, ma anche come vedremo, di tenui scintille d’amore, tenerezza, lealtà: i due poli in Céline vanno sempre insieme[5]), è il primo obiettivo dichiarato dal narratore, che qui diventa anche controfigura dell’autore.
Così, la prima delle scene/capitoli di Guerra è insieme la più allucinata e visionaria dell’intera opera, ma anche quella più scopertamente autobiografica, perché narra prima di uno scontro in campo aperto, e poi della fuga agonizzante del protagonista fino al Virginal Secours ospedale da campo di Peurdu-sur-la-Lys (nome fittizio dietro cui si cela la città francese di Hazebrouck). La guerra è raccontata, come è tipico di Céline, non solo come inutile carneficina e spaventosa devastazione, ma soprattutto tramite il suo lato più sordido e rivoltante, quello delle lacerazioni sui corpi dei soldati, dei miasmi che uccidono, dell’insopprimibile desiderio di morte, dell’inevitabile follia che s’impadronisce di chi si trova faccia a faccia con la morte e di chi riesce a salvarsi per una sorta di eroismo al rovescio che colora di tenacia un furioso istinto di sopravvivenza. Dalla seconda scena in avanti, invece, la guerra passa solo apparentemente in secondo piano, ma rimane costantemente in sottofondo, riaffiora dovunque nel testo, e soprattutto opera mutamenti irreversibili nella psiche e nei comportamenti di tutti i personaggi che ruotano attorno al protagonista, Ferdinand.
Viene in mente quello che Curzio Malaparte avrebbe scritto qualche anno più tardi in Storia di un manoscritto, postilla introduttiva al più famoso dei suoi romanzi, Kaputt: «In Kaputt la guerra conta dunque come fatalità (…). Direi che v’entra non da protagonista, ma da spettatrice, in quello stesso senso in cui è spettatore un paesaggio. La guerra è il paesaggio oggettivo di questo libro.[6]». Nulla di più sbagliato che interpretare questa dichiarazione come una volontà di oscurare il contesto bellico, tutto l’opposto: il paesaggio fa l’essere umano, lo plasma e lo disfa, ed è per questo che sia nel romanzo di Malaparte che ancora di più in quello di Céline, la guerra segna per sempre chi, direttamente o indirettamente, ne viene travolto, tanto da renderlo irriconoscibile a sé stesso e agli altri. Tutti i personaggi del romanzo subiscono questo trattamento, e soprattutto ne sono in varia misura dolorosamente consapevoli. In Menzogna romantica e verità romanzesca, René Girard scriveva a proposito della straordinaria novità personaggi proustiani che solo il tempo (e possibilmente un arco abbastanza lungo di tempo) può davvero rendere conto della loro reale indole, e che
soltanto l’elenco dei loro voltafaccia ci permette di svelare la realtà del loro desiderio (…) L’intero universo si riorganizza in funzione del nuovo idolo. Un nuovo Io prende il posto di quello antico. La durata di questi Io è abbastanza lunga, i passaggi abbastanza graduali perché il soggetto stesso sia il primo ad ingannarsi. Si crede eternamente fedele ai principi e incrollabile come una roccia. I suoi voltafaccia gli rimangono nascosti grazie a meccanismi di protezione che funzionano a meraviglia.[7]
Proust è in effetti l’unico autore contemporaneo che Céline cita direttamente nel Voyage. Se ne riconosce sia (beffardamente) la grandezza, ma soprattutto l’incolmabile distanza che separa i due grandi scrittori[8]. In effetti, in maniera speculare e contraria rispetto a ciò che avviene in Proust, il mutamento di disposizioni, desideri, atteggiamenti dei personaggi di Guerra non è graduale ma repentino, subitaneo, e questo proprio per l’azione destabilizzante della catastrofe bellica, che brucia le tappe e funziona come un nefasto “acceleratore temporale”, come invalicabile spartiacque storico e personale tra un “prima” e un “dopo” troppo vicini e insieme troppo lontani tra loro. Per di più, la guerra chiam direttamente in causa anche sul concetto girardiano di desiderio e si trasforma in un “oggetto mediatore” al rovescio (si insinua dovunque, permea ogni cosa e si frappone tra i personaggi e i loro desideri) che spezza e ricrea i legami tra i personaggi che improvvisamente perdono familiarità con sé stessi e diventano “qualcos’altro”.
Le trasformazioni che la guerra opera come oggetto mediatore coinvolgono il grottesco triangolo amoroso che si viene a formare tra Ferdinand, Bébert/Cascade e sua moglie Angèle (già presenti in Mort à crédit, mentre Bébert sarà anche il nome del gatto di Céline nella successiva Trilogie allemande, pubblicata in Italia come Trilogia del Nord). Cascade, anche lui ricoverato al Virginal Secours e con un piede ormai inutilizzabile, sembra quasi una sorta di doppio à la Poe di Ferdinad: tanto il secondo all’inizio del romanzo appare delirante, spossato e completamente in balia degli eventi, quanto invece il magnaccia Cascade si dimostra loquace, sfacciato, sboccato fino al parossismo quanto talvolta capace di improvvise virate liriche. Tuttavia, a mano a mano che la storia procede, Ferdinand sembra assorbire le energie vitali di Cascade, che invece sprofonda sempre di più nella rabbia e nella malinconia e sembra al protagonista «come ossessionato, affatturato dalla propria rovina» (p. 77). A generare questo scambio di ruoli, è proprio il soffio pestilenziale della guerra.
A Ferdinand viene infatti conferita una medaglia al merito, che se non attutisce certo il rimbombo assordante causato dalla ferita alla testa, ringalluzzisce non poco il protagonista (Ferdinand vede la medaglia più come una beffa, come l’ennesimo sporco trucco della guerra) e lo riporta di colpo alla vita. Cascade invece, come un eroe tragico, sceglie da sé la propria rovina quando s’intestardisce nella propria idea di portare in paese la moglie, Angèle, credendola ancora la donna remissiva e accomodante che era prima della guerra. Angéle invece, anche lei “cambiata” dalla guerra secondo Cascade, si comporta in maniera ancora più spregiudicata del marito, svolge il proprio mestiere di prostituta libera dai vincoli che la legavano al marito, lo disprezza e arriverà persino a minacciare di denunciarlo per le sue attività illecite al posto di guardia inglese di cui è diventata una specie di maîtresse ufficiosa. A Ferdinand basta una foto per innamorarsene, e Céline eccelle nel mostrare tutta l’ambiguità del sentimento amoroso:
(…) era una rizzacazzi nata. Ti metteva il fuoco all’uccello al primo sguardo, al primo gesto. Anzi colpiva subito più nel profondo, fino al cuore se vogliamo, e addirittura fino all’intimo che non sta più in fondo a tutto, perché è appena separato dalla morte da tre pellicine di vita tremule, ma che tremano così bene, così intensamente e così forte che uno non può fare a meno di dire sì, sì (p. 77).
Cascade perde così il controllo sulla sua Angèle, e per un misto di amore e vergogna tenta prima il suicidio in una pozza di fango (la scena, memorabile, non sfigurerebbe in una pièce di teatro dell’assurdo) per poi andare incontro al suo tragico destino. Ferdinand cerca di resistere, ma alla fine non potrà che tornare da Angèle, che avrà un ruolo determinante nello scioglimento finale. Oltre alla grottesca, coppia genitoriale di cui si racconta in Mort à crédit (lui colto ma violento e frustrato dipendente alle Coccinelle, lei rigattiera sempre in petulante apprensione), una menzione a parte merita, infine, un altro personaggio memorabile, quella signorina L’Espinasse, infermiera e direttrice de facto dell’ospedale militare. Nel suo caso, la guerra agisce letteralmente come mediatore del desiderio, tanto da creare un perturbante sinolo tra amore, compassione, sesso e morte. La L’Espinasse si prende cura in molti modi dei propri pazienti, ed è prodiga di attenzioni in proporzione alla gravità della situazione del malato, tanto che Ferdinand (di cui lei è innamorata) arriverà ad essere geloso di mutilati ed ustionati di guerra più gravi di lui. Come negli altri personaggi, così nella L’Espinasse comvivono pulsioni e sentimenti contrastanti, una preoccupazione solerte, dolce e materna unita ad una passione sadomasochistica che confina con la necrofilia. La signorina L’Espinasse sembra esaudire un desiderata del grande critico inglese Frank Kermode, che nel celebre The Sense of an Ending (1966) chiedeva agli scrittori di creare «opaque, impenetrable persons in a form which nowhere betrays a collapse from the strict charities of the imagination into the indulgent mythologies of fantasy.[9]» La signorina L’Espinasse è una perfetta “donna di carta”, un personaggio a tutto tondo e non una cinica macchietta, eppure rimane inattingibile nella propria tranquilla follia, l’emblema definitivo dell’invisibile, ripugnante e seducente potere della violenza perpetrata e subita.
Per concludere, un’ultima considerazione di carattere più generale: la vita e l’opera di Céline testimoniano non solo della stupefacente e insopprimibile vocazione della letteratura a rappresentare il male senza filtri morali anche e soprattutto quando tenta di opporvisi, ma anche della profonda vicinanza e connivenza della parola letteraria al male non solo metafisico ma storico, al fascino prima discreto e poi ottenebrante degli ideali distorti e disumani del nazionalsocialismo, all’infingardo opportunismo politico, o ancora all’ingenua tracotanza (e questo forse è stato il caso di Céline, il suo terribile errore) di chi pensava che l’anarchia del pensiero e il rigore dinamitardo dello stile lo avrebbero fatto cavalcare indenne l’onda. Insomma, Céline affossa da un lato le ridicole “inquisizioni” retroattive che tutto vorrebbero gettare nella polvere di cui sono composte, e dall’altro mette sotto accusa sé stesso e una parola letteraria che si vorrebbe invece “pura”, “distante”, irrelata e perciò sempre innocente o assolta a priori. Nel mezzo, rimangono alcune tra le pietre miliari del romanzo di ogni tempo, il Voyage au bout de la nuit e Mort à crédit, ma anche Casse-pipe, le due Féeries, la Trilogia del Nord; ed ora, in attesa d’altro, anche un piccolo gioiello come Guerre.
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[1] La citazione è tratta da L.-F. Céline, Lettres à des amies (a cura di Colin W. Nettelbeck), Parigi, Gallimard, 1997, p. 254.
[2] Eccettuati i casi peculiari di Bulgakov, con il meraviglioso-allucinato del Maestro e Margherita, e di Kafka, che giocava su un altro terreno, percorrendo la via di quella “letteratura minore” (per usare la celeberrima espressione di Deleuze e Guattari) propria del “digiunatore” mentre Céline era piuttosto un “onnivoro”, la grandezza di Céline lungo tutto il XX secolo è paragonabile soltanto a quella della sua nemesi speculare, Marcel Proust, alla pagina traboccante di Joyce o Nabokov, a quella perennemente tesa di Pasternak o Ernesto Sábato. In Italia, l’unico scrittore del secolo scorso dotato di una “lingua-pelle” (cfr. P. Zublena, 2013) tanto mobile, consapevole e stratificata rimane Tommaso Landolfi, seguito a ruota da Gadda. Ci sarebbero poi da analizzare i casi più recenti di Philip Roth e di Martin Amis, nonché di Michel Houellebecq, ammirato e terrorizzato dal maestro. Ma questa sarebbe un’altra storia…
[3] Un aneddoto significativo riguardo all’ammirazione che Céline nutriva per Baudelaire si può ritrovare nel bel volume di Valerio Magrelli Liquido sonetto solubile. Dieci autori riscrivono una poesia di Baudelaire (Roma-Bari, Laterza, 2010). Magrelli riporta la trascrizione di un’intervista a Jacques Izoard che racconta di come, «al momento del loro primo incontro, lo scrittore (Céline, ndA) gli avesse mostrato una sorta di collage composto a partire dal primo dei quattro Projets de Préface di Baudelaire alle Fleurs du mal.» (Magrelli, cit., p. 63).
[4] Tommaso Landolfi, «Un’orgia di realtà», in Gogol’ a Roma, Firenze, Vallecchi, 1971, ora Milano, Adelphi, 2002, pp. 169-173.
[5] Il “raspone”, largamente praticato e metaforizzato in vario modo lungo tutto l’arco della produzione di Céline diventa qui il simbolo del fallimento, dell’inettitudine, di una via di mezzo inaccettabile tra godimento reale e astratto, quando invece la scelta deve ricadere alternativamente su uno dei due poli opposti, l’atto sessuale consumato, oppure il “sangue al cervello” come linfa intellettuale.
[6] Curzio Malaparte, Storia di un manoscritto, in Kaputt, Firenze, Vallecchi, 1944, ora Milano, Adelphi, 2009, p. 14.
[7] René Girard, Problemi di tecnica in Proust e in Dostoevskij, in Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita (Grasset & Fasquelle, 1977), trad. di L. Verdi-Vighetti, Milano, Bompiani, 2021, pp. 238-240.
[8] «Proust, mi-revenant lui-même, s’est perdu avec une extraordinaire ténacité dans l’infinie, la diluante futilité des rites et démarches qui s’entortillent autour des gens du monde, gens du vide, fantômes de désirs, partouzards indécis attendant leur Wautteau toujours, chercheurs sans entrain d’improbables Cythères. Mais Mme. Herote, populaire et substantielle d’origine, tenait solidement à la terre par de rudes appétits, bêtes et précis» (L.-F. Céline, Voyage au bout de la nuit (1932), Parigi, ed. Folio, 1995, p.80).
[9] Frank Kermode, The Sense of an Ending. Studies in the theory of fiction, Oxford University Press, 1966, p. 131.