La concretezza dei corpi filmati e la verità delle parole condivise: un doc di grande sensibilità e di estrema cura formale In una sauna costruita in un bosco rigoglioso, le donne di Voro, piccola città dell’Estonia, si ritrovano stagione dopo stagione. Nel caldo avvolgente di uno spazio scuro e protettivo, giovani e meno giovani parlano di sé stesse, dei loro figli appena nati che coccolano fra le braccia, dei loro ruoli di figlie, madri, mogli, delle loro esperienze di vita, di storie mitiche e lontane, a volte piangendo, altre ridendo o restando in silenzio. In inverno talvolta escono nella neve immergendosi nude nell’acqua gelida, mentre in primavera ed estate partecipano alle feste del villaggio. Poi tornano sempre alla sauna, l’una insieme all’altra, trovando nella reciproca vicinanza il senso delle rispettive esistenze.
La regista estone Anna Hints entra in un mondo riservato, ne osserva i corpi e ne ascolta le parole realizzando così un documentario di grande sensibilità e di estrema, estetizzante cura formale.
La cosa che colpisce di Smoke Sauna è proprio la sua forma esibita: nel chiuso della sauna – microcosmo fisico e ideale, spazio di socialità e condivisione – la regista sottolinea il contrasto tra il nero delle atmosfere e il giallo-ocra dei corpi fiocamente illuminati dai bracieri o dalle lame di luce che filtrano dall’esterno. Le protagoniste sono filmate con piani ravvicinati che mettono in evidenza i dettagli – un piede, un seno, un braccio, un ginocchio, un frammento di schiena o di ventre… – mentre le parole si accavallano e delle persone che parlano si ascolta solamente la voce fuoricampo o si vedono i volti nell’oscurità. Il sudore della pelle crea inoltre effetti di luminescenza che aiutano l’atmosfera della sua sauna a farsi quasi magica, e a un certo punto, in un momento esplicitamente visionario, il racconto di un’anziana signora crea addirittura dal vapore l’immagine di una donna vestita in abiti tradizionali: una creatura mitica proveniente da una dimensione ancestrale.
In realtà, al di là delle soluzioni visive eclatanti (la sensazione è quella di vedere un dipinto come “Il bagno turco” di Ingres incontrare un documentario sperimentale come Somniloquies di Véréna Paravel e Lucien Castaing-Taylor, entrambi declinati però secondo un’eleganza in formato esportazione…), in Smoke Sauna la vera forma di trascendenza sta nella concretezza dei corpi filmati e nella verità delle parole condivise. Libere di esprimersi e al tempo stesso consapevoli di essere filmate, le protagoniste del film si raccontano e si esibiscono nei racconti delle loro stesse vite. In questo modo si ascoltano storie e chiacchiere di ogni genere: le risate per la dimensione di un pene durante un incontro sessuale, il racconto di una maternità sofferta, il resoconto di un aborto forzato, il trauma di uno stupro da adolescente, il ricordo perduto nel tempo di una condizione femminile di eterna subalternità fisica e sociale.
La regista non ha mai veramente il coraggio di abbattere il muro tra sé e i suoi soggetti, rendendo chiara in ogni momento del film la presenza del cinema, il suo equilibrio di chiari e scuri, di corpi e luci, di suoni e parole, anche di silenzi e di musiche dal sapore tribale. Eppure, proprio questo stile artificioso – riconosciuto al Sundance Film Festival dello scorso anno con il premio alla miglior regia di documentari – permette alla parola sisterhood del titolo, vale a dire “sorellanza”, di acquisire un valore preciso: la sauna del film è un’astronave, un posto unico e assoluto, in cui spazio e tempo si confondono rimanendo sempre uguali stagione dopo stagione. Fuori c’è un mondo, dentro un altro: e solo nel buio della sauna le donne del film possono essere quello che veramente sanno di essere