Abbiamo visto “ Sognare è vivere “ regia di Natalie Portman.
Con Natalie Portman, Gilad Kahana, Amir Tessler, Makram Khoury, Shira Haas. Titolo originale A Tale of Love and Darkness. Biografico, durata 95 min. – USA 2015. uscita giovedì 8 giugno 2017.
Nel 2002, lo scrittore israeliano Amos Oz, ha scritto il bel libro autobiografico Una storia di amore e di tenebra ( pubblicato in Italia da Feltrinelli ), diventando ben presto un best- seller internazionale, in cui racconta in modo non proprio lineare la storia della sua famiglia ai tempi della nascita dello stato di Israele, attraverso anche la guerra di indipendenza, gli attacchi terroristici, la perdita violenta di persone care e la vita nei kibbutz. Ma soprattutto c’è un’affettuosa, drammatica e tenera descrizione della madre, del suo modo di essere poco convenzionale e del suo dramma personale esistenziale; c’è anche il contrasto del ragazzino nei confronti del padre mai espresso direttamente nel film. L’uomo è un intellettuale della destra ebraica, gentile ma freddo e scostante, che cerca in altre donne ciò che sua moglie non riesce a dargli ed è chiuso nella rigidità delle regole sociali. Contrasto che porterà il giovane, a quindici anni, alla decisione di entrare nel kibbutz Hulda e di cambiare il cognome originario Klausne in Oz, che in ebraico significa forza.
Potete quindi immaginare quanto ci sia di materiale per un film del genere, un film corale, storico ma anche privato ed esistenziale; di quei film alla David Lean o alla Richard Attenborough, invece Natalie Portman, attrice più che regista e sceneggiatrice, ha amato questa storia – immaginiamo – soprattutto dal punto di vista della madre e con forza e determinazione è riuscita a realizzare un film più su una donna fragile e fantasiosa che su un contesto storico, realizzando in modo un po’ incerto narrativamente e passando la palla tra il bambino e la madre, mettendo tutto il resto sullo sfondo e rispettando quella non linearità del racconto di Oz che tuttavia al Cinema richiede altre abilità registiche.
E la gestazione di questo film ne è la riprova, la Portman ( di origini israelitiche ma naturalizzata statunitense ) dopo aver acquistato i diritti del romanzo nel 2007, ha cercato degli sceneggiatori, ma, come ha dichiarato, le hanno risposto tutti che lei aveva le idee così ben chiare sul come realizzarlo che avrebbe dovuto scriverselo da sé, cosa che poi ha fatto; ha impiegato quindi parecchi anni per scrivere la sceneggiatura e trovare dei finanziatori ed ha insisto per girarlo in lingua ebraica. Realizzato tra il 2014 e il 2015, è passato al Festival di Cannes, uscito nelle sale in Israele in quell’anno stesso, mentre negli Stati Uniti l’anno successivo, ora giunge nelle nostre sale l’8 di giugno.
Un’operazione coraggiosa e importante che tuttavia mostra come un’attrice, pur sensibile e brava, dovrebbe lasciare a dei professionisti il compito di scrivere e dirigere; un peccato perché c’è tanto materiale in questa storia, tanta buona introspezione, oltre che un ottimo romanzo, e ciò che in realtà resta è una straordinaria fotografia, delle scenografie molto suggestive, un cast credibile e purtroppo una drastica riduzione della storia nella quale la Portman non ha trovato e nemmeno cercato lo sguardo del narratore, sviluppando solo il rapporto tra madre e figlio e soffermandosi sul disagio sempre più intenso della donna.
Yehuda Arieh Klausner e Fania Mussman sono immigrati polacchi dell’Europa Orientale e vivono a Gerusalemme prima della nascita dello stato di Israele. Lui ha studiato storia e letteratura a Vilnius, lavora come bibliotecario e scrive anche dei libri. E’ un uomo gentile ma scostante, rigido nella forma e ossequioso della morale dell’epoca. Fania invece è una dolce e sognante giovane signora, sopravvissuta allo sterminio del suo paese ed ha conservato i desideri e le illusioni dell’adolescenza che la realtà e il tempo non le permettono di vivere, inizia quindi ad avere sempre maggiore disagio verso il mondo e verso suo marito ( bella la scena in cui lei decide in un barlume di ottimismo di invitare a ristorante in un giorno feriale figlio e marito, per poi restare delusa dal comportamento formale e serioso di lui e quindi rinuncia a mangiare intristita ). Insomma una coppia educata e civile, soprattutto per quei tempi, ma sono due esseri umani talmente diversi che non hanno quasi nulla da condividere; e lei si ritrova sempre più a vivere i lati più angusti e più malinconici dell’esistenza nonostante voglia molto bene a suo figlio; un deterioramento personale lento che la porterà a un immalinconimento che la farà ammalare nell’animo…
La Portman come regista mostra delle intuizione visive interessanti, alcune scene risultano belle e delicate ( supportate da costumi, fotografia e scenografia di alto livello ) ma sono troppo frammentarie, come se avesse girato una serie di videoclip tratti da un romanzo, e approfondisce – perché affascinata come attrice dal bel personaggio femminile – solo il suo personaggio, collezionando però più frammenti di storia che non una storia piena emotivamente. Notevole il ritratto di donna sempre più immerso nella malinconia e nella delusione, apprezzabili quelle note oscure dell’animo che porta come attrice nei panni della madre dello scrittore Amos Oz.